Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

Sotera Fornaro insegna Letteratura greca e Letterature comparate all’Università di Sassari. Ha studiato ad Heidelberg, Freiburg, Berlino; ha insegnato a Lüneburg e a Freiburg. È autrice di saggi su Omero, sulla retorica di età imperiale, sulla storia degli studi classici, sulla ricezione dei miti nelle culture contemporanee (in particolare di Antigone). Scrive romanzi. Dirige il blog “Visioni del tragico” , l’omonima rivista e l’OJS: “Archivi delle emozioni”.

Quali sono gli interrogativi peculiari del pensiero tragico?

Noi usiamo l’aggettivo ‘tragico’ per indicare un evento particolarmente luttuoso, doloroso, una catastrofe naturale, oppure una disgrazia. Questa è un’accezione moderna del termine, che nasce alla fine del XVIII secolo, quando si cominciò a interpretare il tragico come un elemento inscindibile dall’esistenza, che consiste nella lotta dell’uomo con l’imperscrutabile forza del destino. La riflessione sul tragico, perciò, è una riflessione prevalentemente moderna, mentre per i Greci l’aggettivo era legato piuttosto alla forma drammatica della tragedia. Dunque, se vogliamo parlare di ‘pensiero tragico’ greco, dobbiamo studiare e interrogare la tragedia greca: i suoi temi sono temi tragici, che hanno a che vedere con l’errore commesso dall’uomo, con la sua hybris, con la sua ‘arroganza’ nei confronti della divinità e della natura, con il suo cadere preda di passioni che lo distruggono, come l’ansia del potere, il rancore, l’amore sbagliato o la gelosia. Questi temi non sono inventati dalla tragedia greca, ma appartengono già ai racconti mitologici che la tragedia mette in scena.

Reputa che la pandemia da Covid-19 abbia acuito la visione tragica del mondo?

Non potrebbe essere diversamente. Semplificando, si può dire che la tragedia rappresenta un’irruzione della morte nella vita: quando avviene qualcosa che porta in contatto l’oscurità della morte e la luce della vita, siamo di fronte a qualcosa che definiamo tragico. Il Covid-19 rappresenta tutto questo, tanto più che si tratta di un elemento che ci sfugge, che non riusciamo a vedere, che non riusciamo e non siamo riusciti a prevenire, di un nemico invisibile che ci accerchia potenzialmente ovunque. L’aspetto tragico del Covid è che c’erano tutti i segni per poter scientificamente prevedere che l’epidemia sarebbe scoppiata; persino la letteratura aveva già raccontato, per quel potere particolare che ha la letteratura di prefigurare gli eventi, quel che poi è accaduto (mi riferisco ad esempio al romanzo Spillover). Ma da tempo gli scienziati avvertivano che i cambiamenti climatici, un ritmo di vita irrispettoso di quelli naturali, la globalizzazione portavano in sé il pericolo di un’epidemia globale. Ci dicono anche che non sarà l’ultima pandemia, che ve ne sono altre già dietro l’angolo. Un po’ come Edipo, non abbiamo voluto vedere quello che era sotto gli occhi e non abbiamo potuto interpretare gli oracoli. La pandemia si è inoltre inserita in un contesto di grande precarietà e diffusa paura, per il terrorismo, ad esempio, per la mai sopita minaccia nucleare, per i focolai di guerra che non si spengono e continuano a mietere vittime, per il precario equilibrio Oriente-Occidente e per le grandi migrazioni di massa. Se tempo fa è stato detto che la tragedia non è la forma letteraria peculiare della modernità, tuttavia il tragico sembra essere la dimensione propria della contemporaneità.

Le tragedie greche si confermano quali testi archetipici del pensiero occidentale, contemporanee come sono ad ogni epoca. Quali ragioni ravvede nella specifica proprietà della tragedia di porsi sempre in maniera speculare alle fratture epocali?

Non posso rispondere a questa domanda in due parole, posso rinviare a quello che scriviamo nel blog ‘Visioni del tragico’ e nell’omonima rivista. Né nell’uno né nell’altra parliamo mai di ‘archetipi’, e siamo sempre molto attenti all’uso dei concetti. La tragedia greca non è ‘tragica’ in senso moderno, e meno che mai in senso contemporaneo. Le tragedie superstiti sono frutto di un preciso contesto storico, politico, geografico. Abbiamo perso molto anche della tradizione tragica greca, ma certo pensare che nelle tragedie greche si rispecchino le ‘fratture epocali’ di ogni epoca della storia mi sembra un po’ improbabile.

