Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: P. Grossi, Il mondo delle terre collettive. Itinerari giuridici tra ieri e domani, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 102, € 13,00.

La proprietà? «Le droite le plus étendu qu’on puisse avoir sur una chose. Ce droit rend le propriétaire maître et seigneur de sa chose, e lui donne sur elle une omnipotence absolue, un despotisme entier».

Sono parole di Victor Marcadé, illustre esegeta ottocentesco del Code Napoléon, e rendono bene l’idea proprietaria dominante all’apogeo delle codificazioni borghesi e che si spinge molto addentro nel Novecento. Appannatasi  in Italia con la Costituzione del 1948, questa idea la ritroviamo oggi, epoca di aggressiva globalizzazione, risorta e ben rappresentata a livello di mentalità diffusa e di tecniche pervasive di scambi economici, in parallelo alla crisi dello Stato sociale. Nel mondo della competizione globale il monismo individualistico proprietario fa sempre più ombra alla funzione sociale della proprietà. Da qui l’esigenza pensare una forma alternativa di appartenenza, capace di contemperare il rinascente individualismo possessorio. E non c’è bisogno di avventurarsi in elucubrazioni teoretiche e speculazioni dottrinarie perché la nostra storia offre copiosamente modelli alternativi, sociali e solidali, di appartenenze proprietarie. Si tratta solo di riscoprirli e magari adattarli ai mutati contesti. È quel che ha fatto nella sua lunga giornata di storico e di giurista Paolo Grossi (1933-2022) il quale ha studiato con cure amorevoli il mondo degli assetti fondiari collettivi d’Italia. Decine di articoli scientifici, partecipazioni a convegni di studio, monografie importanti lo dimostrano. E lo dimostra questo suo piccolo libro, Il mondo delle terre collettive, pubblicato nel 2019, quasi un resoconto e un bilancio dell’itinerario percorso, e un messaggio fattivamente speranzoso come làscito.

Il volumetto presenta anche tratti di autobiografia intellettuale. L’Autore illustra come, novizio negli studi giuridici nell’Italia dei primi anni Cinquanta, abbia avuto la fortuna e colto l’opportunità di accostarsi alla storia del diritto e al diritto agrario, due «salvataggi culturali» (felice espressione utilizzata da Grossi) dal conformismo della statualità del diritto, due ambiti appartati di studi giuridici dai quali apprendere modelli alternativi al normativismo e al positivismo allora ancora imperanti, nonostante la Costituzione del 1948. Dagli studi storici Grossi ricavò il saldo convincimento che un diritto senza Stato fosse ancora possibile: un diritto giurisprudenziale, sapienziale e consuetudinario operante in un paesaggio – come già quello medievale –  dove «era tangibile l’assenza di un potere politico totalizzante» (p. 32). E si immerse nella ricostruzione storica dei diritti reali pullulanti nella versatile e composita civiltà giuridica medievale. Grazie poi al “salvataggio” del diritto agrario e all’incontro con un riconosciuto maestro come Giangastone Bolla (1882-1971), Grossi in quegli anni entrava in contatto con la realtà degli assetti fondiari collettivi, forme alternative di possesso d’origine ancestrale e «spontaneo frutto di storia e costumanze» (p. 42), e che mal si adattavano agli schemi proprietari romanistici (secondo cui esse non erano altro che iura in re aliena). Da qui il pluridecennale e insaziabile interesse di Grossi per lo studio dei domini collettivi con un approccio nient’affatto storico-antiquario (per quanto al Grossi storico è riconosciuta dovizia di precisione filologica nel setaccio delle fonti) ma proteso sull’avvenire. L’amorevole difesa giuridica delle ultime reliquie di terre collettive in Italia, lungi dal costituire per Grossi (siamo negli anni Sessanta) una battaglia di retroguardia contro il monismo proprietario funzionale al moderno capitalismo, rappresentava invece una anticipazione del futuro e nel frattempo nutriva gli studi dell’Autore il quale – è noto – ha consacrato al tema delle proprietà alternative la sua forse più famosa monografia Un altro mondo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post unitaria, pubblicata nel 1977. In pagine di estremo interesse (pp. 63-71) e non riducibili a mera autobiografia per via dei suggestivi squarci che si aprono sul clima intellettuale della scienza giuridica italiana e europea di quegli anni, Grossi ricostruisce gli antefatti e la genesi della celebre monografia che all’epoca venne criticata ma anche salutata come pietra miliare negli studi storici sul diritto di proprietà e delle forme di appartenenza e che oggi è ormai considerata un classico della letteratura giuridica.

