Mario Ascheri (1944) è nel Consiglio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo dopo aver insegnato nelle facoltà di Giurisprudenza e di Lettere delle università di Sassari, Siena e Roma 3. Ha fondato la rivista «Nova Itinera» con S. Amore e A. Giordano; come giornalista pubblicista ha diretto il settimanale “Zoom” a Siena (2009-11). È nel direttivo di molte riviste storiche italiane e straniere. È uno specialista di storia della giustizia e della giurisprudenza medievale e moderna, oltreché dei Comuni italiani, ed è riconosciuto a livello internazionale per i suoi lavori specialistici sui consilia e i manoscritti giuridici basso-medievali. È stato coordinatore della rivista dell’Accademia dei Rozzi di Siena. Nel 2001 gli è stata conferita la laurea honoris causa dall’Università dell’Auvergne (Clermont-Ferrand) e nel 2003 il massimo riconoscimento civico a Siena (“Mangia d’oro”) e a Ventimiglia (“San Segundin d’Argentu”). Negli anni 2000 è stato membro del Beirat del Max-Planck-Institut per la storia giuridica europa (Frankfurt/Main). Da allora è anche Senior Fellow della Robbins Collection, School of Law (Boalt Hall), University of California, Berkeley.

L’identità europea è una realtà in fieri oggi, e gli itinerari contraddittori dei processi di unificazione non giovano certo a definirla. Generosi slanci popolari e giovanili coesistono ad esempio con interventi internazionali di una spregiudicatezza che mal si concilia con la politica ufficiale di pace[1] Quindi: di quale Europa si vuol parlare? Di quella attuale o di quella che sarà con le nuove ammissioni previste o prevedibili? Perciò si scrive tanto[2], a volte anche aprendo dibattiti che presto saranno datati e fuori moda.

Ci sono però dei campi in cui gli orientamenti ideali consolidati in seguito ai dibattiti culturali possono avere un’importanza decisiva nelle decisioni da prendere ai livelli politici, per cui quei confronti vanno seguiti e talora meritano grande attenzione.

Come quelli sul diritto e sulle istituzioni in generale, e più in particolare quelli sulle prospettive di unificazione del diritto. Qui i discorsi divengono delicatissimi, com’è avvenuto per la Costituzione, specie quando coinvolgono, oltreché le relazioni contrattuali, investite dalla incandescente globalizzazione dei mercati nel mondo del lavoro, dei consumi e dell’economia, i settori più tradizionali della famiglia e delle successioni.

Com’è facile immaginare, è tutt’altro che assodato in che prospettiva ci si debba muovere per agevolare e non ostacolare quei processi di unificazione che sono lenti e difficili, ma che – non dimentichiamolo – sono sui tempi lunghi positivi processi di pace, interna e – si spera – anche esterna all’unione.

Da qualche anno è in corso un dibattito accanito sul punto specifico, che si è in gran parte coagulato attorno al rilievo da conferire alla tradizione romanistica e più in generale alla tradizione occidentale, viste come ancore che renderebbero facile l’unificazione: quasi un’autostrada da percorrere rapidamente una volta acquisita la consapevolezza della profondità di quelle tradizioni.

Ora, che esistano tradizioni in tal senso non c’è dubbio, ma c’è ovviamente da chiedersi in che senso preciso e fino a che punto siano vitali, e perciò anche entro quali limiti debbano essere prese in considerazione per il futuro diritto europeo unificato.

I tre saggi lunghi raccolti in questo libro portano un contributo alla discussione partendo da un’ottica in gran parte omogenea: di destrutturazione di convinzioni largamente radicate sulle tradizioni di cui si diceva – da altri vivacemente difese come il perno su cui far leva da subito per la soluzione dei problemi unificatori.

Dirò subito che l’intento polemico e “revisionista” dei nostri Autori rispetto alla main stream (ma lo è poi?) è in certi passi molto diretto. Il lettore potrà farsene un’idea leggendo le pagine relative all’assenza di una compiuta teoria romana dello Stato.

Tutto sommato, comunque, si tratta di un profilo fisiologico per saggi che non nascondono di essere “d’assalto” come questi. Io sottolineerei soprattutto il saggio proposito di far riflettere su quanto si va dicendo e facendo senza riserve, senza idola fori: mi sembra assai positivo perché necessario e utile per il dibattito in corso. Perciò ho gradito molto l’invito a introdurre a questa lettura.

