Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
E. Buonaiuti, Lutero e la Riforma in Germania

Luni editrice, Milano 2020, pp. XI + 415, €25,00.

«Non mi sono affatto dissimulato i dissensi e le agitazioni, le incertezze e le contese cui la mia dottrina sta per aprire il varco nel mondo. Quanto a me […] debbo confermare di non poter sottrarre alla Germania mia l’ossequio che le devo. E con questo mi affido alla vostra maestà sacra. Ho finito!». Esattamente cinque secoli fa, il 18 aprile 1521, nella Dieta di Worms e alla presenza dell’imperatore e delle massime autorità civili e ecclesiastiche Martin Lutero pronunciava tali parole. Si era attesa dall’irrequieto Martino una ritrattazione teologica; al contrario, si ricevette una conferma di tutte le sue tesi e, in aggiunta, un appello diretto alla nazione germanica. Dopo Worms la dottrina audacemente propugnata da Lutero avrebbe assunto una caratterizzazione anche politica. La Riforma debordava dai perimetri teologici entro i quali sino ad allora, bene o male, ci si era sforzati di mantenerla.

In questi primi anni Venti ricorre il quinto centenario di molti eventi di capitale importanza legati alla riforma luterana e alla dissoluzione della cristianità occidentale. I centenari offrono sempre l’occasione di tirare un bilancio complessivo dell’evento oggetto di commemorazione. E fu con tale spirito che, ormai quasi un secolo fa, il grande storico del cristianesimo Ernesto Buonaiuti (1881-1946) scrisse il suo smagliante Lutero e la Riforma in Germania. Egli prendeva le mosse dal quarto centenario dell’affissione delle tesi di Wittenberg, caduto nella tragica sofferenza del primo conflitto bellico mondiale, e si interrogava sul destino postumo di Lutero nella Germania e nell’Europa dei primi anni Venti del XX secolo. L’opera del Buonaiuti segnava anche un passaggio delicato nella tormentata vicenda intellettuale dell’autore. Scomunicato dalla Chiesa cattolica a causa delle sue idee moderniste, Buonaiuti col suo Lutero si riaccostava sensibilmente all’ortodossia cattolica senza cadere nell’apologetica ma anzi rafforzando, con l’acume, la vastità e la profondità delle sue competenze storiografiche, la lettura cattolica del “fenomeno” Lutero. D’altronde la più avvertita storiografia cattolica sulla Riforma (e segnatamente gli studi di Joseph Lortz su La Riforma in Germania) avrebbe di lì a poco elaborato una interpretazione più larga e comprensiva (ma non per questo meno cattolico-romana) dell’eresiarca di Wittenberg. Il percorso ecumenico avviatosi anche grazie a solidi lavori storiografici come quelli di Lortz ha infine condotto a notevoli riavvicinamenti tra Chiesa cattolica e Chiesa luterana proprio sul punto cruciale della dottrina della giustificazione per fede (si veda la Dichiarazione congiunta di Augusta del 1999) e a nuove sorprendenti aperture cattoliche (il discorso di papa Francesco del 2016).

Perché dunque riprendere oggi il vecchio studio di Buonaiuti, così cattolico preconciliare (nonostante il suo “modernismo”) nell’orientamento? Il libro, anche da un punto di vista cattolico, risulta sorpassato in molti suoi passaggi. Ciononostante vale la pena (che poi pena non è, data la limpidezza e l’eleganza dello stile) leggerlo o rileggerlo oggi. Infatti Buonaiuti possiede una capacità non comune di cogliere l’essenza teologica del messaggio di Lutero e di illustrarne sul terreno vivido e concreto degli eventi i nessi e le traduzioni filosofiche e politiche. Egli, storiografo ma soprattutto storico delle idee, sa guidare il lettore nei meandri della teologia luterana senza limitarsi però al momento puramente descrittivo. La sua analisi è condotta con robusto senso critico e spesso la critica acquista contorni di esplicita polemica. Per esempio, Lutero secondo Buonaiuti inseguì per tutta la vita l’illusione di tradurre la sua esperienza interiore della giustificazione per fede, insopprimibilmente individuale e irripetibile, in fondamento normativo di organizzazione ecclesiastica.

