Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: A. Donno, D. Elber, G. Iurlano, Il sionismo americano tra le due guerre mondiali, Le Lettere, Firenze 2023, pp. 227, € 18,00.

La storia del sionismo tra le due guerre mondiali ruota, per tanti versi, attorno a quello che lo storico Ben Halpern ha definito il clash of heroes: il conflitto che vide opposti Louis D. Brandeis, principale esponente del movimento nazionale ebraico negli Stati Uniti, e Chaim Weizmann, presidente della World Zionist Organization (WZO) quasi ininterrottamente dal 1921 al 1946, eccettuato l’interregno di Nahum Sokolow tra il ’31 e il ’35. Di tale scontro, del contesto in cui si svolse, delle ragioni che lo produssero e di quelle che, almeno in parte, lo attenuarono si occupa l’approfondito e informato volume Il sionismo americano tra le due guerre mondiali (Le Lettere, Firenze, 2023), che raccoglie i saggi di Antonio Donno, David Elber e Giuliana Iurlano.

Rileva Iurlano che il sionismo di Weizmann – nato nel 1974 nell’allora russa regione di Pinsk, ma dal 1903 a Manchester – era «un insieme complesso di spiritualità antica, di pragmatismo colonizzatore, di recupero e di rivitalizzazione dell’ebraico, di cultura scientifica e di ritorno a una sola e unica terra, la Palestina», delle masse ebraiche, a partire da quelle dell’Europa orientale. Si trattava, in sostanza, di una sintesi – da cui la definizione di sionismo sintetico – tra le istanze primariamente culturali espresse dal russo Achad Ha’am e quelle dell’austriaco Theodor Herzl, autore nel 1896 di Lo Stato ebraico, manifesto fondativo del sionismo politico. Proprio alla paziente diplomazia di Weizmann si poteva attribuire buona parte del merito per aver convinto Londra, complici le dinamiche della Grande guerra, sulla conciliabilità tra gli interessi inglesi e il superamento della Diaspora in Eretz Israel, all’epoca ancora entro i confini ottomani. Ne era scaturita, nel 1917, la lettera inviata dal segretario agli Esteri Arthur James Balfour al barone Lionel de Rothschild, in cui si affermava pubblicamente il favore britannico per l’edificazione in Palestina di una Jewish National Home. In virtù della Dichiarazione Balfour, tra la conferenza di Sanremo del 1920 e il Trattato di Losanna del 1923, fu istituito il mandato britannico sulla Palestina, dopo un arduo negoziato con i francesi, ripercorso dal saggio di Elber puntualmente, che non intendevano rinunciare alle aree di influenza stabilite nell’accordo Sykes-Picot.

Brandeis, nato in Kentucky nel 1856 da una famiglia di origine boema, si era invece avvicinato al sionismo all’inizio degli anni ’10, persuaso dal pluralismo culturale teorizzato da Horace Mayer Kallen, il quale contrastava tanto il sogno del melting pot – la fusione delle varie culture presenti in America in un’altra, nuova e omogenea – quanto la resistenza dei fautori dell’Angloconformity: «la società americana si configurava piuttosto come una sorta di commonwealth costituito da numerose e differenti culture nazionali, che […] interagivano e si arricchivano reciprocamente». Brandeis, inoltre, si era già distinto in qualità di giudice per l’adesione ai precetti progressisti, che postulavano un adeguamento del diritto alle trasformazioni sociali e industriali e preconizzavano un approccio manageriale dell’economia e della politica. «La sua figura», scrive Iurlano, «si situa effettivamente nella linea di passaggio dal progressismo al New Deal». E infatti da Woodrow Wilson, piena incarnazione e culmine della Progressive Era, nel 1916 fu nominato, primo ebreo in quel ruolo, membro della Corte Suprema. Tanto la concezione pluralista quanto quella progressista influenzarono l’impostazione sionista di Brandeis. Innanzitutto, la riscoperta e l’espressione del retaggio ebraico in una propria «patria legalmente garantita» – rifugio volontario, specialmente per gli afflitti dalle persecuzioni in Europa, e incoraggiamento alle comunità negli altri paesi – avrebbero dovuto incontrare il sostegno degli ebrei statunitensi. In aggiunta, il lavoro delle organizzazioni sioniste, compresa ovviamente l’americana, a vantaggio della costruzione del focolare nazionale avrebbe dovuto improntarsi al pragmatismo scandito dal motto Members, Money, Discipline. Più che sulla tattica politica, dunque, il focus doveva concentrarsi su misure concrete, che favorissero l’autonomia economica dell’Yishuv, l’insediamento ebraico palestinese. Pertanto, a parere di Brandeis, non soltanto il sionismo coincideva con l’essenza del «vero americanismo», ma la stessa opera dei sionisti, in Palestina quanto nella WZO, avrebbe dovuto conformarsi ai dettami della programmazione e dell’efficienza amministrativa propugnati dal progressismo americano.

