Mario Ascheri (1944) è nel Consiglio scientifico dell’Istituto storico italiano per il Medioevo dopo aver insegnato nelle facoltà di Giurisprudenza e di Lettere delle università di Sassari, Siena e Roma 3. Ha fondato la rivista «Nova Itinera» con S. Amore e A. Giordano; come giornalista pubblicista ha diretto il settimanale “Zoom” a Siena (2009-11). È nel direttivo di molte riviste storiche italiane e straniere. È uno specialista di storia della giustizia e della giurisprudenza medievale e moderna, oltreché dei Comuni italiani, ed è riconosciuto a livello internazionale per i suoi lavori specialistici sui consilia e i manoscritti giuridici basso-medievali. È stato coordinatore della rivista dell’Accademia dei Rozzi di Siena. Nel 2001 gli è stata conferita la laurea honoris causa dall’Università dell’Auvergne (Clermont-Ferrand) e nel 2003 il massimo riconoscimento civico a Siena (“Mangia d’oro”) e a Ventimiglia (“San Segundin d’Argentu”). Negli anni 2000 è stato membro del Beirat del Max-Planck-Institut per la storia giuridica europa (Frankfurt/Main). Da allora è anche Senior Fellow della Robbins Collection, School of Law (Boalt Hall), University of California, Berkeley.

Recensione a
U. Vincenti, Diritto senza identità. La crisi delle categorie giuridiche tradizionali
Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 188, € 19.00.

Interessanti i libri sempre più frequenti di riflessione sulla crisi del diritto, attuale in Italia ma anche altrove, e interessanti anche come documenti essi stessi sulla crisi: ci dicono come la crisi viene o è stata vissuta. Il libro che ho qui riesumato è stato scritto solo una dozzina d’anni fa e serve ancora egregiamente allo scopo.

Da un lato c’è un colloquio con il nostro mondo del diritto, dall’altro fondamentalmente con Dworkin e le sue proposte, che hanno sviluppato quelle di Rawls – della giustizia senza diritto, applicando principi di filosofia morale –, che proponeva di far discendere da un nucleo fondamentalmente condiviso, come la tutela della dignità umana, una serie di diritti che garantiscano a tutti l’esplicazione della personalità, dando loro una chance per la dignità – per così dire. Possibilità che andrà bene o male, ma che almeno è stata data, rispondendo a quell’appello che si può condividere universalmente all’equal treatment. Un modo per ritrovarsi al di là delle frontiere politico-religiose, per creare un modello condiviso.

Sennonché, come Vincenti sottolinea bene, sui contenuti dei diritti c’è la massima proliferazione che provoca massima confusione. Ed è confusione governabile in un mondo giudiziario come quello anglo-americano dove il giudice trova la soluzione e dice che c’era già dentro l’ordinamento, ma da noi si sa che bisognerebbe che prima ci fosse un riscontro legale – di cui qualcuno come Luigi Ferrajoli pensa ormai – rassegnato, che si possa fare anche a meno. Il guaio è che questi principi ovvi – perché propri della nostra tradizionale divisione dei poteri – ormai non lo sono così tanto e anche i nostri giudici europei, sollecitati da documenti anche ben congegnati come la Carta europea dei diritti, tendono a comportarsi come quelli anglo-americani quando possono, anche perché si trovano spesso ad operare in alcune corti assieme. In questo contesto Vincenti ricorda Sabino Cassese, non a caso.

L’altro problema è che ormai c’è un discorso retorico relativamente uniforme a livello internazionale, che usa gli stessi strumenti linguistici per ammaliare il pubblico quale che esso sia, ma i contenuti poi delle parole invocate e dei valori evocati rimangono molto distanti. Giustamente ricordiamo come nel 2008 sia stata finalmente approvata la Carta dei diritti fondamentali dei Paesi arabi del 1994, quella che aveva loro consentito di non aderire alla Carta Onu del ’48. Ebbene, il linguaggio è quello a noi comune, di libertà, giustizia e pace, ma non è difficile avvertire che è libertà singolare quella che tiene le donne nella condizione che sappiamo, così come la pace che vi viene subito caricata di antisionismo.

Nel discorso di Vincenti però mi sembra che ci sia una forte tendenza, globale direi, perché con adesioni sparse ovunque – ma facilitata e fortificata dalla capacità espansiva della letteratura liberal nord-americana – a difendere quest’idea amplissima di diritti soggettivi che alimentano un mare di pretese che pongono problemi serissimi:

– di certezza del diritto, perché trovano accoglimento sparso qua e là creando sconcerto;

– di disordine pubblico, per così dire, perché le pretese si allargano proprio in un momento di crisi del Welfare, che non sembra neppur tanto congiunturale;

– di relativa assenza dal dibattito di quelli che dovrebbero esserne invece i protagonisti, cioè i giuristi, i veri tecnici dei diritti, quelli che dovrebbero cercare di equilibrare le pretese concorrenti: come, se tutti sono liberi, uguali e degni?

