Antonio Messina (1989) è Ph.D. Student in Scienze Politiche all’Università di Catania e Visiting Ph.D. Fellow presso l'Università di Leiden (Paesi Bassi). È redattore del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», da lui fondato; è socio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e dell’Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo. È membro del comitato scientifico della rivista «La Razón histórica: revista hispanoamericana de historia de las ideas políticas y sociales». I suoi principali interessi concernono la filosofia politica, la geopolitica, e la storia delle dottrine politiche, con particolare riferimento alla storia intellettuale dei regimi autocratici. Tra le sue pubblicazioni: L'economia nello stato totalitario fascista (Ariccia 2017); Giovanni Gentile. Il pensiero politico. Scritti e discorsi 1899-1944 (Roma 2019); Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali. La ricerca di A. James Gregor (Soveria Mannelli 2021).

Negli anni ʼ50 il leader egiziano Gamal Abdel-Nasser (1918-1970) diede alle stampe Filosofia della Rivoluzione[1], opera che presenta quel complesso di idee che costituiscono il sostrato ideologico del nasserismo, cioè la sintesi organica di nazionalismo e socialismo, fusi con i valori religiosi e tradizionali desunti dalla storia egiziana.

Nasser scrive le sue pagine ricercando il significato e l’essenza filosofica della sua rivoluzione, sino a «risalire alle origini profondamente radicate nella storia del nostro popolo» (p. 9). Il suo intento è quello di stabilire un collegamento tra la rivoluzione da lui promossa e messa in atto e le aspirazioni del popolo egiziano che, dagli inizi del secolo, ambiva a vedere i propri figli a capo di un Egitto indipendente, libero dalla dominazione straniera e artefice del proprio destino. A questa missione avevano guardato Es-Sayyed Omar Makram (1750-1822), che si oppose ai francesi di Napoleone e che capeggiò la cosiddetta “Seconda rivoluzione del Cairo”, e il colonnello Ahmed Urabi (1841-1911), considerato il ​​primo eroe nazionalista dell’Egitto, che all’insegna del motto l’Egitto agli egiziani! aveva dato espressione ad una coscienza nazionale moderna. Tanti altri tentativi furono da allora messi in atto, come l’insurrezione del 1919 diretta da Saad Zaghlul (1858-1927), ma tutti risoltisi in clamorosi insuccessi. Fino al 1952, quando la rivoluzione dei Liberi Ufficiali portò al disfacimento della monarchia di re Faruq (1920-1965) e all’ascesa di Nasser. Ma quali furono le «origini ideali» della rivoluzione dei Liberi Ufficiali? Secondo Nasser, queste vanno ricercate in un periodo anteriore al 1948, e si coniugano con alcuni importanti episodi della sua vita, tutti convergenti in un’aspirazione ben precisa: «essere indipendenti con dignità, riedificare l’esercito, formare un governo onesto e competente»[2].

Tuttavia, scrive Nasser, nessuno può datare con certezza la nascita del proprio «spirito rivoluzionario», poiché esso costituisce «l’eco di una speranza soffocata trasmessaci dalla generazione che ci ha preceduto» (p. 16). Il sentimento rivoluzionario è una sorta di eredità che si tramanda di generazione in generazione, senza soluzione di continuità. Il momento esecutivo di questo sentimento rivoluzionario è stato la rivoluzione del 23 luglio 1952, quale «grande speranza vagheggiata dal popolo egiziano che dall’inizio del secolo aspirava a diventare l’artefice del proprio destino» (p. 17). Di questa speranza si era fatto carico l’esercito, l’unico elemento della nazione che era riuscito a condurre con successo il colpo di stato e la rivoluzione. Nonostante ciò, Nasser appare tormentato da un quesito a cui si sforza di dare risposta: era compito dell’esercito scatenare la rivoluzione del 23 luglio? (pp. 17-18, 23). Nel rispondere all’angustiante interrogativo, il leader egiziano elenca una serie di considerazioni che si rivelano cruciali per comprendere la sua graduale conversione ad una concezione elitistica della prassi politica:

Immaginavo, prima del 23 Luglio, che tutta la nazione fosse preparata […] per scagliarsi compatta ed ordinata verso l’obiettivo fatale […]. Ma la realtà fu diversa […]. Giunsero le schiere del popolo, a frotte, in disordine. Che delusione! La marcia sacra verso la meta sublime segnò un tempo d’arresto. Le prospettive erano fosche, allarmanti. Allora mi resi conto che la missione degli elementi di avanguardia non era terminata, ma anzi cominciava da quel momento. Avevamo bisogno di ordine, non abbiamo trovato che disordine. Avevamo bisogno dell’unione, non abbiamo trovato che anarchia, separatismo. Avevamo bisogno di zelo e non abbiamo trovato che mollezza e rassegnazione. Fu da quel momento che la Rivoluzione scelse il proprio emblema: unione, disciplina, lavoro (pp. 19-20).