Quest’ultima istanza sembrò a Brandeis, e all’ampia corrente dei sionisti americani che in lui si riconosceva, disattesa dalla gestione di Weizmann, ritenuta disordinata, dispersiva e poco trasparente, tipicamente «orientale» e affezionata a istituti premoderni quale il kibbutz. Essa, peraltro, come ammise successivamente lo stesso Weizmann, pareva considerare la comunità americana solo «una macchina che dà denaro». Specularmente, la componente weizmanniana, inclusi alcuni statunitensi, disdegnava l’approccio di coloro che, «senza alcun sentimento di vera ebraicità» né totale devozione alla causa, pretendevano di conferire maggiore peso decisionale agli «esperti» e desideravano trasformare la WZO in «una serie di corporations più o meno di successo».

Come attestano gli autori del libro, a ciascuno dei due fronti che spaccarono il sionismo mondiale e quello americano capitò, di volta in volta, di acconsentire ai programmi dell’altro, sia pure per ragioni pratiche e di opportunità. La disputa aveva apparentemente trasposto la contrapposizione europea tra ebraismo orientale e occidentale sul piano intercontinentale: Washington vs. Pinsk, secondo la definizione di Weizmann. È pur vero che questa potrebbe configurarsi secondo lo schema “Washington contro Londra”, a causa della differente intensità o tempistica con la quale i due leader sionisti poterono tentare di fare pressioni sui governi a cui facevano riferimento, dovuta alla non coincidenza degli interessi di questi. Se, allora, la Weizmann aveva avuto buon gioco nel persuadere Balfour, poiché aveva incontrato il desiderio britannico di un migliore controllo sullo stretto di Suez, Brandeis aveva invece dovuto temporeggiare, in ragione della formale neutralità statunitense verso l’Impero ottomano – la quale ritardò la pubblica adesione di Wilson alla prospettiva di Balfour – e della scarsa simpatia per gli obiettivi del movimento nazionale ebraico da parte delle amministrazioni repubblicane degli anni Venti, maggiormente in linea con la tradizionale avversione del Dipartimento di Stato.

I rapporti di forza mutarono allorché il governo britannico, dai sionisti già accusato di disattendere l’impegno sancito dal mandato, emanò il White Paper del 1939, che limitava notevolmente le possibilità di immigrazione ebraica in Palestina e prevedeva di sottoporla dal 1944 all’assenso arabo. Si impose allora la più battagliera figura di David Ben-Gurion, presidente della Jewish Agency dal 1935 e fondatore del partito laburista e della centrale sindacale Histadrut. Come scrive Donno, egli, residente in Palestina, «seppe stimolare i sentimenti nazionali dell’ebraismo americano e di quello europeo», accaparrandosi il sostegno dell’American Federation of Labor e di intellettuali e politici prossimi all’amministrazione democratica di Franklin Delano Roosevelt. Morto Brandeis nel 1941, Weizmann vide delusa la propria prudente politica anglofila dai violenti scontri tra le truppe britanniche e le organizzazioni paramilitari dell’Haganah laburista e delle revisioniste Irgun e Lehi, dalle quali sarebbero sorti i futuri quadri del partito Likud. Israele, nata con il voto favorevole degli Usa di Harry Truman e dell’Unione Sovietica, si sarebbe però sviluppata conservando a lungo i caratteri, spesso in contrasto, dei sionismi, di cui Donno, Elber e Iurlano ci aiutano a comprendere le vicende.

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