Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.
Chi scrive è un (consapevole) prodotto della massificazione scolastica. Le parole utilizzate non sono scelte a caso, bensì rinviano a certi, precisi significati di cui le si vuole dotare. Usare “prodotto” dà l’idea, o perlomeno vorrebbe rendere l’idea, di un fatto assai preoccupante: la scuola, intesa in senso generale, ma certamente con uno sguardo rivolto maggiormente a istituti superiori e università che dovrebbero formare personalità raziocinanti e allenate a quella che Russell Kirk chiamava immaginazione morale, non si prefigge più di dotare i discenti di una forma mentis adulta, di coltivare persone, per usare una ficcante espressione di Salvador de Madariaga, in grado di stare in piedi.
La scuola odierna, semplicemente, ha come scopo quello di sfornare in serie l’uomo medio ovvero l’uomo-massa. L’ideale, ammesso che di ciò si possa parlare, è insomma disporre di tante piccole menti, ciascuna uguale all’altra in modo tale che non emergano aspre divergenze, non si rompa quell’uniformità di vedute, di cui già Alexis de Tocqueville parlava, e che, in definitiva, non si rechi danno alla tenuta sociale. Non vi sono più persone ciascuna delle quali cerca di vivere cooperando con le altre, compiendo scelte e sviluppando un senso di responsabilità morale, e dotate di un proprio bagaglio culturale di idee, conoscenze, propositi. Rimane invece l’uomo, nudo e inerme, in balia del disorientamento in quanto eterodiretto e incapace di indipendenza: esso è sprovvisto di qualsiasi contenuto morale, poiché il senso dell’esistenza dipende ormai solo da ciò che non collide con le aspirazioni e i valori collettivi, ledendo così il senso più alto di una vita degna di essere vissuta, improntata al senso di umana e responsabile libertà.
Il concetto di “massificazione”, poi, è strettamente collegato a quanto appena detto. Ridurre a massa, per dirla con Wilhelm Röpke, significa creare «un mucchio di sabbia, della quale i granelli sono rappresentati da individui più che mai asserviti, impersonali, isolati, abbandonati e socialmente disintegrati». Massa e società sono termini antitetici: la prima si risolve nel conformismo che livella sempre più e rigetta la coltivazione di buone pratiche di eccellenza; la seconda elogia la diversità non in nome di presunte forme di inclusione, le quali in realtà ammettono al loro interno escludendo ciò che non vi si conforma, bensì come leva per il miglioramento di sé e il perseguimento di forme classiche di virtù. Una sana e buona società è ben strutturata, composta da soggetti irriducibili gli uni agli altri, per quanto possibili indipendenti e, allo stesso tempo, diretti dalle tradizioni (al plurale), ovvero consapevoli di far parte di un’eredità storica ed intellettuale. Una società degna di questo nome non può ridursi ad essere una “folla solitaria”, per usare l’espressione di David Riesman.
Il recente numero della rivista «Paradoxa», curato da Dino Cofrancesco e da poco uscito, Le parole della destra, affronta tutta una serie di concetti, non bolse parole, che possono essere interpretate in modo profondo da chi più o meno fa propria una visione del mondo che è riduttivo denominare di “destra”. Questo è concetto che, al pari del suo opposto “sinistra”, ormai risulta davvero consunto e obsoleto, come già colse quasi quarant’anni fa Christopher Lasch, originale pensatore statunitense. Piuttosto definirei una tale visione come conservatrice. Come tutti i concetti, anche il conservatorismo può essere declinato in diversi modi.
Nel caso del contributo di Danilo Breschi, dedicato al tema cruciale della scuola, oserei dire che la visione che gli soggiace è forse più consona a quella di liberalconservatorismo (sul tema segnalo un interessante volume collettaneo da poco uscito: La sfida dei liberalconservatori. Una opportunità per l’Italia, la Bussola, Roma 2022). L’idea, in buona sostanza, è che esistono gli individui o, se si preferisce una maggior focalizzazione sui contenuti etico-comunitari, le persone, le quali sono dotate di una propria ineffabile dignità e della capacità di scelta che fa loro maturare il senso di responsabilità morale. Al contempo, però, tali soggetti sono pure consapevoli, per dirla con José Ortega y Gasset, di essere parte di una tradizione, cioè a dire soggetti situati, storici, ed ereditari di una cultura che proviene dal passato e senza la quale il presente non sarebbe che un foglio bianco su cui scrivere ad libitum. Il saggio di Breschi, in proposito, è aria salubre. Non vi è niente come il tema della scuola che serva per ricordare ai soggetti pensanti, ancora giovani e quindi assai influenzabili da sermoni propagandistici, cosa è cultura, cosa è educazione, cosa è istruzione.