Uno studioso tedesco ha definito la tragedia greca come ‘tragedia della cesura’. Intendeva dire che, dagli anni ’60 del secolo scorso, si è intensificato l’uso della tragedia greca come allegoria per alcuni eventi del presente avvertiti come ‘epocali’: un fenomeno iniziato nel 1968, l’anno celebre delle rivolte studentesche, che furono adombrate nei teatri tedeschi dalla ‘rivoluzione’ dionisiaca delle Baccanti, portate in scena da Richard Schechner nel 1969. Ma i racconti delle tragedie greche servono da sempre per far da specchio all’attualità: mi è cara, ad esempio, l’Antigone di Sofocle, che negli ‘anni di piombo’ fu la tragedia più rappresentata, e addirittura sembrava raccontare delle donne protagoniste della lotta armata. Negli ultimi tempi, le rappresentazioni delle Supplici di Eschilo, ad esempio quella molto colorata con la regia di Moni Ovadia per gli spettacoli di Siracusa, sono diventate allegorie delle migrazioni dall’Africa. La pandemia ha portato ad un’intensificazione delle letture dell’Edipo Re, che inizia, com’è noto, con un’epidemia distruttiva della città. In realtà da sempre la tragedia greca, pur portando in scena racconti mitologici, quindi senza una precisa collocazione temporale e soprattutto già noti, è stata legata all’attualità. Il pubblico ateniese, a teatro, era in grado di ricollegare le situazioni rappresentate nelle tragedie con alcune situazioni contemporanee, forse anche con specifici personaggi della vita politica ateniese. Non bisogna naturalmente esagerare nella ricerca di questi parallelismi e nel sovrapporre la storia evenemenziale alla tragedia. Tuttavia è proprio di questa forma drammatica, e dei miti che propone al pubblico, sapersi adattare alle diversissime situazioni storiche in cui è performata.

La scena italiana contemporanea è attenta alla parola tragica greca?

Direi proprio di sì. Da una parte conta una certa tradizione, come quella degli spettacoli di Siracusa, che nasce invero da un’idea classicistica dell’antichità greca, ma che specialmente negli ultimi anni si sta rinnovando e si sta aprendo a nuove istanze del teatro contemporaneo. Parlo soprattutto delle iniziative della nuova direzione artistica dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico, affidata dal 2019 ad Antonio Calbi, che ha reso gli spettacoli siracusani una vera e propria ‘stagione’. A Siracusa continua ad esserci il rispetto per il testo antico, che viene ritradotto da specialisti,  tuttavia le innovazioni registiche esulano decisamente da una riproposizione acritica o addirittura idealizzante delle tragedie greche. Penso che Siracusa si avvii perciò ad essere un centro di ricerca e di sperimentazione performativa sul teatro greco. Ma dalla tragedia greca sono passati e passano tutti i grandi nomi del teatro italiano contemporaneo, da Mario Martone a Emma Dante, da Vincenzo Latella a Massimiliano Civica, da Davide Livermore a Ricci/Forte, da Romeo Castellucci agli Anagoor, e così via, non posso ricordarli tutti e un elenco del resto non avrebbe senso. Grande attenzione alla tragedia greca, nel suo aspetto performativo e nella sua influenza estetica, si ha anche sulle scene tedesche. Non so dire o non so ancora dire se conti in questi due paesi una forte presenza della formazione umanistica. Comunque di tutto ciò ci occupiamo nella nostra rivista e nel nostro blog ‘Visioni del tragico’: http://www.visionideltragico.it/blog/index.php

La notizia del decesso di Maradona ha richiamato con veemenza l’interesse dell’opinione pubblica internazionale. Un campione dello sport quale eroe tragico?

La pandemia ha modificato la nostra idea di eroismo, parliamo in continuazione di ‘eroi quotidiani’ a proposito di medici e infermieri, e c’è come bisogno di riconoscimento, da parte di tutti, in questa lotta contro il virus che è davvero difficile. Ad alcuni è chiesto maggiore ‘eroismo’ che ad altri. Ne ho parlato in un post, ma credo di tornare sull’argomento, che è diventato molto attuale. D’altro canto, anche i discorsi dei politici hanno un tono eroico, perché retoricamente devono invitare alla resistenza o alla resilienza, come si ama dire. Di Maradona, però, si sarebbe parlato anche se non ci fosse stata la pandemia. Coloro che pensano che Maradona sia un eroe, nel senso di un uomo che può servire da esempio per tutti gli altri, pensano anche che sia un eroe tragico, che ha assistito alla propria ascesa e decadenza, dovuta ai suoi eccessi. Non credo sia stato ‘punito’ da un dio o dal destino, gli eroi tragici, né che su di lui ricada un’atavica maledizione. Da quello che ho sentito, lui stesso non si considerava affatto un eroe e non voleva porsi come modello per nessuno al mondo. L’impressionante folla di chi gli ha tributato un saluto postumo significa che molta gente ha bisogno di eroi. Io continuo a pensare, come nella discussa affermazione di Bertolt Brecht, che un paese che abbia bisogno di eroi è un paese infelice. O meglio: che abbia bisogno di crearsi eroi, e non sa riconoscere gli eroi che si incontrano per caso.

Nel greco antico lessico e mito si amalgamano in maniera inestricabile: quali sono i più rappresentativi esempi di questa interdipendenza?