Il brano sopra citato bene evidenzia il modo in cui Nasser ha appreso l’importante lezione della sociologia elitista di Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Robert Michels, secondo cui un particolare aggregato politico non può fare a meno di una avanguardia (o élite) che organizzi i suoi componenti per il raggiungimento di determinati scopi collettivi. Una lezione, quella elitista, che ha informato la prassi di influenti rivoluzionari europei, come Georges Sorel, insigne teorico del sindacalismo rivoluzionario, il quale parlava di piccoli gruppi composti da membri «severamente selezionati grazie a prove tali da verificare la loro vocazione» e di «truppe scelte» che organizzano e spingono al combattimento la «massa inerte»[3]. C’è un filo rosso che collega il rivoluzionarismo di Nasser con la tradizione rivoluzionaria europea, e che consiste nella considerazione negativa attribuita al ruolo delle masse (giudicate per natura inerti, passive o volubili) e nella funzione positiva ed essenziale assegnata invece ad una élite che si fa carico di disciplinare, incanalare e guidare le aspirazioni delle masse in direzione di una ben precisa progettualità politica.

Poiché, secondo Nasser, nelle masse «regnava sovrano l’egoismo più sordido» (p. 21), spettava all’esercito, donde la sua legittimazione, «il compito di costruire l’unica forza capace di agire, di servire da legame fra gli elementi del popolo, da cui sarebbe dovuta emanare questa forza, e suscettibile al tempo stesso di tenere lontana la lotta degli individui e delle classi» (p. 25). Solo l’élite militare poteva con efficacia «scalzare la corruzione, i dubbi, gli odi e l’egoismo» e richiedere «la fusione di tutti gli elementi della nazione, l’abnegazione assoluta dell’individuo per il bene della Patria» (p. 24). A legittimare l’azione dell’esercito era la sequela di eventi voluti dal destino, «la storia del nostro popolo», una sorta di entità metafisica alla quale è impossibile sottrarsi.

Nel ripercorrere le vicissitudini della storia egiziana, Nasser cerca di individuare le radici dei mali che affliggevano il paese e le cause che hanno determinato la rassegnazione abulica delle masse. Queste cause vengono da lui individuate nei «fattori psicologici» determinati dalle invasioni straniere. Il periodo medievale, secondo Nasser, fu quello più devastante, in quanto le crociate messe in atto dagli europei e le successive dominazioni dei mongoli e dei mamelucchi impoverirono l’antica terra dei faraoni e determinarono il dilagarsi di ingiustizie e atrocità. Ai mamelucchi si sostituirono poi gli europei, interessati alla strategica posizione geografica del paese, che introdussero nuove idee in un paese che non aveva ancora raggiunto il giusto grado di evoluzione e di maturità per accoglierle (p. 40). La continua sottomissione e l’ambiente in cui gli egiziani vissero per secoli li condizionò a tal punto da renderli quasi del tutto indifferenti alla Rivoluzione del ʼ52. Adesso il tempo delle dominazioni straniere era cessato, e l’unica «via da scegliere è quella dell’indipendenza economica e politica» (p. 41), processo avviato dai Liberi Ufficiali e al quale il popolo avrebbe dovuto collaborare, ognuno nel miglior modo possibile, agendo e pensando come un unicum e abbandonando l’«io» per il «noi».

Nasser non manca di sottolineare l’importanza delle riforme istituzionali messe in atto dalla sua rivoluzione: in campo economico, con la creazione del Consiglio della Produzione; in quello politico, attraverso la creazione del Comitato per la Rivoluzione, incaricato di redigere una nuova carta costituzionale; in quello finanziario, attraverso tagli agli sprechi politici e al numero dei funzionari; in quello socio-economico, con l’espropriazione delle terre ai grandi proprietari e la loro redistribuzione fra tutta la popolazione.

