Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.
Recensione a
A. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda
Le Lettere, Firenze 2004, pp. 304, € 20,00.
Nel nostro Paese, i lavori che riguardano il conservatorismo in generale, e quello americano nella fattispecie, sono piuttosto carenti in termini quantitativi. Se pensatori liberal e progressisti hanno goduto o godono di una particolare attenzione, per motivi di primaria matrice ideologica, quelli del campo avverso scontano ancora oggi ostilità di varia natura: dai liberali classici e libertarians, troppo proni all’idea che il mercato si autoregoli e che la libertà sia il valore preminente, nonché antitetico a quello dell’eguaglianza cara ai progressisti, ai tradizionalisti, troppo vicini all’idea che la cultura non sia qualcosa di massificabile e a disponibilità di tutti, che la società sia in qualche modo organizzata naturalmente secondo gerarchie di talento e capacità, e che il relativismo liberal sia un male che dis-organizza e confonde l’esperienza umana.
Nonostante ciò, un intenso lavoro svolto da molteplici studiosi ha reso disponibili traduzioni di volumi fondamentali di autori liberali classici, libertari e tradizionalisti così come ha indagato il pensiero degli stessi tramite studi e saggi. Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, certamente non americani, ma, una volta trasferitisi negli Usa per lavorarvi, importanti per lo sviluppo di un certo pensiero politico in tale Paese, sono ormai ampiamente tradotti e introdotti, sebbene considerati solo da una sparuta minoranza di studiosi e lettori, per mezzo dell’indefesso lavoro svolto negli anni da accademici – e da alcune, poche in realtà, case editrici come Rusconi prima, Rubbettino, Liberilibri e IBL Libri poi – quali Dario Antiseri, Lorenzo Infantino e Raimondo Cubeddu, per arrivare ai giorni nostri con Carlo Lottieri, Alberto Mingardi e Antonio Masala. La plurale corrente anarco-capitalista (Murray Rothbard, Ayn Rand, per citarne alcuni) sviluppatasi in seguito, poi, è stata inserita nel nostro contesto grazie alla fatica di alcuni dei già citati studiosi e da altri quali Marco Bassani e Roberta Modugno. Allo stesso modo, tradizionalisti quali Robert Nisbet, Eric Voegelin, Russell Kirk, solo per citare quelli che in Italia sono non i più noti, ma perlomeno i meno sconosciuti, hanno visto l’interesse di alcuni importanti studiosi quali Spartaco Pupo e Dario Caroniti, rispettivamente per lo studio dell’opera di Nisbet e Voegelin. Kirk, invece, pur essendo stato probabilmente ancor più importante dei precedenti due, se non altro per l’eco che ha avuto con l’uscita del suo The Conservative Mind (1953), è ancora ben poco studiato. Si pensi, solamente per fare un esempio, che tale volume è stato tradotto in Italia solo nel 2018, dall’editore Giubilei Regnani, mentre due altri importanti lavori kirkiani, The Roots of American Order (1974) e The Politics of Prudence (1993), sono stati tradotti, rispettivamente per la Mondadori nel 1996 e per le Edizioni Scientifiche Italiane nel 2002 (da poco meno di un meso è inoltre disponibile The American Cause, uscito per D’Ettoris). E altro si potrebbe dire di questo importante filone del pensiero politico americano, considerando, per esempio, il pressoché nullo spazio dato a un pensatore fondamentale come Richard Malcolm Weaver, amico nonché ispiratore del medesimo Kirk, come lo studioso di Mecosta ebbe a dire. Insomma, qualche spiraglio è stato aperto, ma il lavoro da fare rimane molto, sia per la diffusione di ciò che è già stato proposto (poco), sia per quello che ancora deve essere introdotto (tanto).
