Sarah Dierna (1997) è attualmente dottoranda di ricerca in Scienze dell'Interpretazione - XL Ciclo, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania. Scrive su varie riviste scientifiche - «Discipline Filosofiche»; «Vita pensata»; «il Pequod»; «Gente di Fotografia»; «Dialoghi Mediterranei».

Recensione a: D. Miccione, La congiura degli ignoranti. Note sulla distruzione della cultura, Valore Italiano editore, Roma 2024, pp. 165, € 25,00.

«La scuola», scriveva una delle personalità più attente all’educazione dei giovani quale fu Giovanni Gentile «dev’essere, non diminuzione e prostrazione dello spirito, non meccanizzazione artificiale delle categorie della vita, ma la più chiara celebrazione di quello, e il rinnovamento continuo di questa in tutta la sua pienezza e freschezza»[1]. Quando, come e in che modo la scuola è finita per diventare invece proprio una arida meccanizzazione dello spirito rendendosi complice della distruzione della cultura?

Anche a questa domanda tenta di rispondere La congiura degli ignoranti di Davide Miccione. Con la consueta disposizione ironica che fa da lenitivo o forse da reagente alle pagine più amare – vale a dire le più vere – del volume, l’Autore conduce una lucida analisi del nostro presente e lo fa assumendosi il compito difficile ma necessario di rendere la filosofia il proprio tempo appreso con il pensiero proprio come suggeriva Hegel. Sullo sfondo della lettura che propongo, come strumento di confronto e di analisi del nostro presente c’è la pedagogia di Giovanni Gentile, la distanza dalla quale si comprende meglio se la si mette in dialogo con il lavoro di Miccione.

Dinnanzi al tribunale della ragione questi mette sotto accusa il web, la scuola – in tutti i suoi livelli – e la politica, vale a dire i «luoghi in cui attivamente […] si demolisce quel che restava della cultura italiana» (p. 30). I sintomi più evidenti di questa demolizione sono ben osservabili nel depauperarsi del fatto educativo; nella contrazione del presente che perde di vista la storicità insita in se stessi e nelle cose; nel lento ma inesorabile sfiorire dei saperi sostituiti da attività che devono essere spendibili e consentire a colui che le svolge di accumulare crediti e di ottenere dei risultati (magari quantificabili); nell’alienazione in cui la ragnatela della rete inchioda gli utenti per un tempo ampio e indeterminato che assopisce la mente condizionandola, distraendola e stancandola in un pingpong ipertestuale che porta a dimenticarsi il primo motivo per cui si è preso in mano il cellulare o si è aperta la pagina Google sullo schermo del nostro computer. Anche perché il luogo privilegiato della cultura è la scuola, è a essa che Miccione dedica particolare attenzione aggiungendo alla consueta disamina distante e critica la condivisione di alcune esperienze personali frutto, probabilmente, di una dedizione ancora gentiliana – è il caso di dire – al proprio lavoro.

Se uno dei grandi meriti dell’attività politica e pedagogica di Gentile è stata l’introduzione dei licei classici e scientifici quali luoghi di formazione propedeutici non a questa o quella professione bensì allo svolgimento dello spirito che, nell’attività scolastica, diventa lo svolgimento di una relazione costruttiva dell’educatore e dell’educando, tale tipo di formazione sta ormai da decenni subendo un declino lento e inesorabile; mentre si estende l’etichetta di ‘liceo’ per contrassegnare indirizzi scolastici che del liceo condividono molto poco, si assiste al progressivo svuotamento anche delle discipline che tipicamente distinguono una proposta educativa da un’altra. Ci si ritrova così ad avere licei che equivalgono a istituti tecnici e professionalizzanti, vale a dire spazi di apprendimento in cui viene meno il pensiero, la teoria, lo sforzo di comprendere il proprio tempo e di significare il mondo:

la tecnica pretende appunto di assiderarsi in mezzo tra la teoria e la pratica, volendo essere quella teoria, che non è mera teoria, perché è indirizzata alla pratica: e sarebbe propriamente quella certa teoria, che costituisce in potenza il soggetto di una certa pratica. […] Il suo possesso è dunque quel certo sapere, per cui può fare […]: un sapere che è sola potenza di fare[2].

È tale perché ha di fatto bisogno di un orizzonte comprensivo e precomprensivo (o implicito) più ampio e articolato, che serve alla pratica per non restare mera procedura passiva della quale non si comprende lo scopo o il senso.

