Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Humane localism is rooted in respect, not in homogeneity, in a recognition that liberty is sustainable only alongside respect for limits, and in the realization that human flourishing is best realized in the company of friends and neighbours sharing a common place in the world.

M.T. Mitchell

Nel lontano 1958, il sociologo ed economista tedesco Wilhelm Röpke dava alle stampe quello che poi è stato considerato il suo testamento spirituale: Al di là dell’offerta e della domanda (in Italia uscito per Rubbettino nel 2015 a cura di D. Antiseri e F. Felice). In tale grandiosa opera, il pensatore svizzero d’adozione si premurava di mostrare come la civiltà occidentale stesse sempre più facendo propria una filosofia di stampo “centrista”. Basato su uno spiccato razionalismo e una forte tendenza alla centralizzazione politica ed economica, tale pensiero sociale, scriveva Röpke, è proprio di chi pensa la società dall’alto in basso, senza fare dunque i conti con gli elementi individuali che la compongono. Tutto va pianificato dall’alto, non v’è dunque spazio per il decentramento e la libertà connessa a un largo ed equilibrato possesso di proprietà privata. Il perno teorico della prospettiva centrista, insomma, è l’eguaglianza; uniformità e appiattimento sono ciò che ne consegue.

L’individuo o, ancor di più, la persona, secondo il pensatore tedesco, non sono più l’unità di misura del mondo, bensì divengono il mezzo di un’economia e di una politica che hanno smarrito il senso del limite. La crisi della moderna società di massa è in primo luogo dovuta a una malattia spirituale che ha abbassato notevolmente la statura degli uomini e fatto perdere loro l’idea di una società fatta su scala umana. Il potere politico si sposta sempre più verso l’alto, con grandi organizzazioni che non solo rimpiazzano gli stati nazionali, ma, soprattutto, il principio di sussidiarietà e il decentramento territoriale vengono completamente dimenticati. Il razionalismo di cui è impregnato il centrismo non considera che l’uomo ha bisogno di piccoli contesti in cui sviluppare la propria identità. Un capitalismo che perde il contatto con la proprietà tangibile e largamente distribuita, poi, è il miglior alleato di un potere politico che rende gli uomini servili, piuttosto che capaci di esercitare una faticosa libertà responsabile.

La prospettiva decentrista è quella che alcuni studiosi americani hanno fatto propria scrivendo un manifesto sicuramente controcorrente: Localism in the Mass Age. A Front Porch Republic Manifesto (Front Porch Republic Books, 2018, pp. 306). Gli ideali portati avanti da questi autori, tra i quali figurano importanti studiosi come Mark T. Mitchell e Patrick Deneen, definiscono la propria filosofia “humane localism” e i pensatori di riferimento sono, come scrive nella prefazione lo stesso Mitchell: Wendell Berry e Christopher Lasch, Ernst F. Schumacher e Wilhelm Röpke, Russell Kirk, Hilaire Belloc, Gilbert K. Chesterton per arrivare a (o partire da) Alexis de Tocqueville. Ostile al per molti aspetti consunto tradizionale cleavage destra-sinistra e, su base americana, alla dicotomia repubblicani-democratici, la realtà nata dopo la crisi del 2008 rifugge tanto un cosmopolitismo astratto e dogmatico quanto un tribalismo chiuso e xenofobico. “Place, Limits, Liberty”, le tre parole chiave del movimento, stanno a significare che la libertà umana può essere riscoperta solo a partire da contesti comunitari pre-politici forti e sostenuti strenuamente dalle persone e che un certo senso del limite, ormai smarrito da un certo liberalismo, va riportato in auge.

Il significato di “Front Porch Republic” viene invece spiegato nell’introduzione di Deneen. Secondo il teorico politico che insegna in Indiana alla Notre Dame University una delle basi di una res publica sana e funzionante è una buona relazione tra sfera privata e sfera pubblica. Infatti, se tutto diventa privato, come già aveva visto Tocqueville, vengono meno le fondamenta di una democrazia; se tutto diventa pubblico, evidentemente, non vi è più spazio per la libertà dei moderni. E tale salda relazione, secondo Deneen, si è persa, simbolicamente e fattivamente, forse a partire dalla transizione del portico o veranda anteriore (front porch, per l’appunto) tipica delle case americane, a favore del cortile posteriore delle case, cioè non esposto alla sfera pubblica (patio). Con questo apparentemente innocuo passaggio, afferma Deneen, è decaduta l’idea che privato e pubblico possono sostenersi l’un l’altro, senza un eccessivo ripiegamento individualistico o egoistico, da un lato, e senza un dispiegamento onnipervasivo dello Stato, dall’altro.

Com’è noto, di nuovo Tocqueville aveva visto il palesarsi di una dicotomia solo apparente, ma che in realtà univa due elementi che si saldavano ben insieme: stretta cerchia di individui amici, rinchiusi in se stessi, e stato tutelare che si nutre della mancanza di forza morale degli individui inebetiti dall’incapacità di associarsi. Secondo Deneen, il front porch aveva proprio la funzione di far coltivare negli individui la capacità di conversare e scambiarsi opinioni tra persone diverse – uno dei requisiti di una buona cittadinanza – fortificandone i legami da opporre al Leviatano.

Secondo Deneen, autore peraltro già trattato su Il Pensiero Storico – nella fattispecie recensendone sul secondo numero cartaceo del 2020 il profondo volume Why Liberalism Failed (Yale University Press 2019) – vi è spazio per un fecondo incontro tra diverse posizioni politiche, che spazi dalla riscoperta di autori come Kirk e Lasch, Nisbet e Tocqueville. Tradizionalisti e libertari, cattolici e ambientalisti, disposti ad andare oltre gli steccati di etichette politico-ideologiche imbolsite ed erose dalle questioni del nostro tempo per dar vita ad un’opzione che ponga al centro la tutela della persona umana, non mero individuo consumistico, le sue radici (pure e soprattutto spirituali) e le tradizionali fonti di autorità ed educazione (si pensi alla sempre negletta famiglia), nonché un ordinamento ad essa consono imperniato su un’economia umana – titolo non a caso della traduzione inglese del classico röpkiano Jenseits von Angebot und Nachfrage, citato all’inizio della presente riflessione.

In un’età in cui le differenze si assottigliano – ironia della sorte nel momento in cui “inclusione” e “diversità” sono le parole più in voga – e tutto viene ridotto a massa informe, un’aristocratica resistenza localista che si ponga a metà tra il bieco nazionalismo e lo stolido globalismo sembra offrire una valida alternativa.

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