Nella terza ed ultima parte della Filosofia della Rivoluzione, Nasser espone la famosa «Teoria dei tre cerchi», che avrebbe poi resa nota al mondo al primo vertice dei paesi non allineati tenutosi a Bandung (Indonesia) nel 1955[4]. L’Egitto costituisce il punto di intersezione di tre dimensioni geoculturali: il mondo arabo (primo cerchio), il mondo africano (secondo cerchio) ed il mondo musulmano (terzo cerchio). Poiché questa intersezione è stata voluta dal destino (per il presidente egiziano niente è dovuto al caso), è compito dell’Egitto quello di assumere il ruolo di leadership, sì da risvegliare «l’immensa energia latente» di ciascuna zona:

Possiamo forse ignorare la presenza della zona araba che ci circonda, il mondo al quale apparteniamo e che ci appartiene, – il territorio cui siamo saldamente e fattivamente legati dalla comune storia e da identici interessi? Possiamo ignorare la presenza di un Continente africano dove il destino ha voluto che ci trovassimo e sul quale è impegnata la dura lotta per il suo avvenire, lotta che, volenti o nolenti, si ripercuoterà su di noi? Possiamo ignorare l’esistenza di un mondo musulmano a cui ci uniscono vincoli ribaditi non soltanto dalla religione ma anche dalla realtà storica? (p. 52).

Nel contesto del “cerchio arabo” Nasser si fa fautore e propugnatore del panarabismo, cioè dell’aspirazione al raggiungimento dell’unità di tutti i popoli arabi poiché essi, «storicamente vincolati», hanno «sofferto insieme le stesse traversie, subito identiche crisi, sopportato – vittime allo stesso modo – il duro tallone di comuni conquistatori» (p. 54). A giustificare la loro aspirazione all’unità esistevano una serie di «fattori storici materiali e spirituali», una comune storia di umiliazioni e di sottomissioni ad un imperialismo che «stringe tutta la zona araba in un assedio soffocante ed invisibile» (p. 63). Di qui la necessità di una «lotta in comune», poiché solo insieme i popoli arabi possono trionfare contro i soprusi delle potenze occidentali:

Poiché la zona è la stessa, identiche sono le condizioni, uguali i problemi, uno solo il comune avvenire… poiché lo stesso è il nemico, benché tenti di camuffarsi sotto maschere diverse, perché disperdere gli sforzi? (ibidem).

Durante gli anni ʼ50 e ʼ60, l’ideologia del panarabismo prosperò in tutto il mondo arabo e lo stesso Nasser ne fu il portavoce più significativo. In ambito storiografico, il termine panarabismo viene di sovente adoperato in modo intercambiabile con i termini “nazionalismo arabo” e/o “arabismo”. Non esiste un consenso univoco tra gli studiosi sulla nozione più corretta da utilizzare e sul suo significato intrinseco: alcuni hanno ipotizzato che il panarabismo si riferisca alla creazione di un unico stato arabo[5], interpretazione respinta dall’eminente studioso Rashid Khalidi, che ha invece proposto di definirlo come l’idea «che gli arabi siano persone accomunate da speciali legami di lingua, storia e religione, e che la loro organizzazione politica dovrebbe in qualche modo riflettere questa realtà»[6].

Caratteristica precipua del panarabismo è il sentimento di solidarietà dei popoli e delle nazioni arabe fondato su legami storici e culturali e desideroso di instaurare forme di comunanza politica. Fondamentalmente, il panarabismo aspira ad unire tutti gli arabi, indipendentemente dalla loro posizione geografica. Per tale ragione esso ambisce a costruire forme di solidarietà sovranazionale, poiché «tutti gli stati arabi [sono] collegati dalla loro cultura, costumi, tradizioni, storia, religione e patrimonio» e questa «connessione dovrebbe condurre anche alla collaborazione in politica»[7].

Nella Filosofia della Rivoluzione, Nasser indica nella Dichiarazione di Balfour (1917), primo passo della futura nascita dello Stato d’Israele, il momento decisivo in cui venne maturando in lui la presa di coscienza panaraba, espressa poi nella personale partecipazione al conflitto del 1948-49, con il preciso intento di supportare la causa palestinese. Di essa Nasser si dimostrò sempre un acceso sostenitore, sia grazie all’importante ruolo che ebbe nella fondazione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (1964), sia nelle attività di mediazione svolte per preservarne l’esistenza (mediazione nella pace fra Libano e Olp nel 1969 e fra Giordania e Olp nel 1970).

