Gianfranco Andorno (1937), da bambino ha vissuto a Genova i tragici eventi della guerra, che ricorda intensamente. Giovanissimo vanta articoli su “Il Borghese” di Leo Longanesi. Conserva una lettera di Gianna Preda che si complimenta e lo incoraggia.  Poi si adegua ai dettami delle avanguardie e partecipa al “funerale” della parola scritta. Opta per le immagini che ritiene più immediate: la fotografia (Popular Photografy ecc.) e la pittura (Flash Art). Mostre a Milano 1998, Art Innsbruck 1999. Infine, ha un ripensamento e ritorna alla scrittura. Con il primo libro Le stagioni dell’inganno raccoglie il Fiorino d’Oro a Firenze. Altri libri premiati: Prima che il buio(Cinque Terre Golfo dei Poeti); Il falò dell’io (terzo premio Lord Byron Porto Venere 2022). Il suo slogan è: “Scrivo storie che non sono storie”.

 

Chi si interessa di storia, letteratura è simile a un cercatore di funghi, pronto all’entusiasmo della scoperta, sorretto e spinto anche dalla curiosità.  E quando estrae dai volumi un tubero notevole è subito colto dalla voglia, dalla frenesia di esporlo. Mi accade. Ecco quanto ho esumato: il plagio della trascendenza! I religiosi offrivano all’uomo una bella vacanza ma solo nell’aldilà, a far loro concorrenza sono subentrati gli intellettuali. Naturalmente dovevano proporre un qualcosa di meglio e lo fanno. L’Eden non sarà più donato dopo la scocciatura della morte, un passaggio triste e lacrimevole, ma durante la vita. Gli intellettuali assumono le vesti di chierici, di profeti con l’invito all’immanenza. Cioè, avrete subito qui una beatitudine terrena, una palingenesi stradaiola. A postulare l’avvento è Luciano Pellicani che attinge da Augusto Del Noce l’epoca della secolarizzazione. E iscrive all’ufficio di collocamento i rivoluzionari di professione. Da questo nasce la grande alternativa. Un buon appoggio al progetto viene dal filologo sassone, un po’ strambo, che proclama: “Dio è morto” e tanti si accodano. A vedere il seguito gli intellettuali hanno un buon successo, siamo tutti un po’ creduloni, ma ahimè per giungere a quanto promesso non è far le prove su un oggetto ma sulla gente, su un popolo.  Nelle provette del laboratorio ci sono uomini donne preda di questi sognatori dell’assurdo, sposi di un’utopia rimasta immacolata.

Ma cosa sono? Non vogliono essere classe, si ritengono un gruppo di alieni, una specie di intoccabili, ma Gramsci li inventaria, li scheda. La loro ambizione sarebbe di costituire l’élite del potere ma questo lo detiene il Capitalismo che usa come maestranza la borghesia. Delusi, frustrati, rischiano la “proletarizzazione” e allora vanno in trincea. Hanno interessi da difendere, diventano profeti armati, fomentatori di rivolta nei paesi industriali. Devono trovare dei selvaggi da convertire, guidare, e si rivolgono agli have not che sono più bellicosi degli have.  A comandare loro, i dottrinari. Il pensatore polacco Jan Machajski al riguardo è esplicito, ha scritto: la dittatura dell’intellighenzia. Per lui gli intellettuali sono dei capitalisti, hanno un capitale nascosto, il sapere. E questo gli darà lo scettro.

Il gregge da condurre alla terra promessa “in terra” è il proletariato, ed è un gregge cieco che necessita del pastore che gli indichi la strada, glielo spiegano, glielo impongono i pastori. Il paradiso terrestre comporta però la distruzione dell’esistente e se i predestinati sono recalcitranti accade che si faccia ricorso ai soprusi. Si sporcano le mani come Jean-Paul, e l’umanismo auspicato si trasforma in Terrore.