Le pagine più dense e precise del Lutero si leggono con grande profitto perché puntualizzano cattolicamente le discrasie e le storture cui il riformatore incorre nella sua reinterpretazione della Lettera ai Romani di san Paolo e delle opere antipelagiane di sant’Agostino. La dottrina della giustificazione per fede, cuore teologico del luteranesimo, lo è altrettanto della critica del Buonaiuti. Si può dire che l’Autore proponga più che un vero e proprio studio biografico un commentario critico e circostanziato alle tesi principali espresse dal riformatore nelle sue giovanili Lezioni sull’Epistola ai Romani, nel De libertate christiana (1520), nel De servo arbitrio (1525) e nel Commentario alla lettera ai Galati (1533). Non che manchino ricostruzioni più propriamente biografiche e persino psicologiche del personaggio (esemplare al riguardo è il confronto tra la psicologia di Lutero e quella di Filippo Melantone: i due capostipiti l’uno del protestantesimo mistico e “esistenziale”, l’altro di quello filosofico-razionalistico; oppure quello tra un Lutero «impastato di contraddizioni, impulsivo, violento fino alla grossolanità» e il suo opposto, ossia un Erasmo da Rotterdam «freddo, circospetto, compassato, lucidissimo, naturalmente portato all’ironia e al compatimento», p. 182 ). E neppure mancano ampi riferimenti ai lavori del riformatore di carattere più politico o di ripensamento radicale dell’organizzazione ecclesiastica, del sacerdozio e del rapporto con la sola Scriptura. Ma insomma la grande, cruciale lettura luterana del rapporto tra grazia e fede, grazie e opere, grazia e libertà si concentra in quei quattro scritti, sui quali Buonaiuti si dilunga regalando al lettore squarci di luce in alcuni tra i punti più controversi. Uno di questi è dato dalla teologia paolina. Lutero riteneva di non aver inventato nulla di nuovo bensì di aver recuperato nella sua purezza l’originario messaggio di Paolo circa la dottrina della giustificazione per fede. Solo Agostino prima di lui, secondo Lutero, era stato capace di una simile impresa. Ma quella di Lutero fu una «deriva individualistica» del messaggio paolino. Lutero, «nell’atto stesso in cui credeva di ribadirli, ha contravvenuto e abbattuto i canoni e i capisaldi dell’insegnamento di Paolo e di Agostino»  (p. 93), per esempio proprio a proposito del ruolo della Chiesa e della Legge, e della coesistenza di carne e spirito nell’uomo. Qui, come altrove, «un abisso incolmabile separa la posizione di Paolo da quella di Lutero» (p. 140) e il luteranesimo teologico è bollato come «mimetica parodia del paolinismo e dell’agostinismo» (p. 343). Nell’insegnamento paolino (secondo il cattolico Buonaiuti) il cristiano non è solo di fronte a Dio e da lui giustificato, ma vive nel corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. E la Legge non serve soltanto a darci il senso della nostra inadeguatezza e del nostro assoluto bisogno della grazia (come pretendeva Lutero) ma ci aiuta, anche, a guidarci nel cammino di salvezza («la Legge è un organo preciso di segnalazione che Dio ha posto al fianco della nostra coscienza … efficace mezzo pedagogico onde sospingere l’umanità verso il Cristo», p. 264).

Se ci spostiamo dall’angolazione teologica a quella sociale e economica, i limiti del libro saltano subito all’occhio. E lo si evince già a partire dalla terminologia utilizzata, che è anacronisticamente marxisteggiante: a proposito della rivolta contadina del 1525 Buonaiuti parla di «masse operaie» e di «sollevazione proletaria» (p. 205 vedi), nei cui confronti l’atteggiamento di Lutero è tacciato di “reazionario” ma nel senso di “borghese” o funzionale agli interessi della borghesia. In effetti pochi dubbi sussistono sul conservatorismo sociale del riformatore che però va inteso nella accezione pre-capitalistica, perché egli in ambito economico e sociale professava posizioni più medievali di quelle della tarda Scolastica. Le idee di Lutero sul prestito a interesse segnano un arretramento rispetto alle ardite aperture degli Ordini mendicanti, come già il Tawney aveva brillantemente ricordato e confermato in un’opera famosa (Religion an the Rise of Capitalism) apparsa nello stesso anno del Lutero (e che doveva senz’altro risultare nota a Buonaiuti quando egli nel 1944 ripubblicò la biografia del riformatore).

Semmai il nostro Autore, sottolineando il sostanziale individualismo teologico e ecclesiologico delle nuove dottrine, considerava implicita – proprio in virtù di tale individualismo – la connessione tra luteranesimo e nascente etica borghese del denaro, trascurando così quanto medievali fossero ancora la mentalità e la visione luterane nell’ambito sociale e economico. Non è però il caso di indugiare su questi limiti perché Buonaiuti non pretende di scrivere una storia sociale di Lutero e si focalizza piuttosto sulla storia culturale. Su questo terreno l’opera del Nostro offrì il contributo di miglior pregio. E non mancò di cogliere, ancora una volta in chiave polemica, lo stretto nesso tra la libertà interiore del cristiano giustificato per fede e l’asservimento esteriore, perentorio e completo, del suddito luterano alle autorità costituite.

Abbattuta la Chiesa, Lutero investiva il Prìncipe «di mansioni autonome anche nella sfera della moralità, affrancandole da ogni superiore controllo» (p. 258): il viatico alla statolatria. Ma non tutto è ombra. La traduzione in vernacolo della Scrittura è secondo Buonaiuti il titolo più genuino che Lutero, l’Ercole germanico, «può accampare alla riconoscenza dei posteri, al cospetto della moderna civiltà germanica e di tutta la cultura europea» (p. 259).

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