Che, dirò di nuovo subito, è molto proficua. Non è tanto questione dell’intreccio, ovviamente positivo, dei punti di vista genuinamente comparatisti (quelli di Pier Giuseppe Monateri e Alessandro Somma) con quelli prettamente storico-giuridici del terzo autore: Tomasz Giaro. Il fatto è che i nostri autori hanno passato al setaccio gli orientamenti e le relative radici culturali rispettivamente dei comparatisti e dei romanisti che si sono incontrati nel culto della “tradizione romanistica” presentata come tradizione unificante in Europa al punto da essere talora vista come comprensiva addirittura della tradizione di common law. 

E perciò si è dovuto risalire alle domande per così dire primordiali: ma cos’è a ben vedere questo “diritto romano”? Quello delle origini (divenuto il diritto di un popolo “nordico” nelle pagine di un grottesco nazista ricordato da Somma), o quello formalistico e arretrato della Repubblica e dei giuristi classici (presentati con riferimento alle pratiche di patronato nelle pagine di Monateri) o quello del tardo impero, paradossalmente “moderno” pur se prodotto entro un mondo di tirannia “orientale”?

In più, ancora, c’è la questione del largo spazio che deve riconoscersi nel “diritto romano” a quanto in esso è piuttosto esito della recezione e dell’incontro sui tempi lunghi con tradizioni diversissime – a partire da quelle babilonesi ed egiziane, assai più progredite, fino a quelle ellenistiche. Culture giuridiche che nella nostra storiografia (a differenza di quanto avvenuto in altre, per la verità a volte anche per rispondere alle esigenze di migliore dominazione poste dalle esperienze coloniali) hanno sempre avuto uno spazio assai limitato (quando non nullo) per l’assorbente impegno romanistico.

Non meno dubbia, poi, risulta la configurazione stessa della “tradizione romanistica”. Si tratta di quella che sta dietro o sullo sfondo di un asserito diritto comune altomedievale, dei secoli VI-XI, pre-bolognese per intenderci, oggetto di molte discussioni recenti[3], oppure nel diritto basso-medievale animato dagli insegnamenti romanistici (e canonistici) delle università? O ancora di quella che va ricercata nelle dottrine umanistiche, ormai apertamente anti-medievalistiche, delle scuole francesi e olandesi, oppure in quelle più eclettiche dell’Usus modernus Pandectarum? Ed è difficile nel fare un bilancio dimenticare il “nuovo” diritto naturale (razionalistico e per lo più non cattolico) e i codici che in qualche modo ne derivarono.

Fino a che punto, a parte le continuità lessicali ovvie, si può parlare di “diritto romano” di fronte a cesure così ripetute e importanti verificatesi nel corso dei secoli è appunto da discutere, e non poco. Del resto, abbiamo sempre sostenuto che i giuristi medievali prima e moderni poi (inclusi i “grandi tribunali” di Gino Gorla e un po’ anche miei…) hanno largamente equivocato e/o creato “altro” diritto ripensando, generazione dopo generazione, a quelle fonti e confrontandole con i problemi a loro contemporanei. Non si può non pensare a un impatto sulle teorizzazioni varie dei professori – costruttori di “tradizioni”… – da parte sia del diritto consuetudinario largamente vigente in tante parti d’Europa nonostante la diffusione degli insegnamenti universitari, sia della legislazione di città e principi motivata dalla necessità di volutamente deviare od opporsi alle opiniones dei dottori.

Fino a che punto si debba riconoscere che il diritto bizantino abbia avuto un suo ruolo importante e, soprattutto, lo abbia avuto il diritto canonico è altra questione da tener ben presente anche per la diversa forza espansiva del diritto comune laico e di quello canonico.

Continuità apparenti ce ne sono e indubbie, come ci sono anche le novità che consentono di dire senz’altro che il “diritto comune” precodificato europeo -e meglio sarebbe parlare di “diritti comuni” distinguendo tempi e luoghi… – non fu affatto “diritto romano”: nel senso che non fu “solo” diritto romano. Per parte mia, sono stato sollecitato dalla ricchezza fenomenica della situazione basso-medievale a parlare consapevolmente di “diritti” per i secoli XI-XV[4], proprio per correggere la semplificante impostazione idealistica (e ideologica) di “un” preteso unico ordine giuridico medievale. Fortunatamente o meno, la realtà era più complicata e caotica di quanto pensavano (e spesso pensano) i professori – peraltro non sempre omogenei fra teologi e giuristi-, e le loro teorie non erano/non sono affatto lo specchio” del mondo. O entro quali limiti lo siano, appunto, sempre est disputandum. 

