Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: F. Forlenza, Potere e diritto nell’Antico Testamento. Un itinerario tra la Storia e gli Istituti del Popolo Ebraico, ViTrend, Trento 2023, pp. 187, € 18,00.

«Tutti i concetti più pregnanti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», scrive Carl Schmitt nella Teologia politica. Senza citarlo esplicitamente, Francesco Forlenza (giurista ed ex magistrato) imposta il suo studio su Potere e diritto nell’Antico Testamento come nuova conferma della celebre asserzione del grande filosofo del diritto tedesco. Ed anzi Forlenza estende l’asserzione alla scienza giuridica tout court, considerata un residuo secolarizzato della teologia giudaico-cristiana.

Il saggio non è opera di un biblista di professione ma appunto di un giurista e si focalizza, come recita il sottotitolo, sugli «istituti del popolo ebraico» nel plurisecolare percorso veterotestamentario. Nelle pagine di Forlenza i concetti di giustizia, eguaglianza, legge, contratto, pena non vengono analizzati teoreticamente nella loro illuministica astrattezza e universalità ma evocati in stretta connessione con la vicenda storica e teologica del popolo eletto. Così per esempio la contrattualistica: Sacre Scritture alla mano, l’Autore illustra bene la composita ricchezza del contratto biblico nelle sue varie sfaccettature. A seconda dei contesti e dei contraenti è presentata la valenza archetipica del contratto biblico bilaterale, sinallagmatico, unilaterale, con clausole giuridiche e al contempo comportamentali («di intonazione politico-teologica aventi natura legale e cultuale», p. 29). Il primo contratto sinallagmatico (Genesi, 23) vede per protagonista Abramo, impegnato in un complesso cerimoniale orale.

Dopo il contratto, i diritti reali. La proprietà veterotestamentaria presenta analogie problematiche con la schietta concezione romanistica del dominium; infatti solo Jahvè è il «titolare di un diritto soggettivo dominicale su tutte le cose» (p. 145). Gli uomini possiedono non perché proprietari ma in quanto meri usufruttuari, titolari (direbbero i Romani) di iura in re aliena. Emerge dunque una diffidenza di fondo nei confronti della titolarità di pieni diritti proprietari in capo agli uomini e se è sin troppo ovvio rammentare le invettive dei Profeti contro le ricchezze dei proprietari, meno ovvia appare la sottolineatura della concezione essenzialmente solidaristica della proprietà nell’antico Israele. Anzitutto il soggetto titolare (beninteso: un soggetto sempre subordinato al possesso eminente dell’unico e vero proprietario, Jahvè) si identifica nel gruppo (famiglia o clan) e non nell’individuo; inoltre, quale «correttivo sociale alla forza individualistica degli interessi» (p. 146) erano previsti a carico dei possessori pressanti obblighi religiosi e lato sensu culturali di solidarietà sociale (decime, elemosine, remissioni periodiche di debiti). Il diritto di proprietà (quantomeno nelle ideali aspirazioni) veniva, da un lato, risolutamente subordinato alla giustizia e, dall’altro, esercitato nel rispetto della dignità dell’uomo, creatura plasmata a immagine e somiglianza di Jahvè: di qui le relativamente blande pene previste per i violatori delle proprietà altrui a paragone delle ben più crude sanzioni per altre tipologie di crimini. Con un colpo d’ala l’Autore evoca suggestive analogie tra questa proprietà biblica e la nostra proprietà come delineata dall’art. 3 della Costituzione e d’altronde nelle Scritture ebraiche la ricchezza materiale è trattata con diffidenza: si sospetta che il molto ricco sia un iniquo sfruttatore del lavoro altrui. Ma c’è il rovescio della medaglia: altrove nelle Scritture la prosperità in beni terreni viene innalzata a segno di benevolenza divina (così per Abramo, lo stesso Giobbe, etc.).

«L’uomo nasce a perversità», recita Giobbe. Le Scritture vedono nell’uomo un riflesso divino  ma talmente degradato dal peccato da risultare incline alla malvagità. La concezione antropologica veterotestamentaria (recepita dal cristianesimo) poco o nulla ha a che spartire con l’ottimismo illuminista e l’uomo biblico spesso sceglie deliberatamente il male, andando però incontro a terribili punizioni. Il diritto penale veterotestamentario è molto duro e vendicativo, però l’Autore coglie alcuni tratti di modernità e di civiltà giuridica nella vendetta della legge del taglione, modellata sulla vendetta divina. La concezione retribuzionista della pena segna un progresso difficilmente contestabile perché introduce il principio della proporzionalità, certezza e prevedibilità della sanzione. Correttamente si osserva che la legge del taglione, pur nella sua arcaicità, sottrae la comminazione della pena «all’arbitrio delle parti e alle vicende delle passioni individuali o di gruppo» (p. 97).

