Mario Ascheri (1944) è nel Consiglio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo dopo aver insegnato nelle facoltà di Giurisprudenza e di Lettere delle università di Sassari, Siena e Roma 3. Ha fondato la rivista «Nova Itinera» con S. Amore e A. Giordano; come giornalista pubblicista ha diretto il settimanale “Zoom” a Siena (2009-11). È nel direttivo di molte riviste storiche italiane e straniere. È uno specialista di storia della giustizia e della giurisprudenza medievale e moderna, oltreché dei Comuni italiani, ed è riconosciuto a livello internazionale per i suoi lavori specialistici sui consiliae i manoscritti giuridici basso-medievali. È stato coordinatore della rivista dell’Accademia dei Rozzi di Siena. Nel 2001 gli è stata conferita la laurea honoris causa dall’Università dell’Auvergne (Clermont-Ferrand) e nel 2003 il massimo riconoscimento civico a Siena (“Mangia d’oro”) e a Ventimiglia (“San Segundin d’Argentu”). Negli anni 2000 è stato membro del Beirat del Max-Planck-Institut per la storia giuridica europa (Frankfurt/Main). Da allora è anche Senior Fellow della Robbins Collection, School of Law (Boalt Hall), University of California, Berkeley.

Oggi riusciamo a fare tante cose molto bene.
Purché non siano essenziali.
– don Sergio De Giacinto

Introduzione

Gli italiani pagano l’elettricità il 12% in più della media europea, il 42% in più il gas, il 35% ha l’acqua razionata almeno una volta; il 20% non è collegato a una fognatura; «il governo afferma di aprire i servizi al mercato, in realtà fatta eccezione per la telefonia si è liberalizzato poco e male e privatizzato ancor meno; per conservare il consenso basta garantire ai poteri locali, sempre più forti, la rendita della piccola miniera dc’oro delle municipalizzate e ogni tanto un pezzo di monopolio ai privati; ma “i cittadini non sono invitati alla festa» (Alessandro Penati, “Corriere della Sera”, 19.9.1999)

Scrivere di storia del diritto moderno in senso lato, dilatando al diritto contemporaneo è molto difficile. Si può dire che sia così perché non c’è una tradizione che aiuti in questo senso in Italia, dove la storia del diritto ha una robustissima tradizione di studi già ottocentesca, ma essenzialmente medievistica? Significherà qualcosa che, ad esempio, nelle pubblicazioni delle maggiori casi editrici italiane del settore le opere di storia giuridica contemporanea siano essenzialmente di stranieri, come i libri dovuti alla penna di Kelly e di Hespanha?

Certo, in parte quella può essere una spiegazione, ma non è tutta la verità. È solo la spiegazione più evidente e semplice, che non a caso si accompagna di solito ad alti (e ormai essi stessi tradizionali) lai contro quella tradizione storiografica medievistica, accusata di essere solo erudita o comunque ormai fuori del mondo, contraria al ‘moderno’, alle esigenze di ‘oggi’, che sarebbero quelle del rapporto con i giuristi, con gli operatori di prima linea del mondo giuridico, che ci stanno accanto nelle Facoltà di Giurisprudenza.

In realtà c’è di più, naturalmente. Il fatto decisivo è che scrivere di storia del diritto moderno è soprattutto difficile perché comporta, oltreché una narrazione di fatti e vicende complesse, anche una riflessione e una valutazione del rapporto passato-presente molto impegnative. È certamente più facile parlare di diritto positivo e diritto naturale in questo o quel glossatore o in san Tommaso, che non dare valutazioni sui progressi del diritto e della procedura penale, o sugli sviluppi costituzionali oppure ancora sull’organizzazione amministrativa o sulla sovranità nell’età contemporanea e così via. Ogni tema di storia del diritto moderno e contemporaneo coinvolge il problema dell’uso di delicatissime categorie storiografiche e quindi il nostro rapporto complessivo, non solo come storici, con il presente. Qualificare in un certo modo certi fatti giuridici recenti implica sempre anche un giudizio sul presente, una certa ‘lettura’ del tipo di passaggio realizzatosi da quei fatti recenti a oggi.

