Piero Buscioni (1973) si è laureato in Storia della critica e della storiografia letteraria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Attualmente insegna lettere nelle scuole superiori. Aforista, poeta ed autore di saggi, ha scritto su riviste, quali «Erba d’Arno», «Nuova Antologia», «Hebenon», «La Clessidra», «Caffè Michelangiolo». Nel 2003 ha fondato, con amici, la rivista trimestrale «il Fuoco». È collaboratore de «il Portolano». Suoi aforismi sono stati scelti da Guido Ceronetti per il quotidiano “la Stampa”. Ha pubblicato la monografia Il rabdomante delle acque di Siloe. Studio su Arrigo Levasti (2000), l’antologia Tributo minimo al novecento italiano in sedici schegge (2004), la raccolta poetica Fa’ luce ti prego fino all’anima (2009), il saggio Parole per un altro amore. Scritti sul cinema (pref. di M. Guzzi, 2013), le raccolte Aforismi per la fine del mondo (2018; vincitore del Premio internazionale per l’aforisma “Torino in sintesi” – sezione editi) e Tra cielo e terra (pref. di A. Castronuovo, 2021).
«Attendo la morte con impazienza ed arrivo ad augurarmi il decesso di mio padre, poiché non oso uccidermi prima che lui se ne vada. Il suo corpo ancora non sarà freddo quando io non sarò più al mondo». Così aveva scritto Albert Caraco in Ma confession. E così fece. Il sette settembre del 1971, a poche ore di distanza dalla morte del padre e avendo fino a quel momento vissuto per cortesia, assunse barbiturici e quindi si tagliò la gola. Non un gesto dimostrativo dunque, o un parasuicidio (per mutuare un lemma dal gergo tanto assurdo quanto ridicolo della psichiatria): del resto, gli scrittori sono persone serie.
Era nato da una facoltosa famiglia ebraica cosmopolita cinquantadue anni prima, l’otto luglio o il dieci agosto del 1919, a Costantinopoli, nel cuore del neodissolto impero ottomano. Vagò per il mondo al seguito del padre (Vienna, Praga, Berlino, Parigi, Argentina, Uruguay), per tornare infine a stabilirsi nella capitale francese dopo il termine della seconda guerra mondiale. Ma stabile in questo mondo non lo fu mai, come l’epilogo della sua vita eloquentemente comprova. D’altro canto, soltanto gli idioti sono stabili in questo mondo. Gli illuminati – ancorché, come Albert, di una luce nera –, i sapienti veri (che, preme ricordarlo, non sono i sapientini, non sono i saputelli) trovano nel nulla o nell’altrove il loro ubi consistam. L’esistenza di Caraco fu abissalmente solitaria. I soli esseri umani con cui ebbe commerci furono il padre e la madre. Soprattutto la madre. La «Signora Madre», alla cui dipartita Caraco vergò le pagine allucinate e al contempo perspicue di Post mortem, sorta di deificante liturgia funeraria, nonché raggelata testimonianza di un rapporto morboso ed ossessivo, di un claustrofilico legame escludente la restante umanità. La madre aveva voluto che il figlio rinunciasse al sesso. Più drasticamente, il figlio rinunciò alla vita.
Fobantropo, rovinologo e pestigrafo, Caraco appartiene a quella estrema compagine di scrittori il cui pessimismo riesce, in fin dei conti, più liberante e salutare di tanto ottimismo umanistico o altresì blandamente religioso. E ciò, seppur vi sia in questo trappista della distruzione, in questo diagnosta ed àugure delle orrifiche sorti e regressive dell’umanità (parafrasando il nostro Leopardi che, supponiamo, Caraco conoscesse), una furia misantropica che veramente sbigottisce. Sonnambuli spermatici, valletti della rovina, cadaveri frenetici: questo sono gli uomini per Caraco. E qual è il loro destino? L’abisso del niente, il baratro voraginoso del non senso; di cui tuttavia non s’avvedono, essendo, gli umani, tutt’uno col non senso.
Non possiamo tramutare i sonnambuli in veggenti né far assaporare la luce a questi ciechi dalla nascita, la legge dell’ordine vuole che la massa di perdizione non sia salvata e che si consoli della propria rovina procreando a perdifiato, per poter essere smisurata e fornire instancabilmente un esercito di vittime.
