Francesca Mariani frequenta il quinto anno del Liceo classico "Marsilio Ficino" di Figline Valdarno (FI).

Vi sono momenti, nella vita, in cui tacere diventa

una colpa e parlare diventa obbligo. Un dovere civile,

una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre.

Oriana Fallaci

Recensione a: A. Chirico, Prigioniere. Saman e le altre, Piemme, Milano 2022, pp. 160, 16,90.

Annalisa Chirico, nata il 27 giugno 1986, giornalista, saggista ed opinionista televisiva, è inoltre autrice del libro Prigioniere. Saman e le altre.  Il saggio è suddiviso in due parti: la prima è dedicata alla descrizione circa sfortunate esperienze di numerose ed innocenti ragazze islamiche, partendo dalla protagonista, ossia Saman; la seconda, invece, tratta delle varie motivazioni ed argomentazioni politiche e religiose sul tema della violenza inflitta dall’Islam. Non a caso in copertina troviamo un ulteriore sottotitolo al libro: Perché l’Islam ha un problema con le donne.

Come afferma l’autrice stessa nel corso delle pagine, il fine di questo libro è quello di dar voce e ricordare tutte quelle ragazze innocenti che con valore e audacia si sono ribellate ad un sistema ormai fin troppo arcaico e al contempo ramificato in gran parte d’Oriente, pur sapendo con certezza a quale destino sarebbero andate incontro. Il saggio, però, denuncia non solo le tradizioni ed i costumi più oscuri delle società islamiche, ma persino l’Occidente stesso. Nonostante questa nostra dimensione ove viviamo abbia creato, come afferma l’Autrice, «una società aperta, che, lungi dall’essere la società perfetta, resta la meno imperfetta delle altre», non sono rari i casi in cui i Paesi d’Europa abbiano effettivamente voltato le spalle alle innumerevoli vittime islamiche, lasciandole prive di un aiuto effettivo. Basti pensare all’evento, riportato sempre dalla Chirico, che rientra tra i più recenti parlando a proposito del rapporto tra Occidente e Oriente, ossia quando il Presidente americano Joe Biden ha preso la decisione di ritirare il proprio esercito difensivo dall’Afghanistan, lasciando letteralmente indifesi tutti gli abitanti del posto, in completa balìa della violenza imposta dai talebani, liberi ormai di riprendersi il desiderato potere. È apparso, oltretutto, un atto alquanto incoerente, dato l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, effettuato dall’organizzazione terroristica internazionale Al Qaida.

Come sostegno a tale critica, Annalisa Chirico ricorda la straordinaria giornalista fiorentina, amata e odiata, Oriana Fallaci, la quale diciotto giorni dopo l’attentato scrisse uno dei suoi articoli più celebri pubblicato sul “Corriere della Sera” (29 settembre 2001), che poi riprenderà in forma più estesa nel libro La rabbia e l’orgoglio. Nel pezzo di giornale emerge il giudizio estremamente diretto della giornalista, che attacca il Paese invasore con queste testuali parole:

Non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà.

Come si può ben desumere dal testo, dunque, la cosiddetta questione islamica, che da anni e anni si abbatte in maniera irrispettosa e brutale sul nostro mondo, non si limita ad essere purtroppo un’argomentazione religiosa, bensì colpisce a tutto tondo lo status sociale, morale, economico e politico di un determinato popolo. La persona in questione viene completamente sottomessa alla Jihad, che non rappresenta solo la “guerra santa”, bensì il fondamento su cui si basano la maggior parte dei musulmani: è un processo che mira al miglioramento di sé, che letteralmente prende il significato di “sforzo” o “sulla via di Dio”.

Annalisa Chirico ribadisce che è proprio quest’ultimo termine a creare la maggior parte delle problematiche e ad incentivare sempre di più l’uso della violenza, con l’incremento di spargimento di sangue, da parte del potere islamico. Infatti, seguendo parola per parola la Jihad, i musulmani integralisti radicali prendono alla lettera, senza saltare neanche un rigo, gli scritti all’interno del Corano: frasi che mettono i brividi, che tolgono, soprattutto alle donne, qualsiasi valore, virtù, libertà. Basti pensare che, secondo l’Islam, il peso di una donna su qualsiasi questione si tratti, di tipo politico, sociale o economico, a priori quest’ultima sarà sempre “dimezzata” rispetto all’uomo. Conseguentemente, come ricorda il governo afghano dei mullah appena presero il potere nella tarda estate del 2021, l’inferno islamico si abbatte anche sulla musica, sullo sport, rendendoli vietati, come il caso dei rasoi da barba, della televisione, ai quali si aggiunge l’obbligo di indossare il burqa, seguito da altrettante limitazioni. Sono tutte argomentazioni, però, che ormai la maggior parte di noi sembra dare per scontate, ritenute intrinseche ad una società che ormai si è spinta oltre la fase di recuperabilità; che non si può salvare, insomma. Proprio su quest’ultimo punto, invece, l’Autrice pone l’attenzione: non è mai troppo tardi per rimediare ad una futura “apocalisse islamica”.

Infatti, se pur gran parte degli altri Paesi nel mondo tendono a celare le violenze di questo tipo di fondamentalismo religioso, fingendo che non esistano, al contempo non sembra che diano minimamente peso all’incremento demografico dei loro abitanti. Secondo i dati statistici riportati dal Pew Research Center, a causa del ritmo nettamente diverso ed in costante aumento nel riprodursi, quasi per certo nel 2050 «il numero dei musulmani eguaglierà quello dei cristiani», arrivando a costituirne il 10% solo in Europa. La realtà che dunque giudicavamo essere tanto distante quanto aliena, da ora in avanti abbiamo il dovere di ritenerla più vicina che mai.