Del resto, mi sembra assai corretto dire, con Giaro, che sottilmente e in modo molto argomentato rivede receptae sententiae fortemente radicate, che una tradizione grosso modo unitaria nell’Europa continentale larga verso la quale ci muoviamo, si è realizzata se mai proprio e solo in questo modo: dapprima grazie agli “universali” codici francese e austriaco, poi con la travolgente diffusione delle dottrine pandettistiche.. Altroché Stati nazionali e diritti chiusi (e pretesi “assolutismi legislativi”…).

E comunque c’è da chiedersi quanto i codici ormai avessero ancora di “romanistico” anche se la dottrina del loro tempo li accreditò come tali; come pure ci si potrà chiedere fino a che punto tali fossero gli schemi razionalistici e astratti della pandettistica.

In ogni caso, è giusto e doveroso in una prospettiva de iure condendo chiedersi se quel passato (come altri beninteso) debba ancora condizionare il futuro dell’Europa, come ci si è chiesti in altri momenti di rinnovamento[5].

Mi sembra del tutto ragionevole pensare che la nuova Europa, l’Europa diversa da ogni altra concepita nel passato che si va faticosamente costruendo, debba più opportunamente “guardarsi intorno a tutto campo, con la stessa apertura e curiosità intellettuale universalistica con cui ad esempio si mossero a suo tempo, sulla scia degli umanisti, i suoi illuministi – non a caso nutriti di un anti-romanesimo latente o dichiarato. A meno che qualcuno non abbia dubbi a ritenere che anch’essi facciano parte della “tradizione occidentale”.

Già, perché sono parte integrante di quell’Occidente che è stato capace anche di rivoluzioni, ricorda giustamente Giaro (e io aggiungerei: non sempre felicemente, ma l’Italia ne ha sofferto un deficit grave). In effetti il riformismo serio, anticlericale e antifeudale del Sette-Ottocento, ha inciso fortemente sul diritto comune tradizionale e sul diritto pubblico: forse in modo incomprensibile in tempo di abbracci interclassisti e di confusioni multiculturali come quelli attuali. Ne furono stravolti quasi i suoi connotati “tradizionali”. Anche da qui, non a caso, parte l’accusa puntuale di assolutismo giuridico da parte dei neo-pandettisti…

Il problema di fondo, perciò, mi sembra efficacemente richiamato da Somma, che pure eccede probabilmente nel vedere “liberisti” ovunque (forse di qualcuno “vero” avremmo invece bisogno, ma non c‘è in rerum natura da noi, ed è comunque altro discorso…). Mi riferisco a quando avverte che chi non affronta i problemi finisce sui tempi lunghi, di rinvio in rinvio, per subire ovviamente le soluzioni altrui e nel modo peggiore: senza rendersene neppure conto. Che poi nello specifico nostro sono, ci dice più o meno tra le righe, quelle del “mercato”, e pertanto di una realtà che non sembra propriamente dominata dall’Europa, vecchia o nuova, stretta o larga che sia nei nostri desiderata. 

Per di più, queste pagine attestano che quella tradizione romanistica di cui tanto parlano gli “attualisti”, tutti impegnati per costruire un diritto comune europeo caratterizzato in tal senso, non ha un passato propriamente cristallino, essendo stata piegata alle più ardite e contraddittorie esperienze politico-culturali. In molte pagine di questo libro si documenta ad esempio come essa sia stata oggetto di operazioni di dubbio gusto (e di effetti anche meno accettabili). Non per niente i vari Koschaker e Kaser pur di salvare il diritto romano” dei loro studi prediletti si lasciarono andare durante il nazismo[6] a scrivere cose che risultarono non proprio commendevoli dopo la fine del conflitto; tanto che ebbero modo di ricredersi anche radicalmente, mentre l’unificante scienza giuridica di matrice pandettistica consentiva il successo del BGB sotto tutti i cieli continentali. Persino nella Germania “democratica”, come si sa, esso fu applicato fin quasi alla fine, mentre nei paesi socialisti i giuristi comunisti avevano il loro bel daffare a celare la realtà della loro dipendenza culturale dal diritto dell’ “Occidente”.

Perciò devono far riflettere anche le operazioni di conciliazione del diritto romano e della sua tradizione con il/i marxismo/i, con i loro paradossali esiti di consentire il ritrovamento in germe di qualunque dottrina moderna nel diritto romano, o gli antecedenti (come si documenta in queste pagine) della protezione dei diritti umani e della donna o dell’ambiente o della “socialità”.

E qui veniamo al profilo che più mi ha trovato consenziente in queste pagine. Il forte richiamo alla storia e alla filologia (Monateri) contro le ricostruzioni sincretistiche e sincroniche presentate come “pure”, invece, e pronte ad estrapolare senza pudore dal contesto pur di salvare continuità assai discutibili.

