Alberto Giovanni Biuso è Professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna anche Metafisica e Filosofia delle menti artificiali. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente èŽdanov. Sul politicamente corretto (Algra Editore, 2024). Il suo sito web è www.biuso.eu
Recensione a: D. Susanetti, L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini, Carocci, Roma 2023, pp. 187, € 20,00
«Eccomi», dice Dioniso all’inizio dell’opera che porta il suo nome. Ma «eccomi» pronuncia ogni tragedia, al di là di quella con la quale Euripide chiude il ciclo senza fine, ritornante, della tragedia attica. «Eccomi», dice l’esistenza a ogni grumo di vita animale che appare nel mondo. Una vita che rimane straniera per il suo transitare e finire nel tempo, una vita che è posseduta per il suo transitare e finire nell’ora e nel qui. L’adesso e il sempre sono il gioco nel quale «Dioniso non cessa di interrogare: l’identità, il dolore, la conoscenza, il corpo, il linguaggio, l’orizzonte del singolo, la dimensione della comunità, il maschile e il femminile, la memoria della tradizione e la rovina in cui tutto si spegne» (p. 10). Nell’ esserci ora, nell’abisso del nulla passato, nell’enigma del nulla futuro, Dioniso è sempre presente. E il suo sorriso calmo e feroce, intriso d’eterno, indica – come fa quello di suo fratello Apollo – senza bisogno di parlare, di negare, di affermare. Indica e basta. Fa segno che «un’altra felicità, oltreumana, o semplicemente non umana» (p. 16) è possibile. Mostra una «luce che libera e dona felicità» (p. 18).
Questa la potenza del dio che è tutto dolore – disconosciuto, perseguitato e straziato a sua volta – ed è pura gioia, gloria, trionfo.
Dioniso è l’eroe della clava e l’eroe della parola: Eracle, Edipo, Aiace e tutti gli altri personaggi distrutti dall’intreccio del tempo e di Ἀνάγκη. Dioniso è Ἄτη, è la vendetta, è «la potenza sovrumana, inafferrabile di cui si avverte la mano oscura negli eventi, ma non si riesce a identificare chi sia né da dove venga» (p. 59). Dioniso è l’Erinni che abita nella storia profonda, nella scaturigine stessa, della πόλις umana; sua identità, custodia e garanzia. Dioniso è l’Erinni che si maschera da giustizia, che è la giustizia, al cui cuore pulsa sempre la vendetta, come tutti i tribunali attestano, testimoniano, enunciano, compresa la loro parodia contemporanea dell’Aja. «Molto ‘potere’ hanno, in ogni caso, le Erinni presso gli dei e presso gli inferi e ‘tutte le cose umane esse reggono’, se e quando loro aggrada» (p. 50).
La finzione che è la città, la finzione che è la giustizia rispetto alla natura profonda dell’impulso animale a vivere, a sopravvivere, a dominare, a esistere ancora, si mostra nella varietà e quantità di prodigi che le tragedie raccontano. Prodigi epifanici nei quali è un dio ad apparire; prodigi interiori della mente che finalmente fa luce sulla propria miseria o sul proprio riscatto; prodigi e agnizioni che il ciclo intricato e complesso delle vicende del mito destina. «Una rete di finzioni e di illusioni» (p. 170) è questo mondo doloroso e strano, la cui natura confina con il niente, che è il nulla stesso che per un intervallo infinitesimo del tempo diventa storia e parola. Tanto che «quando la politica e i saperi hanno esaurito i loro discorsi, quel che infine resta è, dunque, il nudo spettacolo della condizione mortale. […] L’atroce aritmetica della tragedia conclude indicando il ‘niente’ che gli uomini sono ed Edipo ne è, per tutti, il parádeigma, l’‘esempio’ scandaloso e insieme degno di pietà. […] Davvero nulla sono i mortali dinanzi agli dei e dinanzi al destino» (pp. 152-153).
Anche Dioniso è questo nulla, è una maschera che è l’altro nome del caso, di τύχη, potenza anch’essa divina. Ma è un nulla che si fa forma poiché il signore del teatro è «colui che distrugge ogni forma cristallizzata e ogni senso consolidato, costringendo a spingere lo sguardo fin dentro l’abisso» (p. 109). Conduce nell’abisso della pienezza e del vuoto, della piena insignificanza dell’esserci, e da questo abisso è capace di sciogliere coloro che gli si affidano nella fiduciosa certezza che essere amici del tempo e del niente fa sì che nulla di peggio possa accadere del comprendere il niente temporale che siamo. È dall’illusione di essere qualcosa destinato a durare ‘per sempre’ che Λυσῖος, il Dioniso liberatore, ci scioglie. E nello stesso tempo ci insegna a gioire di questa infima e splendente durata nella materia e nel tempo, di questa forma contingente che siamo, destinata a tornare nella pienezza colma di senso della materia celeste, delle radiazioni elettromagnetiche che sono la luce, che sono Dioniso.
Questo dio è dunque filosofo ed è anche per questo che «i dialoghi stessi di Platone sono costruiti e concepiti, per l’appunto, come un teatro» (p. 172). Platone, l’ultima maschera, la più riuscita, del dio.