Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Uno dei motivi per cui è complesso dare giudizi sulla contemporaneità, è che è l’unico periodo storico di cui abbiamo diretta esperienza. Questo, per forza di cose, deforma la nostra percezione, traendoci più volte in inganno nei confronti dei processi storico-culturali che ci circondano.
In questa sede, prendiamo in esame uno dei più radicati luoghi comuni della nostra epoca, ovvero il fatto di vivere in un periodo di crisi della letteratura. Tale crisi, più che alla qualità degli scrittori, viene principalmente imputata ad un pubblico disabituato alla lettura e, conseguentemente, al poco rilievo sociale che agli scrittori stessi è concesso di ritagliarsi. Ad essere particolarmente colpita da questa crisi, poi, pare essere la poesia. Chi oggi si cimenta nella produzione poetica, in molti casi, lamenta il disinteresse delle case editrici, dovuto a sua volta ad una mancanza di domanda e di pubblico. Quest’ultima affermazione non può che far sorgere spontaneamente un dubbio: qual è il pubblico della poesia, oggi?
Questa domanda, d’altronde, aleggia all’interno degli studi letterari da almeno la seconda metà del Novecento; ricordiamo il saggio, dal titolo decisamente esplicito Il pubblico della poesia, di Alfonso Bernardelli e Franco Cordelli, datato 1975. I due studiosi, tramite un questionario posto ai maggiori poeti a loro contemporanei, cercano di indagare la crisi di pubblico della poesia – che dunque scopriamo avere radici cronologiche più profonde di quanto il pensiero comune creda. Al tempo, il percepito disinteresse nei confronti dei lavori in versi fu imputato, da alcuni, a un eccessivo impegno politico-sociale dei componimenti; si pensi a Pasolini, ma anche al gruppo della neo-avanguardia. Ma questo aveva stufato più il pubblico o i poeti stessi? Considerando che, nel corso degli anni Ottanta, si assiste a un ritorno a una poesia più intima e sentimentale, ma che questo non coincide con un maggior successo editoriale delle sillogi, la risposta ci appare palese.
Oggi, invece, la colpa è data all’indistinta ignoranza del pubblico: non si legge più poesia perché non la si conosce, non si legge e non interessa. Questa convinzione, da una parte, ha creato una sorta di disprezzo nei confronti sia della massa, sia del sistema editoriale vigente, reo di pensare troppo al guadagno e poco alla promozione culturale; dall’altra parte, un ristretto numero di persone si è chiesto come poter superare questa crisi. Se si considera vero l’assunto che la crisi della poesia è dovuta principalmente all’ignoranza, la cura non può che essere la diffusione. Secondo questa corrente, la fruizione della poesia si sarebbe arrestata, oggi, a causa di uno studio troppo scolastico e troppo accademico, che ha avuto l’effetto di far diventare “noiosa” la lettura lirica. D’altro canto, anche le case editrici maggiori hanno bloccato la diffusione della poesia, proponendo sempre e solo classici e dando poco spazio a nuove leve. Dunque, il processo per far vivere nuovamente la poesia passa inevitabilmente da tentativi di renderla più “pop”, sulla scia dei cantautori. Da qui, la nascita di esperienze come il “poetry slam” o il “movimento per l’emancipazione della poesia”; nel primo caso, si ha una sorta di fusione tra la lettura pubblica e la battaglia rap – come prevedibile, dunque, il mondo della musica cantautoriale, sia questo pop o rap, influenza molto la scrittura dei “militanti”; nel secondo caso, gli autori, che rimangono anonimi, stampano le loro poesie su fogli A4, per attaccarli sulle mura del centro cittadino, ma anche, in certi casi, delle periferie.
Ora, sulla qualità di quanto proposto da questi nuovi lirici non ci esprimeremo in questa sede. Il punto, semmai, è un altro: stanno effettivamente riuscendo nei loro propositi? La risposta non pare essere così positiva. Anzitutto, questo tipo di esperienze è, di solito, circoscritta alle città universitarie; la grande maggioranza dei militanti, infatti, sono studenti universitari – non solo di Lettere. Già questo circoscrive molto il fenomeno, ma non è tutto: la grande maggioranza dei fruitori di poetry slam e delle liriche del “movimento”, sono a loro volta militanti già appartenenti a questi mondi. Quel che si è venuto a creare, dunque, non è altro che un modesto numero di “nicchie” in cui si scrive e si ascoltano (forse) poesie. Insomma, non proprio quello che si dice “apertura al pubblico”. Cerchiamo, però, di andare oltre anche al discorso sul presunto successo di queste iniziative; il quesito che dovrebbe sorgere spontaneo, davanti a tutto questo, è molto semplice: perché mai la questione del pubblico dovrebbe essere così dirimente nello sviluppo di una poesia?