Tra i concetti cardine della riflessione pedagogica del filosofo di Castelvetrano c’era poi l’attenzione per una scienza viva e non libresca, che non si riduce quindi a percorsi facilitati e utili, a crocette e a linguaggi poveri o anglicizzati, a prove invalsi valutatrici di niente alternate ad attività lavorative o a indirizzi di studio più accessibili (sportivo, scienze applicate, linguistico) in cui il latino o l’ora di filosofia scompaiono. Contro queste distrazioni – perché tali sono – il professore Gentile ricorda che «fa desolata la scuola dove non entri altro che la scienza col suo rigore e la sua esattezza, che pare s’aggravi sullo spirito come un incubo, e lo costringa e l’abbatta nelle strette del suo spietato congegno: quella scienza, che toglie il respiro e suscita acuta la nostalgia della vita col suo fremito e dell’arte con l’impeto della sua lirica»[3].

Rispetto alle pretese dei decisori politici che nel ministro di turno diventano proposte, disegni di legge e progetti di varia ambizione e natura, una pedagogia consapevole dell’importanza del fatto educativo si accontenterebbe di molto meno (che poi equivale a ‘molto di più’):

La scuola deve contentarsi di stimolare, additare una luce lontana, una meta alta, non pretendere pappagallesche ripetizioni e virtuosità disquisitive di dottori in erba. La via del sapere sincero è lunga; […]. Questa voglia non si fa nascere dando un sapere, ma dando il bisogno del sapere, e mettendo nell’anima, con le difficoltà dei problemi che sorgono dall’intimo di essa, il pungolo della riflessione ulteriore[4].

E invece le preoccupazioni della scuola e delle istituzioni che se ne occupano consistono nel fatto che «i giovani italiani siano troppo poco imprenditori, che siano troppo poco digitali, che non entrino abbastanza velocemente nel mercato del lavoro (che si fa finta ci sia ancora). Insomma, [il ministero] è preoccupato essenzialmente dalla possibilità che la distruzione culturale non proceda con sufficiente velocità» (pp. 53-54).

I crediti, la ricerca di attestati, la raccolta punti, l’attività burocrate del docente, le modalità di svolgimento delle lezioni, l’ambiguo quanto oscuro criterio di attribuzione del merito, la stesura di un curriculum in grado di dire assai più sul proprio reddito economico che sull’effettiva competenza di colui che lo ha compilato; ancora una volta è Gentile ad affermare che «le licenze e le lauree servono in pratica come etichette ai barattoli»[5].

Miccione ricostruisce con zelo e distanza tutti i momenti decisivi dell’educazione. Nel dire qualcosa sulle scuole, egli sta dicendo qualcosa anche su coloro che sulle scuole decidono. Anche per questo il terzo ambito di discussione è quello politico pur senza essere approfondito particolarmente come quello scolastico. L’Autore mostra infatti gli esiti di tutto questo, gli spazi in cui si cospira contro la cultura e gli interventi mediante i quali si attua tale cospirazione. Credo si possa dire che si tratta di una riflessione fenomenologica in cui Miccione non si limita, per così dire, a osservare e a descrivere ciò che si dà ma a metterlo tra parentesi; non tuttavia per sospenderne il giudizio, bensì per riuscire a costruirne uno che sia libero, critico, attento.

Uno sguardo che ha il merito di fornire una narrazione molto lontana da quella alla quale si è più comunemente abituati; un lavoro che Dario Generali ha descritto come «uno strumento raffinato di analisi e di comprensione e, nel contempo, una chiara presa di posizione critica nella fondamentale battaglia, per la quale tutti noi non dovremmo smettere di impegnarci, di difesa di un modello decente di società, di scuola e di università» (p. 22).

Ciò che le lucide pagine di Miccione mettono in risalto non è soltanto l’insieme delle dinamiche scolastiche che collocano la cultura sul pendio scivoloso della fine e collocano sul podio l’ignoranza. La cultura così come la scuola non esisterebbero infatti se non ci fossero educandi ed educatori. Pertanto, i fenomeni di cui i sistemi scolastici di ogni grado e livello sono vittime ma anche complici rappresentano semplicemente il cratere attivo di una crisi antropologica. La prima e più preoccupante conseguenza di tale tendenza è la difficoltà sempre maggiore di comprendere il mondo a vantaggio invece di coloro che il mondo lo guidano, lo orientano e ne muovono le parti come se fossero i pedoni di una scacchiera.

