Antonio Messina (1989) è Ph.D. Student in Scienze Politiche all’Università di Catania e Visiting Ph.D. Fellow presso l'Università di Leiden (Paesi Bassi). È redattore del semestrale «Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee», da lui fondato; è socio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e dell’Istituto euro-arabo di Mazara del Vallo. È membro del comitato scientifico della rivista «La Razón histórica: revista hispanoamericana de historia de las ideas políticas y sociales». I suoi principali interessi concernono la filosofia politica, la geopolitica, e la storia delle dottrine politiche, con particolare riferimento alla storia intellettuale dei regimi autocratici. Tra le sue pubblicazioni: L'economia nello stato totalitario fascista (Ariccia 2017); Giovanni Gentile. Il pensiero politico. Scritti e discorsi 1899-1944 (Roma 2019); Comprendere il Novecento tra storia e scienze sociali. La ricerca di A. James Gregor (Soveria Mannelli 2021).

Recensione a
A. Cotticelli, Le chiavi del Mediterraneo. Gli esordi del Colonialismo Italiano
Palombi Editore, Modena 2020, pp. 207, €15.00.

Quando si affronta la questione degli esordi del colonialismo italiano, i primi episodi che balzano immediatamente alla memoria sono quelli della disastrosa impresa di Adua (1896) e della successiva conquista della Libia (1911), in cui la Grande proletaria muoveva i primi passi alla ricerca di nuove terre in oltremare per ritagliarsi un posto di rilievo tra le grandi potenze europee. In un contesto internazionale dominato dalla presenza di grandi e consolidati imperi coloniali, il neonato Regno d’Italia si trovò presto nella necessità di acquisire alcuni possedimenti di interesse geostrategico.

Nei primi anni del Novecento Halford Mackinder, padre della geopolitica classica angloamericana, rilevava, nel suo The Geographical Pivot of History, una trasformazione geopolitica in corso nel segno del passaggio da un sistema internazionale aperto (da lui definito colombiano) a un sistema internazionale chiuso (post-colombiano): era l’idea di un colossale esaurimento degli spazi “liberi” del mondo, destinato ad inasprire la competizione internazionale. Mackinder diede espressione a un senso dello spazio molto diffuso in quegli anni, veicolando l’idea che il mondo stesse per chiudersi con il venir meno di spazi liberi facilmente appropriabili, assicurando in questo modo l’egemonia dei beati possidentes.

Se la corsa contro il tempo alimentò i nazionalismi del Novecento, nondimeno essa condizionò le scelte politiche della prima leadership italiana, anche alla luce del tardivo processo di unificazione della penisola. Il recente studio di Andrea Cotticelli, saggista e giornalista professionista con esperienza politico-parlamentare e istituzionale, Le chiavi del Mediterraneo. Gli esordi del Colonialismo Italiano (Palombi Editori, Modena 2020), aiuta a far luce su questo e lo fa da una prospettiva originale: i discorsi e gli atti parlamentari pubblicati dalla Camera dei Deputati e dal Senato del Regno d’Italia, nonché i documenti diplomatici italiani risalenti agli anni ’80 del XIX secolo.

Nel primo ventennio dell’unificazione, i governi italiani non sembrarono nutrire alcun interesse verso il perseguimento di una politica coloniale, poiché le loro principali preoccupazioni erano tutte incentrate alla stabilizzazione del nuovo Stato e alla cementificazione dell’unità nazionale. I governi postunitari si trovarono impegnati a fronteggiare alcune ardue sfide, tutte connesse al processo di nation e state building italiano. A questo si aggiungevano altre due importanti considerazioni: 1. la ritrosia, da parte di una leadership che aveva attuato il Risorgimento all’insegna di ideali come la libertà e la lotta contro lo straniero oppressore, ad avventurarsi alla conquista di terre altrui, ripudiando siffatti ideali; 2. la convinzione che l’Italia non possedesse ancora i mezzi per intraprendere una politica estera attiva, trovandosi quindi costretta a ripiegare nel consolidamento del fronte interno. A codeste considerazioni si ispirò l’azione dei governi della Destra storica, dal 1861 al 1876.