Nasser è pienamente consapevole della supremazia economica, tecnologica e militare dell’Occidente, ma intravede una speranza per il mondo arabo in tre fattori: a) i «legami materiali e morali» fra i vari Stati arabi, che fra loro condividono caratteristiche e attributi comuni e l’essere il luogo d’origine delle tre grandi religioni monoteistiche, «fattore che non si può assolutamente trascurare nel tentativo di costruire un mondo stabile e pacifico» (p. 65); b) la posizione geostrategica dei paesi arabi, costituendo essi un punto di passaggio obbligatorio per merci ed eserciti; c) il possesso di enormi quantità di petrolio, «nervo della civiltà materiale, senza il quale non esisterebbero i centri-motori di tale civiltà» (ibidem).

Su quest’ultimo aspetto, Nasser si rivela essere un precursore, uno dei primi leader arabi a capire l’importanza rivestita dal petrolio come arma finalizzata al conseguimento di specifici obiettivi politico-diplomatici. Nasser è consapevole che «metà della riserva di petrolio mondiale giace nel sottosuolo arabo» (p. 66) e che esso riveste una crescente importanza nello scacchiere geopolitico. Ci vorranno ancora sei anni per assistere alla nascita dell’Opec (1960) e tre dalla morte di Nasser per il suo utilizzo in funzione anti-atlantista e anti-statunitense (1973).

Per dare concretezza ai suoi propositi panarabi, nel 1958 Nasser si fa protagonista della creazione della Repubblica Araba Unita (Rau), sorta dalla fusione territoriale e politica della Siria, dell’Egitto e dello Yemen del Nord. La Costituzione egiziana del 1956 si riferiva all’Egitto come uno «stato arabo indipendente e sovrano» e al popolo egiziano come «parte della nazione araba». Anche se la Rau si dissolse dopo soli tre anni, con la separazione della Siria, l’Egitto continuerà a definirsi come parte di una grande entità araba: «il nostro è un popolo arabo e il suo destino è legato al destino dell’unità della nazione araba»[8].

Note bibliografiche

[1] Il libello di Nasser, da cui muove la presente trattazione, è: G. Abdel-Nasser, Filosofia della Rivoluzione, Dipartimento dell’Informazione, Cairo 1954, pp. 70.

[2] J. Daumal Jack e M. Leroy, Nasser. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Sansoni, Firenze 1970, p. 37.

[3] G. Sorel, Unità e molteplicità, in G. Sorel, Scritti politici, a cura di Roberto Vivarelli, Utet, Torino 2006, pp. 401-402.

[4] M. Emiliani, Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 104.

[5] Ad es. Walid Khalidi, che alla fine degli anni ʼ70 definì il panarabismo in questi termini: «Il sistema degli stati arabi è innanzitutto un sistema “Pan”. Esso postula l’esistenza di un’unica nazione araba dietro la facciata di una molteplicità di stati sovrani […]. Da questa prospettiva, i singoli stati arabi sono entità devianti e transitorie: le loro frontiere illusorie e permeabili; i loro sovrani custodi interinali o ostacoli da rimuovere […]. Di fronte a tale super-legittimità, la legittimità del singolo stato si riduce in irrilevanza» (cit. in A. Dawisha, Arab Nationalism in the Twentieth Century: From Triumph to Despair, Princeton University Press, Princeton 2016, p. 10).

[6] R. Khalidi, The Origins of Arab Nationalism: Introduction, in The Origins of Arab Nationalism, a cura di Rashid Khalidi, Lisa Anderson, Muhammad Muslih, e Reeva S. Simon, Columbia University Press, New York-Oxford 1991, p. VII.

[7] A.M. Awan, Gamal Abdel Nasser’s Pan-Arabism and Formation of the United Arab Republic: An Appraisal, in “Journal of Research Society of Pakistan”, vol. 54, no. 1, 2017, p. 115.

[8] Cit. in M. Curtis (1986), The Middle East Reader, Transaction Book, New Brunswick (Usa) and Oxford (Uk) 1986, p. 201.

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