Scrivere di queste questioni è quindi difficile perché bisogna ‘scoprirsi’, dire molto di se stessi, delle proprie convinzioni, mentre si può evitare di farlo, esplicitamente almeno, parlando del passato più remoto. Anche in quel caso c’è il rapporto col presente, ma è più mediato, meno evidente. Scrivere del diritto come si è sviluppato e ha preso le forme attuali è anche darne una valutazione. Chi l’ha fatto e come l’ha difeso e applicato, nel bene e nel male, prospettando pericoli e fatti che incombono ancor oggi.

Contrariamente a quanto si dice troppo frettolosamente, le ideologie non sono finite affatto col magnifico secondo ’89. In esse si sono formate intere generazioni di studiosi e le loro credenze permangono ancora sullo sfondo quando si tratta di ordinare i fatti del passato, selezionarli e dare loro un senso. Questo vale anche per la storia del diritto.

Per tanto tempo in passato, il convergere – sullo sfondo della cultura diffusa anche tra gli storici del diritto – dell’ottimismo positivistico tardo-ottocentesco con l’idealismo ottocentesco e i vari neoidealismi aveva portato a vedere nella storia del diritto un movimento finalizzato all’emergere di due fatti positivi di cui la storia del diritto doveva appunto mostrare i fatti anticipatori, le ‘premesse’ nel passato: da un lato la codificazione e dall’altro la costituzionalizzazione.

Si diceva, infatti, o si pensava senza dirlo esplicitamente, che codici e costituzioni fossero i fatti giuridici ‘contemporanei’ per definizione, quelli che contrassegnavano il positivo ‘moderno’, il presente vittorioso sul passato, dipinto come una realtà negativa fatta d’arbitri, priva di civiltà giuridica, superata solo con grande fatica, passo dopo passo. La storia giuridica doveva rendere conto appunto di quei passi, grandi o piccoli che fossero. Si trattava quindi di scoprire le ‘idee ‘moderne’ presenti nel passato per vederle fruttificare più o meno lentamente, dopo più o meno luminosi ‘inizi’ o ‘precursori’. La prospettiva era essenzialmente teleologica quindi. Si mostrava che questo o quello era avvenuto perché c’era stato proprio quel precedente. La storia legittimava il presente e ne mostrava le solide, civilissime, radici.

A questa visione sostanzialmente manichea del passato – questo tutto negativo, salvo barlumi precorritori del ‘moderno’ – cui si contrapponeva nettamente un presente – questo sì ritenuto positivo, perché aveva tratto sicuri insegnamenti da quell’oscuro passato –, si è poi lentamente sostituito un altro paradigma di lettura nella seconda metà di questo secolo. Si è tenuta ferma la rigida contrapposizione tra il mondo antico, cioè quello del diritto ‘intermedio’ tra diritto romano e tardo-romano, e quello attuale, moderno-contemporaneo (ossia dal XVIII secolo), ma si è aggiunta la considerazione critica del mondo giuridico attuale, visto come risultato e garanzia d’un equilibrio storicamente datato, d’un mondo ‘borghese’, conservatore, che doveva lasciare il posto ad un mondo nuovo, che avesse rotto con il dominio di classe della borghesia. In questa prospettiva la storia giuridica doveva mostrare la provvisorietà e precarietà di quel mondo giuridico funzionale agli interessi di classe e normalmente legittimato dai giuristi positivi, quei conservatori per vocazione, che credevano d’essere sempre giunti al termine dell’evoluzione, al traguardo della civiltà. Insomma, la storia giuridica doveva essere essenzialmente critica del diritto, l’unica esercitabile nelle conservatrici Facoltà giuridiche in assenza di discipline come l’antropologia e la sociologia, e quindi preparare operatori consapevoli della loro possibile funzione rivoluzionaria nella società.