Eppure non erano mancate, tra gli alfieri del Risorgimento italiano, esortazioni affinché l’Italia troncasse gli indugi e si avventurasse in una politica coloniale. Nel 1871, Giuseppe Mazzini sostenne la necessità, per l’Italia, di innestarsi nel «moto inevitabile» europeo, tutto volto ad «incivilire le regioni africane». Auspicò quindi la conquista della Tunisia, «chiave del Mediterraneo centrale» e «connessa al sistema sardo-siculo» (p. 30). Come altre eminenti personalità del suo tempo, Mazzini pensava che l’Europa dovesse colonizzare l’Asia e l’Africa per “civilizzare” le popolazioni locali e preparare il terreno alla loro autodeterminazione. Come ha rilevato Massimo Scioscioli, Mazzini pensava che all’Europa spettasse «la missione di aiutare i popoli del mondo a compiere lo stesso cammino già fatto dai suoi figli, a condizione, tuttavia, che questa missione non […] [venisse] utilizzata per giustificare una politica di rapina brutale a danno dei popoli da “civilizzare”» (M. Scioscioli, Giuseppe Mazzini: i principi e la politica, Napoli, Giunta, 1995, pp. 232-233).

A partire dal 1876, la politica interna italiana fu contrassegnata da importanti cambiamenti che si riverberarono sulla politica estera: l’ascesa al potere della Sinistra di Agostino Depretis (1876-1879; 1881-1887) condusse presto il Paese ad abbandonare la linea di prudente equilibrio seguita sino ad allora dai governi della Destra, proiettando l’Italia alla ricerca di nuove opportunità. Il rapporto diplomatico preferenziale stabilito con la Germania fu accompagnato e, almeno in parte, determinato, da alcune cocenti delusioni: unica potenza che al Congresso di Berlino (1878) non aveva ottenuto alcun compenso di tipo territoriale, nel 1881 l’Italia si vide sfuggire la possibilità di acquisire la Tunisia, occupata dai francesi con un blitz militare. Lo «schiaffo di Tunisi», come venne allora definito, dimostrò l’isolamento italiano in campo internazionale, e divenne quindi «opportuno per l’Italia considerare nuove alleanze con cui sottrarsi alla condizione di inferiorità subita sino ad ora nello scacchiere europeo» (p. 51).

Il tentativo di traghettare l’Italia fuori dalla sua condizione di subalternità e di isolamento parve concretizzarsi con il progressivo accostamento agli Imperi centrali, con la conseguente rinuncia – o momentaneo accantonamento – dei propositi irredentisti. Il Trattato della Triplice Alleanza, sottoscritto il 20 maggio 1882 dal Governo Depretis, permise all’Italia di assicurarsi una posizione di stabilità e di sicurezza nel continente, e quindi di «volgere finalmente le sue mire verso l’oltremare e intraprendere, come le altre potenze europee, una politica coloniale degna di una grande potenza» (p. 65).

Prima tappa del colonialismo italiano fu l’acquisizione della baia di Assab, un modesto lembo di costa nel Mar Rosso, trampolino di lancio per la futura avventura coloniale in Africa orientale. La baia era stata precedentemente acquistata dalla Società Rubattino, che il 15 novembre 1869 l’aveva ottenuta dai Sultani Hassan Ben Ahmad ed Ibrahim Ben Ahmad al prezzo di seimila talleri (p. 70). Rilevata dal Governo italiano al prezzo di 416 mila lire, la baia venne trasformata in colonia con un disegno di legge presentato alla Camera il 26 giugno 1882 dal Ministro degli Esteri Pasquale Stanislao Mancini (1881-1885). Cotticelli fa notare che «per la sua importanza il Disegno di Legge presentato da Mancini è da considerarsi il primo atto ufficiale del colonialismo italiano» (p. 90).

Nel discorso tenuto in quella occasione alla Camera, Mancini auspicò che la colonia potesse «giovare alle sorti avvenire della nostra Marina, del nostro commercio e dello sviluppo economico d’Italia». Nei confronti delle genti autoctone, soggette alla sovranità italiana, Mancini chiarì quella che sarebbe stata la posizione da assumere: «non dominatori, non tutori, non innovatori, ma amici ed aiutatori a guidare i nostri nuovi concittadini a miglioramenti compresi e desiderati» (p. 91).

