Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: Mario Tobino, Il manicomio di Pechino, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2023, pp. 198, € 12,50.

Il nome di Mario Tobino è inevitabilmente legato alla storia dei manicomi e alle storie della follia. La sua scrittura è nata e si è nutrita dell’atmosfera, ricca allo stesso di tempo di violenza e di umanità, che dominava nell’ospedale psichiatrico dove visse per decenni. I libri di Tobino raccontano di un mondo che non esiste più, dunque; d’altra parte, essi rimangono attuali per la capacità del loro autore di mostrarsi come uomo consacrato alla medicina e alla letteratura e, contemporaneamente, di mostrare il mistero inesauribile che la follia rappresenta da sempre e per sempre per gli uomini – un mistero che nessuna scienza riuscirà mai a risolvere. In Tobino c’è sempre forte un senso (potremmo dire religioso) della meraviglia davanti alla potenza e alla imprevedibilità delle passioni umane, davanti alla loro maestosità (terribile talvolta).

Ecco che ora Mondadori pubblica in una nuova edizione Il manicomio di Pechino: si tratta di un diario, scritto alla metà degli anni Cinquanta, quando a Tobino capitò di dirigere temporaneamente il manicomio provinciale di Lucca, dove già lavorava, e che fu pubblicato per la prima volta diversi decenni dopo, quando ormai i manicomi erano già stati (almeno ufficialmente) chiusi. Ritroviamo qui i temi classici della narrativa di Tobino, come la cronaca avventurosa dei suoi tentativi terapeutici per riportare alla luce della ragione, o almeno al calore della solidarietà umana, persone colpite dalla follia e dalla disperazione. Il libro – come spiega la storica Valeria Babini nella sua introduzione – è dunque un documento interessante per chi si occupa di storia della psichiatria del secondo dopoguerra, di un periodo cioè in cui – anche se all’apparenza la stasi e l’inerzia dominavano nei manicomi pubblici – una piccola, grande rivoluzione (cioè l’introduzione degli psicofarmaci) accadeva.

Al centro di questo diario ci sono ovviamente gli uomini e le donne con cui Tobino condivideva il peso di questa enorme responsabilità: gli altri medici, gli infermieri, gli amministratori pubblici e, per certi versi, i malati stessi. D’altra parte, domina qui un potente senso di solitudine: Tobino vi si vede sempre isolato e fuori posto, specialmente davanti alle ambizioni più o meno meschine degli altri attori di questo sistema, che, almeno in teoria, avrebbe dovuto garantire dignità e speranza ai malati.

Oggi vaghe considerazioni su i due medici assistenti che io stesso ho fatto assumere qui, e loro mi corbellano. Sono stato con loro padre e amico. Stamani mi è sembrato che uno dei due mi volesse chiedere scusa. Lo ho tenuto a distanza. E durante il giorno di nuovo mi ha assalito il ripetuto pensiero di come sono in contrasto con il mio tempo (p. 47).

A ben pensarci, questo libro potrebbe essere letto anche come una critica incessante alla burocrazia italiana, alla atavica inadeguatezza della classe politica nazionale (specie a livello locale). Tobino ci consegna infatti questa triste constatazione: in Italia niente può cambiare davvero, gli interessi personali e di parte prevarranno sempre:

La mia non è una direzione, è una lotta contro una amministrazione che segue piccoli interessi politici, e soltanto quelli, mentre io perseguo, voglio il bene e l’ordine dell’Istituto. Io difendo, quasi da solo, i malati che mi sono affidati.

Laggiù, dall’amministrazione, mandano ordini in dipendenza delle beghe fra di loro, di interessi di partiti politici, di preoccupazioni per le prossime elezioni; si servono del manicomio – che ha trecento infermieri, fornitori di ogni genere, un bilancio di molti e molti milioni – come di un mezzo per le loro mire, ignorando del tutto i malati di mente, anzi ridendoci sopra, sghignazzando sui matti, su questo istituto, e su di me che lo rappresento (p. 80).

E si inserisce qui anche il sentimento ambivalente (il più classico amore/odio) di Tobino per la provincia, per la mentalità popolana (contadina) che allora – e per certi versi anche oggi – vi dominava. Tobino amava sì il popolo (che per lui era rappresentato anzitutto dagli infermieri), ma ne era anche sempre infastidito e deluso.

Lo scrittore viareggino mal sopportava insomma il mondo in cui doveva vivere; anche per questo, il manicomio era pur sempre un “rifugio” per lui, una specie di cura al suo sentirsi sradicato. Il tempo trascorso lavorando, vivendo in manicomio da direttore, era però per lui una fonte di angoscia, perché era tempo sottratto, rubato alla sua altra grande, vera passione: la letteratura. Così, Il manicomio di Pechino è anche come il diario di uno scrittore, combattuto fra il mondo e le parole, fra la necessità di lavorare e il desiderio di scrivere:

E intanto, a vampate, mi accorgo che non mi dedico più alla letteratura. Come potrei ora mettermi a immaginare con tutto me stesso Il periodo clandestino? Anche in questo lavoro gettavo la stessa passione che uso da quando sono direttore. La letteratura vuol tempo e signoria. La sera mi cascano gli occhi e vedo o intravedo che non ho neppure nelle braccia la forza per iniziare a compiere (p. 30).

Loading