Questa prospettiva, certamente fortemente ridimensionata se non proprio annichilita dal secondo ’89 cui si accennava, è tutt’altro che morta. È ancora la motivazione di molti storici del diritto, come mostra bene anche un manuale recente, ma non è la nostra – giova dire subito. Non che si voglia con ciò sottoscrivere l’intuizione del grande scrittore Elias Canetti, secondo il quale si dovrebbe «imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare». Più semplicemente, crediamo che sia compito della storia giuridica fornire utili chiavi di lettura del presente, nel senso di contribuire ad aiutare – assieme ad altri approcci, filosofici, sociologici, antropologici e così via – a comprenderne l’assoluta complessità. Contro i variegati (perché di vario ‘colore’, anche politico), reiterati e onnipresenti tentativi di semplificazione della realtà, la storia giuridica se può avere una funzione formativa, ha a nostro avviso quella di mostrare l’irriducibile non-semplificabilità del reale giuridico, e in specie di quello contemporaneo, perché frutto di sedimentazioni e sollecitazioni varie, complesse e contraddittorie. Si vorrebbe credere che il moderno (l’oggi) sia il contrario dell’antico (Medioevo, ad esempio), come molti amano credere a far credere dai media[1], ma è dolorosamente più realistico ammettere che molto del passato, nel bene e nel male, vive in noi e che solo per un fatto psicologico profondo ci distinguiamo e contrapponiamo a parole anche convincenti – efficacissime sul piano retorico – al passato. Può essere utile per qualche crociata anche nobilissima, ma è da vedere fino a che punto tale atteggiamento sia più di un bisogno collettivo radicatissimo, e non invece una semplice illusione. Personalmente non ho difficoltà a dichiarare questa opzione.

Il nostro secolo sanguinosissimo ha distrutto definitivamente ogni presunzione (non la fiducia e la speranza, che sono altra cosa) di razionalità e bontà dell’uomo, e con ciò anche ogni certezza in un progresso lineare e costante. La civilizzazione umana è sempre possibile che migliori ma è anche sempre in pericolo di paurosi show down, di crolli. Il fatto non è senza conseguenze metodologiche, credo, per lo storico del diritto, e per ogni altro. Le sue tradizionali alternative di categorie (progresso/regresso, antico/moderno, arbitrario/legale, costituzionale/inconstituzionale e così via) vanno utilizzate con grandissima prudenza, e contestualizzate con una spietata critica delle fonti.

(Fine prima parte)

Note:

1 Per esorcizzare il pericolo che la storia delle crociate (quelle medievali, per Gerusalemme) possa essere malamente usata nel dibattito odierno tra cristiani e musulmani, un robusto scrittore come Amin Maalouf sottolinea come «Malgrado le apparenze, gli uomini di quell’epoca non sono nostri correligionari, non sono nostri compatrioti, ma soltanto nostri simili alla lontana. Quello che noi chiamiamo ‘religione’, ‘società’, ‘nazione’, ‘umanità’, ‘terra’, ‘donna’, ‘esistenza’, ‘bene’, ‘male’, ‘scienza’, ‘credo’, ‘opinione’, ‘libertà’, non hanno nulla a che fare con il significato che essi avrebbero attribuito a questi concetti […] i loro valori sono talmente differenti dai nostri che ogni parola che noi usiamo, riferendoci a loro, dovrebbe essere tradotta e chiarita, addirittura, idealmente, sostituita» (“Corriere della Sera”, 26.7.1999). Non nascondo che vorrei esserne convinto anch’io: avremmo qualche speranza in più su un futuro migliore. Intanto i gesuiti (Carmelo Capizzi in «Civiltà cattolica», 1999) rivalutano le crociate, perché attivarono processi positivi e non si proposero mai «di propagandare la fede a mano armata» (“Corriere della Sera”, 16.7.1999), e Franco Cardini nota che l’astratto ‘crociata’ si usa solo dal ‘700 generalizzando, mentre prima si parlava solo di crociati (ivi), ma l’invasione del 1099 non fu una passeggiata turistica; vedi ora K. Armstrong, Gerusalemme. Storia di una città tra ebraismo, cristianesimo e islam, Milano 1999.

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