Cioè Vincenti lamenta che al tutto siano attentissimi filosofi, teorici di varia formazione, sociologi, politologi, storici delle dottrine politiche, ecc., ma assai meno quei giuristi che dovrebbero far tornare entro un ordinamento dato quelle pretese. Perciò giustamente ci riassume i vari diritti, di prima generazione, di seconda, ma poi anche di terza e di quarta, che delineano un diritto vago, oltreché per consumatori e utenti di embrioni, per animali, vegetali, ambiente, generazioni future, ecc., che creano categorie protette che pongono problemi crescenti all’uguaglianza e fanno perdere di vista tutta la società.

Un’utenza frantumata e variegata viene legittimata a presentare le richieste più varie che non solo sono contraddittorie, ma se accolte creano categorie privilegiate che violano gli equilibri di eguaglianza prima raggiunti. Belle le pagine sul difficile rapporto tra libertà e uguaglianza in questa proliferazione di diritti, seguito più attentamente dal Sei-Settecento, da quando il giusnaturalismo ne costruì un sistema facendo perno con Locke, paradossalmente, sullo schema di un diritto tipicamente romanistico come il dominium. Il percorso da Hobbes a Pufendorf, da Locke a Wolff e Rousseau è seguito molto bene nei suoi aspetti essenziali fino alle acute critiche di Bentham e ai rischi già avvertiti da Tocqueville: giustamente Vincenti avverte come questi dibattiti si siano infittiti nel corso dell’età moderna in una con la costruzione dello Stato moderno. Di fronte allo Stato che più pretende, in termini fiscali e normativi, intervenendo in ogni settore della vita privata – pensiamo a cosa è stata la Police o Polizei, mentre da noi si rafforzava la stagnazione contro-riformistica – diventa più urgente ridefinire la figura del civis.

Giusto quindi anche aver dato spazio al dibattito sulla libertà religiosa e sulla tolleranza, richiamando non senza malizia padri della Chiesa come Tertulliano e Lattanzio, le cui pronunce che potremmo dire ‘aperte’ si spiegano dacché scrivevano ancor prima dell’editto di Milano. Aggiungerei anche che il problema cominciò già nel primissimo Duecento con la definizione del processo inquisitorio ecclesiastico e che è da allora che si possono trovare gli eroi pronti a sfidare la repressione, anche se per il Cinquecento la Padova di Vincenti ha dato esempi luminosi. Ma ricordiamoci dei per lo più dimenticati Bernardino Ochino e i grandi Socini, che destano ammirazione anche per le loro posizioni teoriche,  collegabili al discorso della libertà religiosa.

Ma tornerei al punto principale per me, come storico. Non entro nelle sottili obiezioni che Vincenti propone a Dworkin ed altri, come la Nussbaum, e a un certo punto anche a Zagrebelsky, per cui la giustizia di Ulpiano sarebbe una massima del potere, e credo a ragione. Né possiamo qui discutere se le chartae di diritti fossero solo concessioni di privilegi e pertanto da non utilizzare nella storia dei diritti. In realtà furono usate dai nostri Comuni come concessioni di diritti non diversamente da quanto avvenne con una costituzione octroyée e loro si misero in armi nel 1100 proprio per difendere i diritti pubblici ritenuti acquisiti, non diversamente da quanto fecero i baroni inglesi nel Duecento, gli olandesi nel Cinquecento o le colonie americane nel Settecento.

Non discuterei neppure della configurazione dei diritti inclusi nel Bill of Rights, perché che si trattasse di diritti individuali e di che portata poi per un uomo libero, come il porto d’armi, mi sembra evidente data anche l’eredità storica che ha lasciato un punto del genere, pesante ancora oggi negli Usa. E che deve far richiamare un altro punto che ci riguarda da vicino, a proposito di discorsi retorici, di proclami generici e mistificanti. Chiaro che i principi rivoluzionari francesi sono stati importanti, ma per capire come si sia rafforzata di fronte ad essi – come a quello sull’imposizione fiscale – una società civile vigile, diffidente e armata di pretese, non si deve dimenticare che nei nostri Stati d’antico regime il servizio militare obbligatorio era praticamente sconosciuto. Il massimo dovere del cittadino della tradizione classica, di nuovo rinverdito dalla circoscrizione obbligatoria, non esisteva concretamente. Come non esisteva la mancata difesa in cui si trovò il cittadino di fronte allo Stato divenuto così onnipotente. In antico regime basti pensare alla rete assistenziale delle confraternite, in concorrenza per assicurare sul mercato del bisogno la loro presenza. Siamo proprio sicuri che funzionassero ovunque e sempre peggio del nostro attuale welfare, fortissimo solo nelle carte più che nella pratica in molte aree e per certe categorie?