Tuttavia, Antonio Donno, già ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali presso l’Università di Lecce, ormai più di qualche anno fa ha provato a ricostruire i fili, tessendo una tela di ottima fattura, del variegato movimento conservatore americano durante gli anni della guerra fredda: In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda. In tale affresco, Donno, pur riconoscendo l’insopprimibile diversità interna al movimento conservatore, talché risulta non peregrino domandarsi se sia esistito ed esista un movimento conservatore, mostra come la matrice comune di tutti quei pensatori originali, ma anche giornalisti considerati, sia stata la lotta contro lo statalismo del New Deal. È noto, infatti, come Hayek non si definisse un conservatore così come Frank Chodorov, discepolo di Albert Jay Nock, dichiarasse che chi lo avesse definito tale avrebbe preso un pugno sul naso. E non è un caso, allora, che forse l’autore del più importante volume di storia del movimento conservatore americano, George H. Nash, riconobbe il conservatorismo come un movimento di idee, giacché il conservatorismo non si caratterizzava, e non si caratterizza, come una monolitica ideologia, ma ne è anzi l’opposto, come sostenne peraltro già Russell Kirk a più riprese.
Pur essendo uno studio incentrato sul periodo storico della guerra fredda, Donno parte da Albert J. Nock, un autore precedente a tale periodo, dedicandogli pressoché l’intero primo capitolo, in quanto considerato il padre del conservatorismo americano del secolo scorso. Critico radicale del New Deal e dello statalismo, Nock s’inserisce in quel filone tipicamente americano dell’anarco-individualismo, che vede in H. Thoreau e L. Spooner alcuni dei suoi principali esponenti. Sposando in pieno il celebre aforisma di Thoreau, secondo cui «Il governo migliore è quello che non governa affatto», Nock opponeva in maniera radicale lo Stato, concepito come organizzazione violenta che utilizza i mezzi politici, e la sfera dell’economia in cui gli individui producono e scambiano liberamente utilizzando per l’appunto i mezzi economici. Lo Stato, secondo Nock, è il grande usurpatore dei frutti del lavoro individuale ed il grande nemico dell’individuo: è di fatto un’istituzione anti-sociale. In campo economico, insomma, egli è stato un fervente sostenitore del libero mercato. In campo etico-culturale, tuttavia, egli, scrive Donno, è stato un conservatore. Visceralmente ostile all’egualitarismo del suo tempo, egli era convinto che esistesse una sorta di aristocrazia naturale (Remnant) che dovesse battersi per i diritti dell’individuo contro lo strapotere statale. Al contempo, egli fu anche un critico della modernità o, perlomeno, di alcune sue tendenze quali l’urbanizzazione e la centralizzazione, lo scientismo e l’idolatria della tecnologia. Se, come ebbe modo di affermare, l’unica vera riforma che poteva funzionare era la riforma che ciascuno doveva auto-imporsi, egli non fu mai particolarmente speranzoso circa le possibilità di affermazione di una filosofia liberal-conservatrice.
Il secondo e il terzo capitolo si pongono come obiettivo quello di ripercorre il dibattito tra conservatori e liberals a partire dagli anni Quaranta del Novecento, ponendo enfasi sul pensiero di alcuni dei principali pensatori avversi al liberalism americano del tempo. Si può dire che essi costituiscano il nucleo dell’opera, se non altro per la trattazione di idee e pensatori di primo piano. Mentre il quarto e il quinto capitolo, rispettivamente dedicati a Frank Chodorov e ad altri conservatori come William Buckley Jr, Frank Meyer e James Burnham, pur importanti ad esempio nel mostrare il ruolo svolto dalla National Review, risultano, soprattutto per la caratura degli autori considerati, di secondo piano. Secondo Donno, è negli anni Quaranta che il liberalism di matrice newdealista subisce una profonda incrinatura. Certamente, nota Donno, una delle cause può essere riscontrata pure nella contingenza storica di poco precedente, con il patto nazisovietico del 1939, ma anche come un certo senso di disagio, per dirla con Sidney Hook, nei confronti delle promesse fallite del New Deal. D’altro canto, è proprio negli anni Quaranta che tutta una serie di opere di matrice conservatrice videro la luce. In campo liberale classico o libertario, nel 1944 furono pubblicate The Road to Serfdom di Hayek e Omnipotent Government e Bureaucracy di Mises, seguite nel 1949 da Human Action dello stesso Mises. Sul versante tradizionalista, poi, nel 1948 venne dato alle stampe Ideas Have Consequences di Weaver, nel 1949 fu il turno di Conservatism Revisited di Peter Viereck, mentre negli anni Cinquanta, solo per citare i principali, fu il turno di The New Science of Politics di Eric Voegelin, del già citato The Conservative Mind di Russell Kirk, di The Quest for Community di Robert Nisbet, e di The Moral Foundations of Democracy di John Hallowell. Insomma, la reazione al liberalismo newdealista si stava facendo sentire. In tal senso, risultava abbastanza errato, come invece avevano fatto alcuni, quali Lionel Trilling e Louis Hartz ad esempio, ritenere che non vi fosse alcuna tradizione conservatrice negli USA, ovvero alcun pensiero che si discostasse dal liberalismo. Certamente aveva contribuito al caos la reinvenzione di tale pensiero operata all’inizio del secolo, con il nuovo liberalismo forgiato non solo ma soprattutto per mezzo degli scritti di John Dewey.