Va detto: dietro il sogno di una scuola digitale e all’avanguardia, dietro lo svilimento del processo educativo e le sue controverse procedure, dietro l’acquisizione di questa o quella competenza opportunamente certificata concorre «una prassi subumanista, in cui gli uomini vengono addestrati […] a mettere tra parentesi la propria soggettività, a limitarsi ad applicare criteri su cui non hanno riflettuto, ad essere versioni scadenti (con meno ram, meno spazio nel disco rigido, più errori) di un computer, a non pretendere di essere altro. […] Un postumano al ribasso è l’operazione che si sta svolgendo nelle aule scolastiche e universitarie» (pp. 123-124). In queste aule non c’è più posto «per alcune posizioni dei vecchi chierici sopravvissuti […], [per] la loro pretesa di voler trarre dagli eventi un senso e una direzione e di poterli discutere. In altre parole, l’inaccettabilità della cultura occidentale come finora l’abbiamo conosciuta» (p. 124).

La dimensione subumana, la sua eclissi, emerge con particolare risalto proprio in ciò che Miccione giustamente definisce un ambiente e non uno strumento: il web. Il modo ossequioso con il quale si condivide il tempo e la vita nel, con e tramite il web avvilisce ulteriormente la peculiarità sociale, corporea e relazionale dell’animale umano. Ciò che colpisce di questo mondo invisibile, silenzioso e parallelo è il modo in cui si sostituisce a quell’altro mondo, visibile, spesso chiassoso e coincidente con il nostro accadere senza che se ne abbia contezza. A peggiorare la situazione è il fatto che «non è però il dialogo con l’altro la prima vittima quanto il dialogo con se stesso o quella lettura meditata che al dialogo con se stessi si approssima. Il web sta formando/selezionando le sue forme antropologiche adeguate, e profondità, riflessività, contemplazione, non sembrerebbero essere previste» (p. 145).

Non è più previsto un sapere che sia duraturo, sono censurati quei «maestri dei begli anni lontani» dai quali «noi pur sempre impariamo […], che ci parlino con viva voce o per gli scritti, nei libri, o per le forme quali che siano della loro spiritualità: tele, marmi, monumenti, istituzioni, leggi, costumi; e dalla natura sempre viva, sempre presente»[6]. Gli antichi pensatori sono ormai sepolti oppure rivoltati nelle tombe per avere detto, scritto o elaborato nel lontano Trecento un pensiero che risulta inconcepibile e offensivo nei vicini anni Venti del XXI secolo. Non è più chiesto conoscere i classici o imparare a memoria una poesia. È tuttavia richiesto stare al passo con i nuovi modelli educativi, impararli e applicarli per non lasciarsi sostituire.

Il web, insieme allo spazio fisico nel quale ancora viviamo e operiamo, sta inoltre contribuendo a tessere una tela così complessa e intricata, dai fili così sottili da condurre a un epilogo piuttosto preoccupante che Miccione definisce «idiocrazia subumanista’». Il primo sintomo di questa condizione è ciò che Olivier Roy ha definito la crisi dell’implicito (pp. 153 e sgg).

Rispetto a tutto questo è legittima, oltre che giusta, la domanda che l’Autore pone prima di congedare il lettore: «Quale livello di malafede o di integrazione al sistema o di stupidità si deve raggiungere per pensare che un cambiamento simile non produca nulla di radicalmente diverso e forse mostruoso?» (p. 160). «Il primo passo», suggerisce l’Autore, «per discutere della possibilità di evadere dalla gabbia è di sapere dunque che ci stiamo in questa gabbia» (p. 34). Il libro di Davide Miccione è un utile strumento per imparare a riconoscere la gabbia, per riuscire a vederla, per rendersi conto del panopticon nel quale ci ritroviamo. Si impara a vedere meglio alcuni fatti del presente. Si sente con ancora più amarezza e disincanto la distanza da un modello pedagogico che forse abbiamo perduto per sempre. Viene voglia, infine, di riprendere in mano e di leggere quell’opera splendida che fu Sommario di pedagogia come scienza filosofica per ricordarsi di che cosa era la scuola appena un secolo fa. Di che cosa dovrebbe essere.

NOTE

[1] G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Volume I Pedagogia generale, Sansoni, Firenze 1954, p. VIII.

[2] Ivi, p. 121.

[3] Ivi, p. 248.

[4] Ivi, p. XI.

[5] Ivi, p. 139.

[6] Ivi, p. 141.

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