Breschi sostiene che il tema dell’educazione è quanto di più conservatore vi possa essere in quanto non concerne questioni di carattere utilitaristico o pragmatistico: tale dirimente questione riguarda precipuamente e primariamente cosa è l’uomo. La prospettiva antropologica che soggiace al tema dell’educazione non può che essere di natura conservatrice proprio poiché attiene a ciò che fa essere l’uomo ciò che è e che, se rifiutata, riduce l’uomo a uno stato di minorità poiché slegato, spezzato, disgregato dalla storia di cui è parte e dalla tradizione, dalle tradizioni di cui è un erede. A furia di considerare il passato come un fardello, un impiccio o un’espressione cancerogena, come succede oggi, l’uomo diventa un’astrazione, un soggetto disancorato e scisso che può essere qualsiasi cosa voglia, senza però avere quella capacità di discernimento morale che lo rende responsabile di fronte alla propria libertà di scelta. Questo, infatti, è il miglior modo per creare individui amorfi, privi di un centro e di una direzione indipendente: esso crea anzi i presupposti per la propagazione della massa. Non si tratta, come voleva Herbert Marcuse, di opporre una strategia settaria, quella del “Grande Rifiuto”, tale per cui il mondo deve essere raso al suolo in nome di una libertà totale. La libertà umana, per essere tale, non può che riconoscere dei limiti che le sono imposti, per l’appunto, dalla stessa caratterizzazione dell’uomo in quanto essere umile, ignorante, fallibile. La critica dell’esistente, allora, passa attraverso ciò che la scuola, l’educazione e l’istruzione sono diventate: mezzi per uniformare, conformare, standardizzare socializzando, direbbe Kirk.
Hannah Arendt, più volte meritoriamente citata da Breschi, è un punto di riferimento per ciò che è o dovrebbe essere la scuola: spazio istituzionalizzato dove si compie l’apparente “magia” di rinnovare conservando. Il cambiamento o il nuovo in quanto tali non sono, di per sé, veicoli di “cose buone”.
Ecco a cosa serve l’educazione – scrive Breschi –: a perpetuare il bene, il giusto, il bello, il vero, strappando l’uomo dalla morte-in-vita, così come a contrastare negli altri e in noi il piacere nichilista dello smantellamento di tutto ciò che esiga dall’uomo una qualche forma di trascendenza.
L’educazione, pertanto, non può che avere dei riferimenti o dei punti di appoggio. Kirk avrebbe detto che la persona, prima di tutto, deve imparare che vi sono delle cose perenni, delle caratteristiche costitutive tali per cui essa si rende difficilmente occupabile dalle mode, dalla propaganda, dal conformismo culturale. Tali “permanent things”, nell’economia del suo pensiero, assumono caratteri religiosi, è indubbio. Ma il campo può essere allargato anche ad altre virtù “classiche”, certo non meno dispendiose in termini di allenamento e coltivazione: senso del limite e laboriosità, spirito critico e fortezza d’animo, propensione al sacrificio e speranza. Sono tutte qualità che equipaggiano il soggetto di un’impalcatura morale che lo rende più resistente e robusto alle inevitabili asperità che la vita di volta in volta gli propone e gli impone.
Michael Oakeshott diceva, da un punto di vista conservatore differente da quello di Kirk, che un’educazione liberale non deve fornire al discente – perché comunque non si smetterà mai di apprendere, imparare, studiare – di un set di astratti e dogmatici principi da assorbire acriticamente o di competenze utilitaristiche per andare a riempire questo o quel settore della società. Questo è quanto attualmente l’educazione universitaria fa, producendo individui privi di un centro e facile creta da modellare. L’educazione, allora,
is learning to look, to listen, to think, to feel, to imagine, to believe, to understand, to choose and to wish. It is a postulant to a human condition learning to recognize himself as a human being in the only way in which this is possible: namely, by seeing himself in the mirror of an inheritance of human understandings and activities and thus himself acquiring (in the words of Leibniz) the character of un miroir vivant, doué d’action interne, acquiring the ability to throw back upon the world his own version of a human being in conduct which is both a self-disclosure and a self-enactment.
In altre parole, gli esseri umani imparano, vivendo, a stare in piedi. Un tale realismo morale, per dirla con Lasch, è proprio il punto di partenza che una sana educazione conservatrice dovrebbe trasmettere, al posto dell’etica terapeutico-progressista che mina alla radice l’agire responsabile e libero di essere umani che non sanno più stare in piedi.