Secondo tutti i pensatori sopra elencati, liberali classici e tradizionalisti, pur con le dovute e peraltro non tenui differenze, il nemico da sconfiggere, sul piano delle idee, era lo statalismo e il retaggio del welfarismo liberal. Donno si focalizza su alcuni pensatori piuttosto che su altri, occorre sottolinearlo. D’altronde, non tutti ebbero la medesima importanza né un libro può diventare una pedante e smisurata rassegna enciclopedica. Mises e Hayek segnarono sicuramente una svolta sul piano delle idee liberali (classiche): infatti hanno una certa centralità nel volume. Più razionalista il primo, più scettico del potere della ragione il secondo, entrambi concordavano nel ritenere il sovraccarico delle prerogative politico-statali il maggior problema. Sul versante tradizionalista, poi, Donno ha il merito di rivolgere la propria attenzione a pensatori altrimenti semisconosciuti in Italia: da Kirk a Hallowell, da Weaver a Viereck e Nisbet. Anche qui, tuttavia, sono state fatte determinate scelte: Kirk e Hallowell detengono una certa centralità, Nisbet, pure importante, no. Ma forse, ciò che vi è di più meritorio è la considerazione data a un pensatore come Weaver, il cui studio è praticamente inesistente in lingua italiana. Il suo classico, Ideas Have Consequences, pubblicato per la prima volta nel 1948, è stata non a caso definito la fonte e l’origine del movimento conservatore del periodo. Ad egli Donno dedica un intero paragrafo mostrando come l’eredità agraria del sud del pensatore che insegnò dal 1944 fino alla prematura scomparsa del 1963 all’Università di Chicago sia originale nell’economia del movimento conservatore. Weaver, studioso del Sud degli Stati Uniti e profondamente imbevuto della cultura sudista, vedeva nel comunismo e nel liberalism del tempo come radicali minacce che pervertivano il naturale ordine umano. In generale, Weaver considerava alcuni tratti della modernità, quali il materialismo, lo scientismo e il culto del progresso del suo tempo gli idoli da sconfiggere, i quali, tuttavia, già avevano avuto la meglio nella battaglia, di idee e di stati, tra il Nord industriale e il Sud agrario durante la Guerra civile americana. Secondo Weaver, la modernità, ponendo al centro non più un mondo fatto di assoluti e trascendenza, di verità e valori, bensì di opinioni e mondanità, di relativismo e di pura materia, ha creato un mondo dis-organizzato e dis-ancorato da qualsivoglia riferimento alto e incontaminato. Per quanto tenue, la speranza di una resipiscenza in Weaver permane: la sconfitta definitiva avviene solamente quando si smette di credere in principi e valori per cui si ritiene valga battersi fino in fondo. L’uomo, per quanto non sia il centro dell’universo e, dunque, non possa ergersi a padrone del creato, rimane una creatura che può, che deve scegliere, per Weaver: che scelga la strada migliore, però, dipende dai mezzi valoriali e intellettuali di cui può disporre e dall’ordinante impalcatura delle comunità.