Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Nel De vulgari eloquentia Dante Alighieri afferma che, nel suo tempo, solamente tre sono le lingue a cui si può riconoscere dignità letteraria – da intendersi come “le uniche lingue, oltre al latino, con cui si possa comporre poesia”. Le zone sono differenziate a seconda di come, in esse, si pronuncia la parola “sì”. La prima si parla nel nord della Francia, ed è la lingua “d’oil”. La seconda è nel sud della Francia, nella cosiddetta area “occitana”, ovvero dove si parla la lingua “d’oc”. La terza lingua si parla in Italia, il «bel paese […] dove ‘l sì sona». Per iniziare, ci concentreremo sulle prime due aree.
Ora Dante, nella sua valutazione, era stato decisamente accurato; è in territorio francese, infatti, che a partire dalla fine dell’XI secolo si assiste alla prima grande fioritura della poesia volgare. Dunque, al tempo di Dante, le zone evidenziate potevano far vanto della tradizione poetica più duratura e credibile, almeno al di fuori del latino. Il prestigio a cui era arrivata la produzione letteraria occitana e d’oil lo si può intuire dal fatto che, nel corso del XII e del XIII secolo, si cominciò a scrivere opere poetiche in quelle lingue anche fuori dai confini francesi. In generale, la lingua occitana era considerata come più raffinata ed utilizzata per la poesia lirica, la lingua d’oil, invece, era prediletta per i poemi e i romanzi cavallereschi, per la sua natura avvertita come più aspra. Ma chi erano i compositori e come vivevano quest’epoca non certo semplice dal punto di vista sociale? Cominciamo la rassegna dal sud della Francia.
Com’è noto, i poeti occitani prendono anche il nome di “trovatori”. Sin dalle origini vi è uno stretto rapporto tra i trovatori e l’ambiente cortigiano. Questo non provoca stupore: se oggi il saper leggere e scrivere è considerato parte delle competenze basilari, al tempo era indice di privilegio e distinzione culturale e sociale. Dunque, ecco un primo dato su cui soffermarsi: il numero dei lettori e dei fruitori di opere scritte, al tempo, era assolutamente più ristretto rispetto ad oggi. Questo, sia per l’elevato tasso di analfabetismo, sia per la grande difficoltà nel far circolare le opere che, ricordiamo, non potevano che essere manoscritte. Per dare una stima, si può dire che una certa opera, al tempo, fosse molto diffusa, se viene ritrovato un numero di copie manoscritte stimabile tra i 30 e i 35 esemplari – fa caso a parte la Commedia, di cui contiamo, ad oggi, più di settecento copie manoscritte: parliamo, però di un caso unico nel suo genere. C’è poi da considerare che, molte volte, i volumi contenenti le opere erano delle miscellanee, ovvero al loro interno ospitavano o più opere dello stesso autore, o di autori diversi. Questo perché procurarsi gli elementi per scrivere non era facile (soprattutto la carta, che, essendo ricavata dalla pelle di capra con un processo molto laborioso, non doveva essere sprecata). In tutto questo, dunque, la scrittura stessa prendeva un valore diverso, rispetto ad oggi. Certamente, tra i trovatori, grande peso aveva l’oralità, tanto più che i testi erano, spesso e volentieri, accompagnati dalla musica. Ecco che la pratica della scrittura ha lo scopo di memoria, di affermazione autoriale – rivendicare che un certo tipo di ritmo, un certo tipo di stile è nostro, e di nessun altro – nonché diffusione.