Se ora volgiamo lo sguardo al “diritto costituzionale” biblico e alle forme organizzate del potere ci imbattiamo nell’ineludibile primo Libro di Samuele, che così tanto affascinò il Vittorio Alfieri scrittore del Saul. Alla federazione delle tribù si sostituì la monarchia accentrata; contro le ammonizioni del saggio Samuele il popolo grida «sia un re su di noi» (I Sam 8,19): la folla si vota alla venerazione di un potere innalzato a idolo e che subito degenera in dispotismo. E così traiamo dal libro di Samuele l’esemplare precedente di un popolo che consensualmente, democraticamente, acclama e idolàtra il potere, contro cui però si scagliano i Profeti. Per Isaia l’idolo del potere è un nulla, e ci si riferisce al potere in sé, non al potere specificamente monarchico.

Insomma: l’antico Israele come matrice di idee, dottrine, prassi e degenerazioni del vivere sociale ricche di futuro. La sua vicenda storica può studiarsi, ad esempio, come archetipo teologico del federalismo e dell’istituzionalismo. Sul modello del Sacro Patto tra Jahvè e il suo popolo si articolavano le relazioni pattizie, cioè federali, tra le Tribù di Israele. La teologia federale, inconcepibile senza le radici veterotestamentarie, si sarebbe robustamente sviluppata nell’humus protestante e specificamente calvinista sino a plasmare di sé le libere comunità puritane della Nuova Inghilterra, per poi gettare le fondamenta del federalismo statunitense. L’Autore sfiora appena questo tema – che è cruciale proprio sotto il profilo giuridico e politico – e forse avrebbe potuto dedicarvi qualche pagina in più.

Egli affronta invece esplicitamente la questione dell’istituzionalismo dedicandovi un apposito e ben argomentato paragrafo. La vicenda storico-teologica di Israele offre infatti al giuspubblicista la preziosa occasione di sottoporre a verifica empirica l’istituzionalismo di Santi Romano (1875-1947). Per Romano – è noto – il diritto è società, esso esiste in quanto si dia una società articolata in plurimi ordinamenti, a prescindere da quell’astrazione chiamata “Stato”. Poiché il diritto coincide con la pluralità degli ordinamenti, le regole e prassi giuridiche restano valide senza necessità di uno specifico apparato statuale e amministrativo. Orbene, l’antico Israele si manifestava nella storia empirica non in quanto “Stato”, e neppure in quanto monarchia istituita ma quale pluralità di tribù e di famiglie federate, tenute insieme dalla religione, e per religione si intendeva la Legge. Sotto la Legge prosperava e vinceva (ma anche soffriva e subiva sventure) una collettività di destino refrattaria a identificarsi in astrazioni giuridiche quali polis, res publica, demos, Impero. La monarchia di Saul, di Davide e dei Re rimase sempre – su questo l’Autore insiste molto – una pellicola superficiale rispetto alla genuina scorza della federazione di tribù e della collettività nel suo insieme, resa straordinariamente compatta dalla consapevole elezione divina. La Legge può interpretarsi come una vera “carta costituzionale” del popolo eletto. Gli Israeliti «sono vissuti per millenni senza Stato, senza territorio ma con una Legge» (p. 175): una comunità viva e, ancorché dispersa, produttrice di diritto all’ombra non dello Stato e dei suoi apparati o surrogati ma della sola Legge rivelata. Una bella conferma empirica delle tesi di Santi Romano.

Chiuso il libro di Forlenza, si ha l’impressione di non aver appreso nulla di realmente originale ma l’opera – è già scritto nella prefazione di Andrea Zanotti – si pone finalità non scientifiche ma divulgative. E assolve bene il compito, con in più il pregio di un linguaggio chiaro e accessibile. E anzi una nota di originalità a ben vedere c’è, ed è il generoso tentativo dell’Autore di scoprire in alcuni basilari istituti della nostra civiltà giuridica un nobilitante soffio divino.

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