Se intende dire che nei racconti mitologici gioca un ruolo importante l’etimologia dei nomi propri, non credo che si possano indicare degli esempi ‘più rappresentativi’. Posso solo ricordare che Gottfried Hermann, alla fine del ´700, voleva spiegare tutta la mitologia greca attraverso le etimologie, considerando la lingua un fattore concreto e storico e rifiutando qualsiasi tentativo di spiegazione antropologica o comparata. Aveva, naturalmente, torto. Comunque l’etimologia dei nomi resta pur sempre affascinante per capire alcuni aspetti dei racconti mitologici greci.

La sua attività pare essere percorsa da un filo che riannoda l’antico con il moderno. Quali tracce della classicità individua nella realtà greca odierna, in particolare nella sua lingua?

In realtà io mi occupo di più della ricezione e della tradizione della cultura greca antica, nei suoi molteplici aspetti, in realtà storiche e geografiche lontane dalla Grecia in senso proprio. Il neogreco è solo in parte una lingua derivata dal greco antico, e comunque io non ne sono un’esperta; la Grecia contemporanea ha alle spalle una storia ben più complessa, di cui la Grecia cosiddetta ‘classica’ è solo una parte. Non sarà certo facile, da parte dei Greci contemporanei, dover sempre distinguere tra ‘Grecia moderna’ e ‘Grecia antica’, forse nessuna nazione ha un rapporto così pesante con il proprio passato.

L’esodo è l’uscita, anche di denaro, l’autopsia una visita, l’eteria una qualsiasi società, la tragedia una canzone. Ciò nel greco moderno, dove “alto” e “basso” si danno la mano. Nell’italiano i grecismi sono relegati al lessico letterario, filosofico e scientifico. Quali sono le ragioni di questa differenza?

Non sono d’accordo. Nell’italiano sono moltissime le parole d’uso quotidiano che derivano da parole greche, talmente tante che non direi che i grecismi siano ‘relegati’ in ambiti specifici. Molti miei colleghi e amici hanno scritto libri su questo, basta leggerli.

Per i Greci Internet è un concetto non accolto debolmente dall’inglese ma convertito in un calco originale. È il dhiadyktio, letteralmente “la rete (da pesca)”. In un mondo pervaso capillarmente dalla tecnologia quale funzione potrebbe assumere la tradizione classica?

Non vedo nessuna inconciliabilità tra tecnologia e tradizione classica, tutt’altro. A parte il fatto che nella storia degli studi siamo nell’età delle Digital Humanities, la tradizione cosiddetta ‘classica’ trova nella tecnologia un alleato indispensabile di diffusione e di trasformazione.

Guerra di liberazione, combattuta con orgoglio, e reazione ad una devastante crisi economica. Ravvede un medesimo moto d’animo, squisitamente greco, che cavalca i decenni?

Se intende porre una linea di continuità tra la guerra di liberazione greca del 1821 e la crisi economica del 2015, questa linea mi sembra alquanto debole. Forse in comune tra questi due eventi c’è il richiamo alla Grecia classica in senso strumentale: coloro che andarono in aiuto dei Greci insorti nella guerra di liberazione contro i Turchi, da tutt’Europa, spesso lo fecero in nome dell’antica Grecia e della sua supposta ‘libertà’. Durante la crisi economica molti, alcuni accortamente, altri in maniera piuttosto pedestre, hanno affermato che la Grecia non poteva essere offesa e umiliata con i debiti, perché ci aveva dato i ‘valori’ in cui crediamo. A parte la mia irritazione di fronte alla parola ‘valori’, credo che sia un’enorme sciocchezza.

L’antico si fa attuale, dunque, senza fanatismi iperbolici e nostalgie canaglie, nella consapevolezza e certezza che la Grecia antica sia un luogo gremito di idee e popolato di storie. È la folla di immagini che narrano l’uomo e l’umano a scatenare la “grecitudine”?

No, affatto. Non so cosa intenda per ‘grecitudine’, ma penso che la cultura greca in tutte le sue epoche, come tutte le culture umane, non sia affatto scaturita da un miracolo, o che abbia dato dei frutti universalmente validi, che esprimano la ‘condizione umana’. I Greci vanno studiati nei loro specifici contesti. E di sicuro le ‘storie’, come dice Lei, non sono un patrimonio esclusivo dei Greci.

«We are all Greeks» è una celebre espressione proferita per la prima volta dal poeta inglese Percy B. Shelley. Lei, Professoressa, concorda?

No, si sarà capito. L’espressione di Shelley, che comunque non ha senso se citata come uno slogan, va compresa nel suo tempo e nell’occasione in cui fu pronunciata. La maggior parte del mondo non ha nulla a che fare con la minuscola Grecia.

Può indicarci un particolare della sua Grecia, un elemento per Lei inconfondibile?

Non ho una ‘mia’ Grecia, né cerco nei testi greci che studio elementi ‘inconfondibili’. Lascio volentieri ad altri, se ci riescono, la ricerca di ciò che di ‘geniale’ c’è in una lingua e letteratura che non è diversa da altre lingue e letterature umane, anche se la tradizione e l’uso scolastico europeo hanno certamente contribuito a crederla unica, speciale, ideale.

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