Talvolta, possiamo dire che la diffusione avesse uno scopo semplicemente narcisistico, in particolare quando i trovatori erano molto abbienti. Non è una rarità, basti pensare che la maggioranza dei rimatori erano nobili, come il primo tra i trovatori conosciuti, Guglielmo IX, duca d’Aquitania, o come Bertrand de Born, barone del Limousin. In questi casi, il compositore non ha urgenze di tipo materiale, e non ha bisogno, dunque, di chiedere sostentamento alla sua arte. Ma coloro che non potevano far leva su delle ingenti ricchezze? Non tutte le famiglie nobiliari, infatti, erano ricche. La nobiltà minore e la nobiltà cittadina, molte volte, possedevano come unica ricchezza il proprio titolo. Si pensi, in questo caso, al trovatore forse più famoso, ovvero Arnaut Daniel. In questi casi, far della propria arte un mestiere poteva valere la sopravvivenza. Così, la diffusione della fama non aveva solo valenza narcisistica: con essa, si contava di poter arrivare a qualche buon mecenate, disposto a donar qualcosa. Molti di questi trovatori, per entrare nelle grazie di qualcuna delle varie corti francesi, ricopiavano più volte una loro opera in volumi diversi, scrivendo in ciascuna di esse una dedica diversa. Successivamente, ciascuna di queste copie era spedita al dedicatario corrispondente, nella speranza che qualcuno di questi nobili, lusingato, premiasse il povero autore. Questo uso è documentato almeno fino al XV secolo; si pensi a Christine de Pizan, che dedicò la sua opera Livre des fais et Bonnes meurs du sage roy Charles V prima al duca di Berry, poi, a Giovanni di Borgogna. L’uso della dedica plurima ci consente qualche riflessione interessante. Anzitutto, ci fa capire il rapporto dei poeti stessi con le corti: la celebrazione e la dedica, rare volte hanno qualcosa di spontaneo, il più delle volte sono solo veicoli per arrivare a doni. Se i favori di un signore non soddisfacevano, in termini materiali, il poeta non si faceva molti scrupoli a cercarsi un altro benefattore. Questo accadeva tanto a Sud, quanto a Nord. Il famoso poeta anglo-normanno Wace, alla fine del suo Roman de Rou, si lamenta che il suo protettore, Enrico II, nei seguenti termini: «Mult me duna, plus me pramist» (“molto mi ha donato, di più mi aveva promesso”). A confermare questo rapporto con i protettori, i doni che venivano richiesti; contrariamente a quanto si possa pensare, le richieste più frequenti non riguardavano il denaro, ma il regalo e il mantenimento di un cavallo, che permetteva spostamenti più agevoli da una corte all’altra. Ma la dedica multipla è sintomo anche di un’altra cosa: non sempre i signori si dimostravano sensibili al richiamo della poesia. Molte dediche, anzi, cadevano nel vuoto, o per scarso interesse del nobile in questione nei confronti della poesia, o per una valutazione negativa dell’opera proposta. Per questo, era rischioso concentrarsi su un solo signore. Non si pensi, dunque, che la pratica del mecenatismo fosse in voga in tutte le corti del tempo.
Ma come facevano le persone poco abbienti, ad imparare la pratica della lettura e della scrittura, che abbiamo detto riservata a pochi? Ad assicurare l’istruzione e le conoscenze basilari per cimentarsi nella scrittura e nella composizione lirica, era stata l’altra grande istituzione del tempo, ovvero la Chiesa. Molti, anche non appartenenti alla classe nobiliare, avevano potuto avviare una carriera di studio, grazie alle istituzioni ecclesiastiche. Solitamente, lo studente prendeva i voti minori, ovvero diventava “chierico” – il che significava entrare nelle gerarchie ecclesiastiche, ma non diventare prete. Così facendo, era esentato dal pagamento delle tasse al sovrano, e dunque dall’obbligo di lavorare: non lavorando, quindi, poteva dedicarsi completamente allo studio. Ad usufruire di ciò, solitamente, erano gli esponenti della nobiltà minore, ma anche figli di mercanti e notai, all’interno dei ristretti contesti cittadini; gli abitanti delle campagne, che erano la stragrande maggioranza della popolazione, restavano dunque fuori da queste dinamiche.
