Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: J.W. Hedemann, La fuga nelle clausole generali. Una minaccia per il diritto e per lo Stato, Pacini Giuridica, Pisa 2022, pp. 172, € 19,00.

L’autore che prendiamo in esame, Justus Wilhelm Hedemann (1878-1963), si colloca sul versante opposto rispetto a quei giuristi che, sensibili alla storicità e valorialità del diritto, contestano il monismo legalistico di matrice giuspositivista.  Egli scrive la sua  Fuga nelle clausole generali in un contesto (Germania) e in un anno (1933) cruciali; il sottotitolo apposto all’opera (Una minaccia per il diritto e per lo Stato) evoca assonanze con la drammatica transizione politica e di destino che il popolo tedesco stava vivendo. Lapalissiana l’influenza di quell’irripetibile climax su Hedemann. Meno scontate sono invece le letture e gli esiti che da questo suo scritto “positivista” si possono ricavare.

Quale messaggio lancia il giurista tedesco? Un messaggio di dura polemica verso la facile scappatoia nelle clausole generali. Hedemann, conservatore per cultura e mentalità, si era formato nella Germania guglielmina, in un clima di convinta adesione al primato del codice civile (il Bürgeliches Gesetzbuch, BGB), il monumento dogmaticamente più astratto e raffinato del positivismo. Lo Stato legislatore autorevole e una sistema di leggi formalmente impeccabili, certe e onniveggenti: questo l’idillico mondo del giurista soddisfatto e sicuro di sé.  Sino al 1910; dopo quell’anno, e dopo la sconfitta del 1918 il mondo giuridico conchiuso nei codici vide aprirsi crepe (peraltro già note negli anni d’anteguerra ai giuristi più attenti) via via sempre più larghe. Hedemann studia le clausole generali in prospettiva storica e si rifà alla contrapposizione/evoluzione romanistica tra ius strictum e ius bonum et aequum: «dal massimo rigore al suo progressivo allentamento» (p. 57). Il BGB già contiene alcune clausole generali (§ 242: il debitore esegue la prestazione in conformità alla buona fede; § 826:  chi arreca danno ad altri agendo contro i buoni costumi deve il risarcimento; e altre). Ma dai lavori preparatori del BGB emergeva tutta la diffidenza dei giuristi e del legislatore verso un uso indiscriminato delle clausole; e in realtà nessuno aveva all’epoca previsto la straordinaria “marcia trionfale” (Siegeszug) che i §§ 242 e 826 avrebbero condotto in tutti gli ambiti del diritto, stravolgendolo e snaturandolo.

Hedemann, con stile incisivo e brusco («pieno di metafore militaresche», «a metà tra il bollettino dello Stato Maggiore e il referto dell’istopatologo», come annota il curatore del volume Luca Nivarra, cui si deve l’ampio e intelligente saggio introduttivo) non esita a paragonare le clausole generali a cellule tumorali, disgregatrici dall’interno del bell’organismo giuspositivista e ne segue l’opera omicida. Però ha la capacità di riconoscere che le clausole recepiscono idee esigenze interessi prementi dalla società sulla torre d’avorio del diritto positivo. Ma il prezzo da pagare per questi riflessi di mutamento gli risulta elevato, inaccettabile.

La parte più ampia del saggio (pp. 76-133) studia la disgregazione operata dall’irruzione delle clausole nel diritto civile, del lavoro, commerciale, societario, processuale, della concorrenza, dell’esecuzione forzata, amministrativo, penale, costituzionale.

Accenniamo a un esempio concreto per chiarire meglio cosa siano e come operino le clausole generali e ricorriamo a un esempio ricavato dal diritto pubblico, un diritto cioè in cui più che altrove dovrebbe regnare «la rigidità della materia e la durezza della fattispecie» (p. 90): la clausola nell’esecuzione forzata. Nella situazione in cui (anni 1919-23) milioni di cittadini tedeschi erano indebitati, le clausole generali agirono nel senso di mitigazione. Al debitore fu concesso di chiedere la sospensione dell’esecuzione forzata se il suo debito fosse riconducibile alla “generale situazione di difficoltà economica” causata dal Trattato di Versailles. Ma al contempo anche al creditore fu riconosciuto il diritto di chiedere la conferma dell’esecuzione se la sospensione della stessa gli causasse “danni sproporzionati”. Insomma, l’esecuzione forzata era diventata il campo di battaglia di due clausole generali (entrambe ispirate alla “mitezza”) «apertamente contrapposte» (p. 100). L’equilibrio tra le opposte clausole era rimesso al giudice, il quale però decideva soggettivamente.  Saltava così la certezza del credito; e saltava anche la salvaguardia dei diritti del debitore.

A fronte dei benefici che l’ordinamento può trarre dalle clausole (pp. 147-155: flessibilità, aderenza alla mutevolezza sociale etc) Hedemann indica con perentorietà tutta teutonica i mali che il loro uso inconsulto ha arrecato al sistema. Vediamoli in breve.

Innanzitutto il rammollimento del pensiero giuridico. Ogni questione giuridica di una qualche complessità tende a essere risolta con la facile scappatoia extrapositiva della clausola generale: nella giurisprudenza e negli atti legislativi si fa sempre più frequente il richiamo alla clausola generale come escamotage di chiusura. «Ci si sottrae al duro lavoro della costruzione puntuale» (p. 156) per fattispecie; «si cede troppo facilmente al richiamo seducente ma così semplificante della clausola generale» (p. 157), e non si pensa più.