Il/i diritto romano/i ha/hanno avuto eccellenti tradizioni di ricerca storica, che hanno saputo inserirlo nel contesto storico come un diritto fortemente stratificato, profondamente cambiato nel corso dei secoli e tanto più anche nel corso della sua successiva “tradizione”. Non si vede perché mettere in ombra quel serio storicismo (per il quale ricordare i nomi di Raggi, Orestano e De Marini è doveroso) per dedicarsi a un’attualizzazione che da un lato confonde la storia (cosa mai educativa) e dall’altro non facilita (cosa mai produttiva) quei dibattiti sul mondo a orizzonti aperti che la confusa e debole situazione europea attuale richiede.

Direi di più ancora. Insistere sull’attualizzazione delle nostre tradizioni “indigene oggi può finire anche per essere un elemento di offuscamento, di ostacolo alla trasparenza delle decisioni politiche. Quante volte si è deciso sotto le mentite spoglie della necessità “tecnica” eventualmente rafforzata o imposta dalla legittimante “tradizione”?

Sotto sotto, in tutto questo c’è sì un elemento di continuità reale del civil law, della storia giuridica continentale, inconciliabile però con il common law e quindi nell’ambito della pretesa unitaria tradizione occidentale. Ossia quello del primato del Juristenstand, del ceto dei giuristi, i soli sacerdoti del diritto: quelli che si ritengono legittimati a vararlo, anche se con codici apparentemente “legislativi” (espressione di “assolutismo” perbacco!) e debitamente ossequiati come tali, e poi ad interpretarlo e a svilupparlo in modo di fatto politicamente irresponsabile grazie alla copertura della tradizione”.

Mi sembra francamente più lineare invece il percorso che offre al potere politico varie soluzioni possibili sul piano tecnico con dichiarata, chiara previsione degli effetti specifici che le differenti scelte comporteranno nell’esecuzione pratica: a difesa di quali interessi, di quale contraente, per quale “mercato” ecc.

Il diritto non è mai neutrale, e la tradizione non basta a santificarne nessuno.

Perciò rispettiamo la storia, non straziamola piegandola ad operazioni attuali, pur rimanendo pronti a selezionare nel suo enorme arsenale di grandi e piccole invenzioni (non solo romanistiche) quello che ancora possa essere utile oggi: in un mondo assai poco “romano”. E per tanti aspetti, diciamolo pure, per fortuna!

Note

 Il presente testo è originariamente uscito come introduzione al libro di Pier Giuseppe Monateri, Tomasz Giaro, Alessandro Somma, Le radici comuni del diritto europeo Un cambiamento di prospettiva, Carocci, Roma 2005.

  1. Ricorderò solo che abbiamo un piano di cooperazione di decine di milioni di euro col Vietnam, il paese che dopo la liberazione ha conosciuto – come ci ha ricordato Paolo Mieli (“Corriere della Sera”, 17 settembre 2002) – «un dispotismo simile se non peggiore di quello precedente», «numerosi uomini di chiesa […] entrano e escono da lager e prigioni […] i Montagnard, cioè le trentotto tribù che abitano gli altipiani centrali del Vietnam […] sono oggetto di una pressione particolarmente violenta».
  2. Tra le collane di particolare interesse posso segnalare ad esempio quella di “Storia del federalismo e dell’integrazione europea” diretta da Giulio Guderzo per Il Mulino ed espressione del Centro di ricerca sull’integrazione europea dell’Università di Siena, nonché gli “Estudos sobre a Europa”, pubblicati presso la Quartetto di Coimbra dal Centro de Estudos Interdisciplinares do Seculo XX, diretto da Maria Manuela Tavares Ribeiro presso l’Università di Coimbra.
  3. Sulle quali cfr. le pagine di R. M. Kiesow, Wagnisse, in «Rechtshistorisches Journal», 2000, pp. 479 ss.
  4. Mi riferisco al saggio pubblicato in queste edizioni nel 2000: I diritti del Medioevo italiano (secoli XI-XV).
  5. Trovo interessante in questo contesto richiamare il recente volume antologico (da cinque giuristi tedeschi del Sei-Settecento) dedicato alla Prudentia legislatoria, a cura di H. Mohnhaupt, nella “Bibliothek des deutschen Staatsdenken” pubblicata da Beck di Monaco (2003).
  6. Altre pagine istruttive sul mondo degli storici tedeschi durante il nazismo si leggono (un po’ inaspettatamente) nell’agile R. van Caenegem, I sistemi giuridici europei, Il Mulino, Bologna 2003.

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