Alcuni di questi chierici entravano anche al servizio dei signori, con incarichi prestigiosi come quelli di “storico di corte”. Nel nord della Francia, molte di queste figure si dedicavano anche alla scrittura di romanzi e poemi a tema cavalleresco, che avevano l’intento di dilettare le corti e diffondere certi codici di comportamento per la cavalleria; questi autori sono detti “trovieri”, ed il primo, nonché più importante, da noi conosciuto è Chrétien de Troyes, chierico al servizio prima di Maria di Champagne, poi di Filippo d’Alsazia. Il rapporto di questi con le corti è più stretto, rispetto ai trovatori, ma le dinamiche sono simili: si pensi al già citato caso di Wace, ma lo stesso Chrétien, vediamo, non stette tutta la vita al servizio di una sola corte. Anche il pubblico di riferimento non cambia: i primi destinatari e fruitori sono sempre i nobili.
Gli ambienti cortigiani e clericali, saranno per lungo tempo i luoghi privilegiati per lo sviluppo della poesia, per quanto sia da segnalare un’eccezione non trascurabile: la Toscana del periodo comunale. È qui che, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, si assiste, per la prima volta, a una produzione poetica staccata dalla corte e pure dalla Chiesa: si assiste così, alla nascita della poesia di tema politico (Guittone d’Arezzo), al tentativo di costruzione di una cultura laica (Dante), nonché a una contaminazione con tematiche filosofiche (Guido Cavalcanti). Con l’emancipazione dalla corte, però, decade anche l’idea di potersi sostentare tramite i versi; al contrario dei trovatori, quasi tutti questi poeti si occupano anche di altro, oltre che di lirica: Guittone d’Arezzo era un mercante, Dante amministrava alcuni poderi lasciatigli in eredità dal padre, in più era impegnato nella vita politica cittadina; Guido Guinizzelli era nel ramo della giurisprudenza, così come Cino da Pistoia. Eccezioni possono essere viste in Guido Cavalcanti e Cecco Angiolieri, ma sono solo apparenti: entrambi, infatti provenivano da ricche famiglie della nobiltà cittadina; il primo non ebbe dunque bisogno di lavorare, il secondo avrebbe potuto fare lo stesso, ma dilapidò tutte le sue fortune.
Data l’assenza di corti, pure il pubblico di rifermino cambia. Non si pensi, però, che l’utenza di partenza, rispetto a quella trobadorica, sia molto più ampia: semplicemente, i poeti scrivono per essere letti da altri poeti. Soprattutto i poeti dello Stil novo – il gruppo certamente più importante – tendono a ribadire, nelle liriche, che i versi scritti sono indirizzati solamente a coloro che hanno “gentil core”, ovvero un cuore nobile. Si escludono, dunque, tanto i villani, quanto parte della nobiltà di sangue, che non possiede la giusta sensibilità. In Cavalcanti, nella canzone Donna me prega, si assiste addirittura ad una esclusione più netta: non solo chi non possiede il “gentil core”, ma pure chi non conosce i fondamenti della filosofia aristotelica e delle scienze naturali, non può essere in grado di affrontare i suoi componimenti. Le eccezioni, che confermano la regola, le troviamo nella poesia giullaresca, ad opera, ad esempio, del già citato Angiolieri; questi tipi di liriche erano però disprezzate dagli stilnovisti – fatta eccezione per Dante. Proprio quest’ultimo, forse, incarna la più grande anomalia del tempo, con la Commedia, che conta invece una diffusione popolare senza precedenti – oltre al già citato numero di copie, si considerino anche le innumerevoli letture pubbliche, che fecero conoscere l’opera anche a una grande massa di analfabeti.
Nonostante la fecondità dell’esperienza, ben presto furono i poeti stessi, a rigettare o essere rigettati dagli ordinamenti comunali: Guittone d’Arezzo prende i voti, Guinizzelli è costretto all’esilio per motivi politici, così come Cavalcanti e Dante che, allontanato da Firenze, entra nell’orbita delle corti, prendendo servizio in alcune delle nascenti signorie del nord Italia. Si dovrà attendere il XVIII secolo, per assistere nuovamente all’emancipazione dei poeti dalle corti e dal contesto culturale ecclesiastico – emancipazione che, da quel momento in poi, sarà permanente.