Segue a tambur battente il corollario del rammollimento: l’incertezza. Nessuno sa in cosa davvero consistano le generalissime, vaghe clausole della buona fede, del buon costume, della mitigazione, della esigibilità e, sul terreno pubblicistico, dello stato di necessità e della sicurezza. Con tali clausole il soggettivismo (del giudice innanzitutto ma anche del legislatore) travolge i parametri di un giudizio certo, prevedibile e oggettivo. Il soggetto investito del potere di risolvere le controversie non si attiene più alla norma ma attinge liberamente, «creativamente» alle clausole generali riempiendole di contenuti a grandezza e qualità variabili. Chi potrà, in un mondo giuridico dove di permanente resta solo l’ondivaghezza e l’instabilità, confidare in norme certe e prevedibili? Un ritorno a uno Stato forte e autorevole – e magari autoritario, come fu il Secondo Reich – potrebbe porre un argine all’invasività delle clausole generali. Un recupero robusto della legalità delle norme positive; un disciplinamento dei giudici; una tecnica legislativa procedente per raffinate, puntuali e rigorose fattispecie sembrerebbe la risposta per così dire naturale, positivista (“la legge è legge”) al disordine e all’incertezza riconnesse allo spadroneggiare delle clausole generali, le quali andrebbero ricondotte all’originaria funzione di meri accessori per la risoluzione di pochi casi limite e non a occasione di permanenti sperimentazioni giuridiche. Ed effettivamente Hedemann, di tradizione nazional-conservatrice, in molti passaggi della sua opera fa trapelare nostalgia per un positivismo incentrato sulla chiarezza della norma, la chiusura monistica dell’ordinamento giuridico e l’indiscussa superiorità dello Stato legislatore sulla riottosità e i capricci di giudici e interpreti e sul caotico magma dei fatti sociali e delle prassi. Se si fermasse qui, il discorso di Hedemann non si distinguerebbe granché da quello di altri giuristi laudatores temporis acti.

Ma Hedemann canalizza l’attenzione del lettore su un’ulteriore minaccia, la più grave, di cui sarebbero portatrici le clausole generali: l’arbitrio. E giunge a conclusioni imprevedibili. Dato che nelle clausole generali si mescolano molteplici contenuti (etici, economici, politici) il giudice, nel caso concreto sottoposto al suo esame, arbitrariamente ne farà valere uno a discapito degli altri. Ma l’arbitrio peggiore si colloca sopra la testa del giudice: l’arbitrio del potere politico. Il nevralgico articolo 48 della Costituzione di Weimar è anch’esso infatti formulato come clausola generale[1]. «L’essenza della clausola generale torna nelle mani del detentore in ultima istanza del potere statuale» (p. 165), il quale che uso potrà farne? Quando il potere maneggia clausole generali quali “tutela del popolo”, “bene comune” et similia, tali clausole si trasformano in strumento per l’affermazione della ideologia o degli interessi di una parte della società (i detentori del potere) a discapito del resto. I giudici si degradano a meri esecutori di clausole generali ideologicamente o politicamente orientate.

Hedemann scriveva nel 1933. L’arbitrio politico, svincolato da ogni limite proprio grazie all’elastica vaghezza delle clausole generali, trovava l’archetipo, secondo lui, nell’Impero bizantino. Ma egli aveva ben in mente – e lo scrive a chiare lettere – la Russia sovietica. E il nazionalsocialismo? È noto che Hedemann dopo il 1933 aderì alla Nsdap, più per opportunismo che per convinzioni ideologiche. Ma nel 1933 egli riteneva inevitabile la prevalenza delle clausole generali negli ordinamenti giuridici europei; ma riteneva altresì che fosse ormai improcrastinabile porre ordine nel caos giuridico in cui era precipitata la Germania di Weimar. Come? Auspicava che il nuovo potere politico del ’33 facesse un “buon uso” proprio delle clausole generali, che da veicoli di disordine si sarebbero trasformate in strumenti di ripristino dell’ordine (la vecchia certezza giuridica positivista) o di efficace fondazione di una Weltanschauung sgorgante – così molti tedeschi pensavano – dalle fibre più intime del Volk. Il nuovo regime, ricorrendo all’art. 48 della costituzione (la “regina” delle clausole generali) avrebbe garantito l’ordine nel diritto pubblico, «nelle questioni davvero cruciali» (p. 168) ma si sarebbe astenuto dall’impiegare le clausole nella sfera dei rapporti giuridici tra privati.

L’auspicio di Hedemann si rivelò infondato. Ma il suo messaggio contiene ancora un significato in relazione  alla sfera privata, con la sua insistenza a circoscrivere le clausole generali – ammettendone così l’irreversibilità e superando la tradizione del positivismo –  non a ricezioni ideologiche di valori estranei ma a mere tecniche di attuazione di istanze e esigenze provenienti dal basso. Tecniche di cui il giudice sarà chiamato a fare «un uso il più possibile equilibrato» (p. 172),  dentro e in accordo col diritto positivo.

NOTE

[1] Recita questo articolo al secondo comma: «Il Presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quand’essi siano turbati e minacciati in modo rilevante e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tal scopo può sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153».

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