Ivo Stefano Germano è docente di Media digitali e Strategie della comunicazione politica e istituzionale presso l'Università del Molise. È autore di numerosi saggi e articoli scientifici, nonché monografie, tra cui: #Quartierinogauchecaviar. Sneackers rosse eppur bisogna andar, Pendragon, Bologna 2018; Aside Story. La fatica delle vacanze (con S. Borgatti), goWare, Firenze 2017; New Gold Dream. E altre storie degli anni Ottanta (con D. Masotti), Pendragon, Bologna 2013.

«Ogni uomo è un cimitero». «Tu hai un cuore buono, grande e ardente. E io continuo a soffiarci sopra». Sono alcuni fra gli esergo disseminati in una serie strepitosa. Da applausi. Da far venire i brividi, come direbbero quelli che se ne intendono. Sto parlando di Shtisel, tre stagioni presenti nella libreria di Netflix. Per chi volesse essere attento, più di dieci secondi, (lo so, lo so è una durata eterna per l’evo digitale) ogni puntata è l’antologia plastica di cose che vorremmo sentire. Di più: del desiderio di trovare qualcuno che possa parlare cosi. Dire, semplicemente, a capotavola di una tavola da refettorio con un bicchiere d’acqua in mano, in mezzo ad un mare di generazioni. Niente trucchi. Solo la presenza dei dialoghi nella e della vita quotidiana di una famiglia di ebrei ortodossi in un quartiere  di Gerusalemme, gli haredim, nelle cui case, la televisione non è così presente. Fanno della pratica religiosa e della messa in pratica della Torah un sistema sociale e culturale, più che un “mondo a parte”, dato che, letteralmente parlando, si tratta di “ebrei che tremano davanti a Dio”.

I riccioli ai lati del viso, la kippah, i gilet con le frange. In mostra o meno, non venerano immagini. Elegantissimo l’uso di tacs e vecchi cellulari, arcaici, al riparo da qualsiasi tentazione retromane o vintage. Tale da rendere il gioco delle identità una delle chiavi di lettura più efficaci della serie offerta dalla piattaforma globale. No spoiler. Vi dico solo che il protagonista si chiama Akiva, giorno dopo giorno, alle prese con l’eteronomia delle tradizioni, come il matrimonio combinato, per mezzo di imbarazzanti ed esilaranti incontri organizzati, alla ricerca della fidanzata. Sullo sfondo di hall e divanetti da hotel per commessi viaggiatori globali, votati al business.

Shtisel smonta strutture identitarie e regole di separatezza formale e sostanziale, quando le scelte equivalgono, anzitutto, a non perdere tempo, soprattutto, a non perdersi in menate e fronzoli. La globalizzazione come orizzonte culturale resta sullo sfondo, in lontananza, in una congerie inestricabile di definizioni, paradigmi e teorie, critiche e fraintendimenti. Per chi, come i personaggi della serie israeliana amano non appartenere più alla contemporaneità, qua e là impertinenti. Tema ed argomento che interessa l’incontro delle identità culturali, come sempre, reso possibile perché l’umano, nonostante tutte le differenze di storie, concetti e paradigmi, resta sempre lo stesso. Una cifra particolare, infatti, connota la traiettoria di ogni puntata, in grado di realizzarsi sempre in forme particolari. L’Occidente non può essere, dunque, ristretto alla consueta formuletta: tecnologia più volontà di potenza.

Da qui e non da altri percorsi è derivata quella particolare capacità di Netflix, al pari di molte serie che propone, di saper dire delle cose attuali, tuttavia, sganciate da gabbie identitarie e luoghi comuni, sui quali si adagia, come un gattone, il mainstream. In una cornucopia di temi e storie a portata di cancelletto con cui tramutarle in argomenti decisivi e questioni dirimenti. Le tre stagioni di Shitsel non si limitano a rettificare, se non proprio distruggere un particolare continente simbolici e un segmento dottrinario. Tentano di fare qualcosa di più e meglio, cioè, non sventolare bandiera bianca di fronte al cinismo e al nichilismo di grande tendenza, che ci piace alla gente che piace, ai benpensanti sensibili allo stigma. Non essere banali, poiché responsabili. Ognuno con le proprie idee, ovvio. Insegnando a vivere con un bicchiere di soda in mano. Ciò che fa Shulem dentro un armadio. Ancora una volta, no spoiler.

P.S.: poco adatto al binge watching.

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