Nelle pagine finali del libro la Chirico propone le metodologie principali per far retrocedere il lato più oscuro della Jihad, quello che nega ai musulmani, specie le donne, di vivere liberamente. Infatti, i religiosi che predicano l’Islam senza essere irrispettosi, che non sfruttano Allah per coprire le loro violenze, esistono e, non casualmente, la gran parte di questi ultimi sono perlopiù di sesso femminile. È dunque possibile evitare un’espansione dell’ignoranza, della violenza e della misoginia islamica, che porterebbe ad un dietrofront di tutti i traguardi filosofici, scientifici e morali che secoli dopo secoli gli esseri umani hanno tentato e raggiunto. Con questo libro, a mio avviso, Annalisa Chirico contribuisce parecchio ad alimentare quella sensibilizzazione di cui si avverte un gran bisogno. L’uomo occidentale dovrebbe informarsi regolarmente a proposito della condizione dei propri simili che vivono nella parte orientale del pianeta, in cui le donne soprattutto sono purtroppo vittima ogni giorno di innumerevoli soprusi anche in casa propria. Solo assumendo una consapevolezza del genere, i valori professati ad Occidente si tramuteranno da ideali astratti in azioni concrete e determinate. La libertà va praticata, non declamata.

Personalmente trovo che tale drammatica circostanza si riallacci perfettamente ad un’opera del tragediografo Euripide: Le Troiane. Rappresentata per la prima volta nel 415 a.C., questa tragedia non è una semplice raffigurazione dell’invasione della città di Troia da parte degli Achei, è bensì l’esempio lampante di come la protagonista scelta dall’autore, ossia Ecuba, si dimostri alla pari di tutte quelle donne musulmane che hanno trovato il coraggio di lottare contro un evento più ingente di loro. Ecco il parallelo che possiamo istituire. Pensiamo all’attuale protesta in Iran, che origina proprio dalle donne che contestano la loro situazione di sottomissione coatta e violenta. La moglie di Priamo, infatti, nonostante sia circondata non solo da nemici, ma anche dalle altre figure femminili che si lasciano sprofondare nell’inferno in cui sono sfortunatamente capitate, colme di timore ed insicurezze, sprigiona una forza di volontà che prevarica la ferocia achea, poiché non si lascia sottomettere. Ecuba, al contrario, mantiene la propria razionalità, il suo λόγος, e con lo stesso vigore di un comandante cerca di guidare anche le altre compagne; addirittura spezza il pessimismo di Andromaca, che intimorita tra le tante parole afferma: «Il non nascere è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore». La protagonista rivolge inoltre accuse dirette a tutti coloro che hanno provocato la guerra e ne sono dunque i responsabili, infamandoli con pesanti ingiurie ed offese per aver condotto ad una vera e propria strage innumerevoli innocenti. Una tragedia in tutto e per tutto.

Ciò che accomuna tutte queste vittime è infatti, oltre ad essere per la gran parte donne, è il fatto di essere assolutamente innocenti. Come le troiane, anche le Italian Girls ricordate dalla Chirico, purtroppo sottomesse ed uccise, sognavano un mondo composto da un solo valore: la libertà. Quella di esprimersi come volevano, di essere se stesse, di vivere senza la paura quotidiana di essere violentate e massacrate dai loro stessi parenti nella propria casa, se così poteva essere chiamata quel luogo di oppressione e omertà. Noi occidentali abbiamo il dovere di non rendere vano il loro coraggio, di accendere la fiaccola della speranza che ha permesso alla stessa Ecuba di scorgere in quella Troia, devastata dall’incendio e dalla disumanità, una Ilio che invece «risplende». Poiché più si sta in silenzio, più al contempo diveniamo complici di queste atrocità. «Silence, like a cancer, grows», come è riportato nel testo della celebre canzone The sound of silence. In questo caso, prendo come modello la versione dei Disturbed, dato che l’intonazione del cantante, assieme al videoclip col gioco di luci ed ombre, mi hanno trasmesso appieno il messaggio che la canzone voleva lasciare. Tramite un’invocazione quasi profetica, quest’ultima annuncia che nel nostro mondo siamo fin troppo mangiati dal silenzio. Ci troviamo soggetti ad una luce al neon, fredda e non vivida, che riteniamo ci possa soddisfare quanto quella solare e sotto la quale decidiamo di nasconderci quanto basta per sopravvivere. Prediligiamo una realtà vuota, in cui migliaia di persone parlano senza comunicare, che sentono senza ascoltare, che scrivono canzoni che non verranno cantate:

And in the naked light I saw

Ten thousand people, maybe more

People talking without speaking

People hearing without listening

People writing songs that voices never share

No one dared

Disturb the sound of silence

È un ossimoro il titolo della composizione, Il suono del silenzio, ma dimentichiamo che anche questo, il silenzio, senza che ce ne rendiamo conto, ha una propria voce, peraltro piuttosto pesante. Il silenzio soggioga le nostre anime nell’accontentarsi dell’imparzialità, o meglio, della equipollenza, la stessa che accetta la professione dell’Islam e della Jihad nei loro tratti più deplorevoli e turpi, la stessa che gioisce della mera felicità dell’incarceramento dello zio di Saman, ma che non pone alcuna domanda sulla scomparsa del corpo. Sapere, purtroppo, non è più sufficiente e Annalisa Chirico lo ha ben dimostrato nel suo saggio. Invece di vivere nell’indifferenza apatica sotto al neon god, mettiamo realmente in pratica ciò che l’Occidente ha da insegnarci ancora di positivo e costruttivo per una civile convivenza tra donne e uomini, egualmente liberi nella loro diversità.

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