Dal concetto di proprietà collettiva (o “forma alternativa di appartenenza”) scaturisce una visione ideologica che potremmo definire tradizionale e pre-illuministica dell’uomo e della società. E anzi, una diversa antropologia, di taglio recisamente anti-individualistico. “Oggetto” dell’appartenenza è una res primordiale, la terra, il grembo materno su cui uomini e donne vivono e lavorano e traggono sostentamento e senso di esistenza. La res non è ridotta a merce scambiabile, a merce che deve passare di mano in mano per garantire la circolazione delle ricchezze secondo gli scopi utilitaristici dell’homo oeconomicus. Al contrario: la res, più che oggetto su cui proiettare la libido possidendi degli individui, è la madre attorno alla quale ruota non l’individuo ma la comunità, e questa comunità non si riduce a somma di individui ma possiede una propria anima, un proprio scopo che si dispiega nei decenni se non nei secoli quale catena inter-generazionale legata a quella data terra, patrimonio collettivo amorevolmente coltivato, curato, rispettato e trasmesso. La Corte Costituzionale, in alcune sentenze ricordate da Grossi (la più  esemplare delle quali – la n. 46 del 24 gennaio 1995 – reca la firma di Luigi Mengoni, grandissimo giurista di origini trentine, di una terra montana cioè particolarmente sensibile alla dimensione comunitaria delle collettività agro-silvo-pastorali) ha colto una profonda verità che non è soltanto giuridica ma sociale: le terre collettive riflettono la saggezza, la prudenza, la solidarietà e la sobrietà degli uomini che su quelle terre (e grazie a quelle terre) vivono da generazioni. L’amore comune per il suolo, oltre a rafforzare la funzione sociale e economica delle vicinìe rurali e alpestri, agevola un’altra funzione oggi sempre più centrale: la preservazione e tutela ambientale. Le comunità valorizzano la terra, la preservano e non la brutalizzano riducendola a merce di scambio per incremento di profitti, tanto è vero che il suolo collettivo non cade nella libera disponibilità dei proprietari. Sappiamo, dopo lo scempio che si è creato in molte aree alpine a seguito di invasive installazioni di impianti di risalita e di incontrollate cementificazioni di aree un tempo boschive e prative, che anche le terre collettive, purtroppo, si sono rivelate argine inefficace alla logica proprietaria e affaristica dello sfruttamento intensivo dei suoli a scopi turistici e industriali. Ma ciò è in parte dipeso proprio dallo sfavore o dalla disattenzione con cui il legislatore ordinario e regionale, troppo a lungo imbevuto dal mito ideologico del monismo proprietario,  ha trattato le “altre forme di appartenenza”, affrettatamente relegate tra le arcaiche sopravvivenze di un’età premoderna e in quanto tali non meritevoli di tutele.

Col cambio di paradigma e con un recupero tra i giuristi di una visione più ampia e problematica e aperta delle varie forme di appartenenza, di cui la proprietà di origine romanistica (intesa come dominium) è solo una tra le altre, anche il legislatore (con la legge 20 novembre 2017 n. 168) è pervenuto infine al riconoscimento solenne dei domini collettivi quali realtà preesistenti allo Stato, e la giurisprudenza non è stata da meno. Come ha infatti riconosciuto la Suprema Corte di Cassazione nel 2018, i domini collettivi «da se stessi e non dalla legge derivano la propria legittimità […]; [la legge statale] prende atto della (pre)esistenza di una proprietà collettiva “originaria”, intesa sia come comproprietà inter-generazionale sia quale ordinamento giuridico primario delle comunità stesse» (Cass. 10 ottobre 2018 n. 24978).

Il riconoscimento ai più alti livelli dell’ordinamento giuridico di una proprietà collettiva, cioè di una organizzazione proprietaria che è anche comunità radicata nella terra e nella storia e che assolve a una funzione di tutela ambientale ed economica con modalità e esiti molto diversi dalle forme di proprietà del capitalismo più aggressivo e globalizzato, segna davvero l’attualità e la praticabilità di una alternativa.

Un “altro modo di possedere” è possibile. La lezione di Paolo Grossi è anche questa.

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