Dove trovo molto giuste le precisazioni di Vincenti è sulla contestazione che la Chiesa possa vantare una vera novità nel discorso sui diritti umani. Dal Concilio Vaticano II alle dichiarazioni dei papi recenti c’è stata continuità, libertà ecc. ecc., se nell’alveo della dottrina cristiana: bisogna mantenere il cristianesimo a base civiltà occidentale. Com’è stato giusto ricordare Jacques Maritain sul problema dell’inizio dell’essere animato, sul quale tanti discorsi fumosi si fanno anche dai laici, cui giustamente viene ricordato il problema del diritto alla vita del concepito e le contraddizioni in cui ci si dibatte nel ritenere il problema chiuso dal diritto della mamma: e il padre, ad esempio, oltre in primis al concepito? Buffo, o tragico, chiedere rispetto del diritto per i vegetali o l’ambiente e poi non per il concepito.

Nel complesso, ci sono molti luoghi comuni rivisti (se si va avanti così, perché non volere anche la poligamia?), la ricordata giurisprudenza recente molto utile, ricordati principi di diritto romano ancora molto utili per la loro modernità (paterfamilias senza figli e famiglia agnatizia, dominium, concubinato), oppure il modello di dignitas antico, virtuoso dell’eroe, o di colui che oggi scopre la penicillina. Degni tutti sì, ma qualcuno lo è più di altri. E poi c’è sempre la discussione se sia proprio vero che tutti debbano essere riconosciuti degni. Il presidente Napolitano qualcuno non lo ha riconosciuto, e anch’io avrei difficoltà a riconoscere tale la mamma drogata che ha ammazzato la figlioletta o il mafioso che usava l’acido per far scomparire dei suoi degni co-umani.

Giusto quindi il richiamo alla storia, a quello che siamo stati, al tecnicismo del diritto che viene distrutto, come viene distrutta la legge, la volontà politica generale da questo avventurismo generico dei diritti. Nella nostra tradizione c’è il processo su una questione ben delimitata come nella formula del processo romano, che ha abituato alla contestazione razionale, che ha eliminato elementi religiosi dal processo. La legge dà la giustizia e il giudice deve essere suo esecutore. La volontà politica ha la priorità. Mi è venuto in mente un particolare importante del Buongoverno: non c’è il podestà come nei manoscritti degli statuti di regola, o un generico giudice; c’è Sapienza-Concordia e Politici! Siamo nel 1338. Il legislatore con l’equità corregge l’errore dei giudici: c’era già eccome la giustizia di grazia e quella normale ben prima di Hobbes!

Giuristi oggi solo spettatori, non attori, protagonisti; assistono alla distruzione delle categorie tradizionali, contratto, obbligazione (si è obbligati senza volerli i contratti), debitore che deve solo tollerare l’esecuzione! Oggi il diritto vago è rimesso alla discrezionalità del giudice, mentre il giurista perso autorevolezza e la ricerca facendo il politico, ma perde i suoi connotati e l’autorevolezza; i ‘dottori’ non sono più citati nelle sentenze dal 1729! Non mettono ordine, lo Stato democratico pressato è in pericolo di identità oggi ci si costruisce, non c’è, la dignità è soggettiva, dal concepimento fino a dopo la morte contro attualizzazione del diritto romano di Crifò e di Pugliese, giustamente critico del diritto penale romano.

Si può salvare Marsilio, al 1324 col consenso, e con Pico ricorderei Petrarca, Alberti, Erasmo, Antonio Brucioli 1532: in italiano la Bibbia e ne fu processato a Venezia nel 1548; un Achille Benvoglienti a Siena aveva nel 1544 Calvino in italiano e lo diffondeva. La retorica che illude le masse come diceva Bentham e le porta all’eccitazione, come quella delle Dichiarazioni. È linguaggio politico non giuridico, perché ogni diritto ha un suo costo, e molti diritti rimangono nominali, tra retorica e inefficienza. La prima da dopo la seconda guerra mondiale certamente aumentata. Il problema che ci si può porre è: quanto ha favorito questi sviluppi il rischio Urss?

Il favor recente per i diritti ha più solide premesse: nel passato.

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