Certamente, al di là degli intenti individuali, il favore del grande pubblico diventa importante se si aspira a una retribuzione. Sempre prendendo a riferimento il mondo musicale, e nella fattispecie il mercato discografico, i cantanti più in vista possono permettersi di vivere della loro musica, perché possono fare affidamento sul vasto numero di fan – più utili come spettatori di concerti, che come compratori di singoli. Insomma, ad oggi, per poter pensare di vivere della propria arte, si deve poter far leva su un ampio numero di ammiratori. Ora, non si vuole certo affermare che chi scrive poesie lo faccia per denaro – tant’è vero che molti pubblicano a proprie spese –, ma poter vivere del frutto dei propri sforzi artistici è, almeno oggi, uno dei principali motori di riconoscimento sociale: i poeti non sono considerati alla stregua dei cantanti perché non spostano pubblico, non fanno vendite, dunque il loro lavoro non vale niente. Il loro rilievo, nella società, è dunque considerato pari a zero. Ma è sempre stato così? Prima di oggi, è stato davvero, per il poeta, un problema dirimente, quello del pubblico? E se la risposta fosse affermativa, in quale modo lo avrebbe risolto? Non solo, è mai esistita un’epoca aurea, dove effettivamente i poeti erano tenuti più di conto, in società?
È per cercare di rispondere a queste e più domande che ci cimenteremo in una breve ricognizione sul “mestiere di poeta”: come nasce e come si evolve, come si procurava da vivere, qual era il suo status all’interno della società – in particolare, i suoi rapporti con il potere. Per poter coniugare sintesi e puntualità, sono stati individuati dei periodi salienti per lo sviluppo della figura del poeta moderno: le origini, con la letteratura trobadorica e i suoi sviluppi in Italia; l’epoca cortigiana e l’invenzione della stampa; l’emancipazione dalle corti e dalla Chiesa nel corso del XVIII secolo; la nascita della bohème.
Per quanto riguarda la decisione di cominciare con i trovatori, omettendo dunque tutto il periodo classico, la motivazione è presto detta. Tra la poesia classica e quella medievale lo iato è molto profondo, basti pensare alla perdita dell’accentazione melodica e alla nascita di metri e usi completamente sconosciuti in epoca classica – basti soltanto l’esempio della rima, assente nella poesia greca e in quella latina. Con i trovatori, la poesia, e dunque il mestiere di poeta, è come se rinascesse dalle ceneri del mondo classico, da cui prende qualche elemento ma che rielabora in maniera assolutamente originale. In questa trattazione, dunque, si è voluto privilegiare gli “antenati” diretti. Inoltre, molte dinamiche che andremo a descrivere non sono dissimili da quelle presenti nel mondo antico; dunque si sarebbe corso pure il rischio della ridondanza.
Per quanto riguarda la decisione di chiudere con la bohème, anche in questo caso la spiegazione è molto semplice. La figura del bohémien, infatti, ha avuto una grandissima influenza su generazioni e generazioni di artisti nell’Ottocento e nel Novecento, ma non solo. Tutt’oggi, infatti, esercita un certo fascino, sebbene mondata dei suoi aspetti più sconvenienti. D’altronde, il già ricordato atteggiamento di alcuni poeti odierni nei confronti del pubblico e delle case editrici molto deve, appunto, alla visione della società tipica del bohémien.
Alla fine di questo percorso cercheremo di chiarificare, dunque, lo stato del poeta all’interno di diversi tipi di società, in quale si sia trovato più a suo agio – sempre che ci sia stato – e in quale, invece, ha avuto più il sentore della crisi. Si vedrà, dunque, di rapportare i risultati con la contemporaneità, per evidenziare se effettivamente la poesia stia passando un periodo di crisi e da cosa questa possa essere dovuta.