Questo assevera, come salmodiando, Caraco in Breviario del caos, sorta di liber de contemptu mundi, ove l’odio per il mondo, il disprezzo per la schiatta umana sono professati nella guisa più radicale ed apodittica. La sua filosofia della redenzione – per citare Philipp Mainländer, pensatore tedesco del diciannovesimo secolo col nostro non poco consonante –, redenzione dal male che per Caraco l’esistenza fondamentalmente è – e segnatamente in quei termitai insensati che le moderne metropoli sono divenute –, in Breviario del caos si articola per frammenti granitici di prosa, riverberanti come un classico, quasi accecante nitore. Il concetto di «massa di perdizione» – riecheggiante, seppur in senso affatto nichilistico, la massa damnationis di agostiniana memoria – è la chiave di volta del pensiero asistematico, rapsodico e profetico di Caraco: ovunque non v’è che massa; e l’uomo è soltanto uomo massa, dagli altri uomini massa, come un dannato dantesco, separato ma non distinto; automa ciecamente procreante (e in effetti, generare fuori da una prospettiva trascendente è atto a dir poco opinabile), fantoccio immerso nell’abominazione e nella tenebra. Unica soteriologia possibile, sola via di salvezza è quella ascetica del veggente, del risvegliato, del singolo, per evocare Kierkegaard; singolo che però non si rapporterà a Dio, come nel magistero del grande danese, bensì al nulla.
Un altro specimen dal Breviario testimonia la sapienza esoterica, non compromessa con le sirene del tempo ed i clamori del mondo, originaria e insieme escatologica di Caraco:
Il ritorno all’origine è il primo dovere, altrimenti l’uomo è finito. Perciò i rari pensatori degni di questo nome si occupano di ontologia e di etimologia per ristabilire una metafisica, mentre le menti piccine, preoccupate di stare al passo con la moda, si immergono nella contemplazione del sociale, questo dettaglio subalterno. Giacché la società non è nulla, essa è forma che ha per contenuto la massa di perdizione, è la mischia dei sonnambuli spermatici, qualcosa di infinitamente spregevole che il filosofo non prenderà affatto in considerazione.
Fermo restando che, secondo ha mostrato George Steiner (pensiamo a un libro geniale e non solo formante ma altresì trasformante come Vere presenze), la letteratura e la filosofia autentiche – l’arte tutta – sono sempre, sono costitutivamente in relazione a ciò che possiamo, con parola aconfessionale e decisiva, chiamare trascendenza, non cadremo nella tentazione di insufflare contenuti criptoreligiosi in un autore apertamente nichilista – seppur di un nichilismo non scevro da venature gnostiche – quale Caraco è. E, nondimeno, ci pare arduo negare a questo scoliaste ed omileta del nulla, ma anche indefesso evocatore di apocalissi e palingenesi, una sorta di profondo, quantunque tenebroso, afflato spirituale. Perché, se «Dio è morto, e la sua morte fu la vita del mondo», come, prima di Nietzsche, il summenzionato Mainländer aveva scritto, il nulla, cui Caraco s’inchina, è forse l’altro volto di Dio; di un Deus Absconditus, che sta avvolto nella sua ombra immane, ritirato nel suo vertiginoso silenzio. Di certo, Caraco fa tabula rasa di tutti gli idoli mondani, esecra l’esistenza e il nostro esservi gettati, desertifica i domini del visibile; e tuttavia, nella sua potente opera di annichilazione, non manca di vaticinare destini inauditi, siccome leggiamo in quest’altra vibrante, oracolare pagina di Breviario del caos:
Ci occorre una Rivelazione nuova […] Gli Anarchici e i Nichilisti sono gli ultimi uomini ragionevoli e sensibili fra i sordi, che marciano, e i ciechi, che militano, ma non basta aver ragione nel secolo attuale, né basta essere sensibili per cambiare qualcosa, bisogna sostituire l’ordine con un ordine e non con un disordine, e la morale con una morale, non con l’immoralità, e così la fede con una fede, non semplicemente con un vuoto, e gli dèi morti con le divinità nascenti. Non abbiamo bisogno di agitatori, abbiamo bisogno di profeti, abbiamo bisogno di genii religiosi adatti al nostro tempo, alle nostre opere […] perché il futuro non ha precedenti e l’universo non ha più ripari.