Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jaspers e Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.
Dopo aver realizzato quello che per molti è il film più importante del ventunesimo secolo, Mulholland Drive, Lynch realizza una sitcom surreale, impregnata di angoscia, di tinte perturbanti, che sembra appartenere allo stesso universo simbolico e narrativo di Twin Peaks e del precedente Mulholland Drive.
La serie, composta da sette episodi, ognuno dei quali della durata di sei minuti, vede protagonisti tre conigli antropomorfi racchiusi in una stanza oscura. Sullo sfondo si ode chiaramente il rumore martellante di attività industriali (un marchio sonoro tipicamente lynchano, da Eraserhead fino all’ultimo Twin Peaks) e, forse, la sirena di una nave. I tre conigli antropomorfi (che simbolicamente ispessiscono l’utilizzo in chiave psicologica e orrorifica che dell’animale ha fatto il cinema: si pensi ad Alice, a La collina dei conigli di Rosen, al coevo Donnie Darko, a Matrix etc.) sono Jack Rabbit, interpretato da Scott Coffey, Jane e Suzie Rabbit, rispettivamente interpretati da Laura Harring e Naomi Watts, le due folgoranti protagoniste di Mulholland Drive, il quale, inizialmente, era stato pensato come una serie TV sulla falsariga di Twin Peaks.
I conigli svolgono per lo più gesti meccanici: si siedono, stanno in piedi, rispondono al telefono e pronunciano battute surreali, quasi tutte decontestualizzate e fuori tempo. Ad accompagnare i gesti perturbanti dei conigli delle risate preregistrate tipiche delle sitcom, anch’esse sfasate, in dissonanza cone battute dei protagonisti. Qui il riferimento immediato è il Club Silencio. «No hay Banda», «Il n’y a pas d’orchestra». Non c’è orchestra, tutto è già avvenuto, tutto è registrato. Tutto eternamente ritorna come dissonante, come Unheimlich. È la stessa decostruzione del tempo che informa le vicende della Loggia Nera, della Purple Room e della Loggia Bianca. Le parole pronunciate al contrario da parte di The man from another place, il nano, oltre a ribadire la totale destrutturazione del linguaggio, e dunque della sintassi filmica, alludono all’implosione delle tre coordinate temporali: passato, presente e futuro. In Rabbits tutto è avvolto nel già-stato e nel non-ancora-eppure-già-stato.
Ricordate le parole di Mike, The man with one arm? «Nell’oscurità di un futuro passato il mago desidera vedere. C’è solo una possibilità fra questo mondo e l’altro. Fuoco, cammina con me». Anche Rabbits si riferisce a questo triplice slittamento: semantico, spaziale-metafisico e temporale-metafisico. La stanza oscura è una «possibilità fra questo mondo e l’altro». Con estrema probabilità, i tre conigli pronunciano frasi che fanno riferimento a una vita passata in forma umana. «Eri bionda?» chiede uno dei personaggi a un certo punto. «C’è qualcosa di sbagliato» ribadisce un altro personaggio, come se affiorasse la consapevolezza della propria dissonanza esistenziale. Non mancano, poi, allusioni a «un posto oscuro» (la Loggia Nera?) che ci fanno comprendere che la stanza è un interregno, una nuova sala d’aspetto twinpeaksiana. Una sorta di purgatorio in cui espiare la propria indicibile colpa. Una colpa forse rimossa. Forse riscritta e risemantizzata. Jack Rabbit ha commesso probabilmente un crimine terribile e inconfessabile. La domanda «vorrei solo che se ne andassero da qualche parte», oltre a presentarsi come allusione meta-diegetica al pubblico che ride del tragico, ha una funzione narrativa. Forse si riferisce a coloro che tirano le fila del dramma metafisico in cui i conigli sono gettati e costretti a ripetere gesti dissonanti, a rispondere a domande poste o nel passato o nel futuro.
La serie, infatti, confluirà, diventando un tassello portante e decisivo della narrazione, nell’ultimo lungometraggio di Lynch: Inland Empire. Qui, nella primissima scena, Jack, a un certo punto, entra nella stanza adiacente e chiude la porta. Non sappiamo chi ha effettivamente bussato. Jack sembra dissolversi – prefigurazione del dissolvimento psico-metafisico di Nick/Sue? – e la stanza oscura si illumina. Appaiono, all’improvviso, due personaggi. Un uomo calvo – Janek, forse una sorta di guardiano fra questo mondo e l’altro, un custode della “soglia”? – e quello che nei credits è designato come Il Fantasma: un uomo dall’aspetto maligno, cui è legato “il tentativo di aprire una porta”. Chi è il Fantasma? È, forse, come il macchinista/demiurgo di Eraserhead il creatore di questo mondo posto sotto il sigillo del male metafisico? È come BOB/Judy colui che si nutre della paura, dell’angoscia e della colpa degli uomini? Sta cercando, come BOB, di trovare un varco servendosi di un essere umano?
Inland Empire risponde, alla maniera di Lynch, senza chiudere definitivamente il lavorio ermeneutico dello spettatore. Rabbits, come Twin Peaks, ci parla della realtà come sogno/incubo. È come un incubo dal quale temiamo di non svegliarci più. Lynch mette in scena la paura infantile di essere intrappolato nei sogni. Rabbits è una paralisi ipnagogica che pone in scacco il concetto stesso di realtà. La realtà è un’illusione, un segno che rimanda ad altre illusioni. «Noi siamo come il ragno. Intrecciamo la nostra vita e poi muoviamo lungo di essa. Siamo come il sognatore che sogna e poi vive nel segno. Ma chi è il sognatore?» (Upanishad). La domanda è destinata ad essere senza risposta. Non tanto perché non ci sia una verità da trovare (la verità c’è: se non ci fosse, non la cercheremmo. Cerchiamo la verità perché in qualche modo l’abbiamo già trovata), ma perché la verità da trovare non è solo una verità da conoscere, ma una verità che dobbiamo avere il coraggio di essere.
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