Recensione a
S. Weil, La prima radice
Edizioni di comunità, Roma 2019, pp. 320, € 18,00.
Simone Weil scrisse questo testo, divenuto poi un classico, nell’anno 1943. Lo scrisse in un panorama sociale francese in preda allo smarrimento, se non alla perdita dei punti cardinali costruiti in secoli di storia. Il popolo francese era stato sopraffatto dalla furia nazista in un lasso di tempo talmente breve da non permettere la sedimentazione di una reale forma di consapevolezza di ciò che la Francia aveva avuto e stava perdendo.
Alla luce di queste premesse, la Weil sentì la necessità di riportare su carta un’opera il cui contenuto cercava di rispondere all’interrogativo che molti francesi si stavano ponendo nei primi anni del conflitto bellico: se perdiamo la Francia, cosa ci rimane? Un bisogno dell’anima, come lo definiva la filosofa, quello del radicamento, dell’attaccamento ad un qualcosa di immateriale – la terra di origine, le mura della propria città, la casa avita – e al contempo di immateriale, tradizioni, lingue e valori. È un bisogno questo da cui non si può scappare, lo si deve ricercare e tenere stretto il più possibile. Pena la perdita del sé? Non proprio.
Come affermava la Weil, «a ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente» (p. 50). La Weil ci stava dicendo che l’equilibrio morale, spirituale ed intellettuale di ogni essere umano risiede nella sua capacità di differenziazione delle fonti vitali. Se una radice sarà recisa, l’uomo, nella sua complessità, potrà sempre disporre di altre forze a cui appellarsi al fine di preservare parti del suo sé. Non sono forse gli alberi con maggiori ramificazioni nel terreno a sopportare più facilmente le sollecitazioni degli agenti atmosferici? Così effettivamente l’uomo. Ma quali sono queste fonti che danno corpo e sostanza alla forza vitale umana?
Partiamo dalla prima, a cui la filosofa dedica buona parte dell’opera: la nazione, una radice che è il punto di raccordo fra passato, presente e futuro. Finché questa forza è alimentata dal senso democratico, dal principio della sovranità popolare, essa è destinata a perdurare. Non è nato così il concetto di nazione in Occidente con la Rivoluzione francese del 1789? Nazione e democrazia si sono incontrate lungo il percorso della storia occidentale e non si sono più lasciate. Non possiamo provare quel brivido lungo la schiena che ci fa sentire parte integrante di una comunità e di un territorio, se non rivendichiamo pratiche di democrazia diretta. Nel momento però in cui il sogno della Rivoluzione francese si è infranto, il senso della patria ha subito costanti oscillazioni, tra fasi di congelamento e di breve accensione. È stato effettivamente l’apparato statale a prendere il testimone rappresentativo della nazione producendo così nelle menti dei cittadini un senso di estraniazione dal vero senso di partecipazione diretta alla vita sociale e politica di un popolo. L’amore verso la nazione si è così intiepidito. Viviamo questo ancoramento ad una comunità, questa fedeltà verso lo Stato nel ricordo di ciò che fu, o nell’aspirazione di ciò che potrebbe essere, ma non sicuramente per ciò che è oggi. Passato e futuro sono i moventi di azione di un popolo. Questo ci dice la Weil.
Quale linfa rivitalizza questa radice nel qui e ora? I grandi eventi catastrofici, l’invasione di una potenza esterna che minaccia lo sradicamento di un popolo dalla sua storia. Ed ecco perché la Weil nella sua opera sollecitava il popolo francese a difendere i valori democratici con tutta la forza contro la minaccia della Germania hitleriana. Scriveva così: «chi non vuole difendere la propria patria non deve perdere né la vita né la libertà, ma puramente e semplicemente la patria» (p. 177). Ma perdere la patria non è mai un qualcosa che un uomo deve vivere a cuor leggero. La Weil si interrogava su quale potesse essere il criterio, il movente, capace di scuotere gli animi francesi nella difesa della loro patria. Lo rintracciava in un’idea che aveva molti richiami con la tradizione giudaico-cristiana: l’idea spirituale di bene.
Secondo la Weil, non è un’idea che deve essere definita, incasellata in uno spazio etimologico preciso. Un uomo, se ha fede, se è condotto dallo spirito di verità, sa cos’è il bene, non deve ricorrere a meccanismi razionali per dimostrarne l’esistenza. La consapevolezza di un qualcosa di dato e di ineluttabile alimenta in lui la forza di difendersi dai soprusi delle altre nazioni e popoli. E chi non ha fede? La risposta è la seguente:
Al di sopra dell’ambito terrestre, carnale, dove si muovono in genere i nostri pensieri, e che è ovunque mescolanza inestricabile di bene e di male, ce n’è un altro, quello spirituale, dove il bene è soltanto bene e che, persino nel regno inferiore, produce solo bene; e dove il male è soltanto male e non produce che male (p. 213).
Chi è alla mercé dei pensieri del regno inferiore, può sì indagare, cercare di carpire l’essenza del bene e del male, ma sarà inevitabilmente da solo nella ricerca del vero. E dato che la sua radice nella fede in Dio è stata ripudiata, quella dell’attaccamento al senso di patria ne risulta indebolita. Le due radici, della nazione e della fede in Dio, sembrano stringersi in una spirale dove le due linfe si contaminano e alimentano a vicenda. Se si ha fede, il radicamento ad una comunità ne esce più forte ed è vero il contrario. È proprio questo groviglio di due forze, il cristianesimo e la nazione, a costituire quella prima radice di cui si parla nel titolo dell’opera.
Non sono forse queste due importanti radici su cui l’Europa si è fondata? E non sono forse proprio queste a vivere da decenni una profonda crisi nelle società occidentali? Viene da chiedersi allora quale possa essere oggi, nel momento in cui dovesse scoppiare un nuovo conflitto mondiale, la risposta dei popoli europei alla chiamata alle armi. Se il radicamento ai valori occidentali è costantemente minacciato dal nichilismo imperante, cosa spingerà l’uomo europeo a difendere la sua casa? La volontà di potenza intesa in senso nietzschiano? Il mero istinto di sopravvivenza? O forse la fedeltà alle proprie radici?
Ce lo siamo mai veramente chiesti?