Ad affrontare questi novelli missionari c’è imbarazzo, dovuto alla parcella di timore riverenziale, ma loro hanno sulla coscienza milioni di vite, di sorrisi spenti.  Hanno pagato, si dirà, sono rimasti coinvolti negli eccidi. Ma loro sono quelli dell’aspirapolvere che doveva aspirare la miseria, la diseguaglianza, lo sfruttamento. Strumento che invece ha risucchiato ideatori e acquirenti. Sono quelli dell’insana e assurda componente fideista che nel suo prezzo comprendeva il martirio, sono i truffatori del regno di Dio senza Dio.

Esaminati i risultati storici, i fallimenti, è evidente il miglior impiego degli intellettuali come ruffiani del Principe, giullari di corte.  Destano ilarità e provocano meno danni. Pierluigi Battista aggiunge quelli che definisce i conformisti, ovvero quelli che si adeguano sempre al vincitore. E lo ossequiano, lo incensano.

Nella disamina subentra un tedesco dal cognome rompicapo, Gerhard Szczezesny, con il suo libro Il così detto bene o l’impotenza degli ideologi. Esilarante e ambigua la prefazione di Furio Colombo, l’enfant prodige e radical chic di casa Agnelli. Questi non riesce a sottrarsi al fascino dell’autore, alle sue motivazioni, ma lo accusa di lesa maestà in quanto include nella requisitoria, nei suoi anatemi, i suoi amati cattivi maestri. Il libro, pagina dopo pagina, diventa un inno all’uomo nella sua essenza. I suoi difetti, le malattie, la vecchiaia, il feticcio lavoro non potranno essere debellati da nessun tipo di politica. E anche l’altruismo se arrogante coercitivo può diventare pernicioso. A suffragare il pericolo insito nel voler fare il bene interviene Alain De Benoist con I demoni del bene. Cita l’impero del Bene, ovvero il grado zero della vita sociale. Paventa con altri che l’esagerazione dei buoni sentimenti sia una coltre di istupidimento, la dittatura dei buoni. Che ci sia la gara a contendersi il monopolio dei cuori.

Per il Gerhard la soluzione è un umanesimo qualitativo senza ideologi. Ma facendo questo lui non si erge a ideologo? Un ginepraio senza fine.  L’uomo deve liberarsi dal retaggio dei miti collettivi. «L’uomo è completo in se stesso. Reale è soltanto ciò che si svolge nei sentimenti e nella coscienza dell’individuo». L’uomo è un universo, non lo scrive ma lo suggerisce. Così forte da affrontare il sacrificio, la Passione della vita, aggiungo. E nel suo orizzonte, nel suo crepuscolo, un rosario di agonie eroiche. Questa esaltazione dell’uomo si contrappone pienamente al filosofo ungherese Lukacs, al suo marxismo, che afferma: «Solo la classe può penetrare la realtà sociale e trasformarla in Totalità». Szczesny così conclude: «Un’unica cosa ha significato: se l’uomo nell’arco della sua vita ha vissuto come persona sensibile e razionale».

L’ideologo predica di andare a piedi. ma lui usa l’ascensore. Szczesny se n’accorge e taglia le funi. La sua conclusione sembra quasi un ossimoro abbandonato al vento. Un monito spirituale impalpabile perorato ad un pubblico che non c’è, che non esiste.

Ultima annotazione dovuta. Gerhard Szczesny, dopo aver avversato tanto la religione, con libri e convegni, negli ultimi anni della sua vita si accosta al cristianesimo integralista. Eh la volubilità dell’uomo, qualità tanto deprecata, la conosciamo bene! I tempi sanno essere beffardi. Da notare che ora Marx è infuriato, hanno fatto sparire il proletariato e gli eredi di Karletto devono corteggiare i portatori di pizza, i riders. Il lumpenproletariat. Non resta loro che un dubbio amletico, la scelta tra la margherita o la capricciosa.

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