Dalla baia di Assab si giunse, il 5 febbraio 1885, all’occupazione della città di Massaua, il porto più importante del Mar Rosso. L’occupazione, svoltasi pacificamente e in accordo con il Governo egiziano, fu sollecitata dalla Gran Bretagna allo scopo di prevenire una eventuale penetrazione francese in Africa orientale. Massaua divenne così la testa di ponte per i progetti espansionistici italiani, finalizzati alla conquista del Corno d’Africa e – da lì – alla penetrazione in Abissinia. Mancini, che caldeggiava la conquista del Sudan, sperava di riscattare l’Italia dalle «recenti umiliazioni subite nel Mar Mediterraneo: lo scacco di Tunisi, il rifiuto di partecipare all’occupazione dell’Egitto e il mancato sbarco a Tripoli», sperando di trovare nel Mar Rosso le agognate «chiavi del Mediterraneo» (p. 136). Mancini aveva tenacemente orientato le ambizioni espansionistiche italiane in Africa orientale e nel Mar Rosso, come ebbe a sottolineare a quei critici che lo accusarono di aver distolto l’Italia dal suo reale centro di interessi: il Mediterraneo. Così, in risposta alle interpellanze parlamentari, il 27 gennaio 1885 Mancini affermò:

«Voi temete ancora che la nostra spedizione nel Mar Rosso ci distolga da quello che chiamate il vero e importante obiettivo della politica italiana, che deve essere il Mediterraneo. Ma perché invero non volete riconoscere che nel Mar Rosso, il più vicino al Mediterraneo, possiamo trovare le chiavi di quest’ultimo, la via che ci riconduce ad una efficace tutela contro ogni nuovo turbamento del suo equilibrio?» (p. 129).

L’idea, accarezzata da Mancini, di trovare nel Mar Rosso le «chiavi del Mediterraneo», si presterebbe a due possibili interpretazioni: «la prima era che l’Italia potesse giungere al Mediterraneo attraverso il Sudan fino alle coste libiche; mentre la seconda era che la cooperazione anglo-italiana nel Mar Rosso e nel Sudan si sarebbe estesa anche al Mediterraneo» (p. 138). Qualunque fosse il progetto coloniale di Mancini, esso non conseguì i risultati sperati. Travolto dalle critiche dei suoi avversari in Parlamento ed escluso dal settimo Governo Depretis, Mancini morì nel 1888, lasciando incompiuto il suo ambizioso programma coloniale. Esso verrà ripreso nel 1895 da Francesco Crispi, che tenterà l’invasione dell’Abissinia con l’ambizione di creare un vasto impero coloniale, ma che dovrà a sua volta arrestarsi dinanzi alla disfatta di Adua (1896). Sarà solo nel 1936 che l’Italia riuscirà a conquistare, seppure a mantenere per un breve lasso di tempo, l’ambìto impero in Africa orientale.

Il libro di Cotticelli, agile e ben documentato, ha il merito di raccontare una pagina poco conosciuta della storia d’Italia e di far luce sul progetto geopolitico che Mancini auspicava per la nazione: una politica cauta e di mantenimento dello statu quo nel Mediterraneo e una politica espansionistica in Africa orientale e nel Mar Rosso. Espansionismo, inizialmente presentato come economico e mercantile, per non urtare gli interessi britannici, che divenne ben presto militare e politico.

Mancini era consapevole che nel Mediterraneo, fortemente egemonizzato dalla Gran Bretagna e perciò ormai divenuto un “lago inglese”, l’Italia – da poco giunta all’unificazione – non avrebbe potuto sperare in niente di più del mantenimento dei precari equilibri esistenti. Il rapporto di forze, sfavorevole all’Italia, le avrebbe impedito ancora a lungo di esercitare un qualsivoglia ruolo attivo. Perciò Mancini era stato chiaro:

«Fino a che tutte le altre Potenze rispettano lo statu quo, non saremmo noi i primi a turbarlo […]. I nostri più gravi interessi sono nel Mediterraneo, è a questo pertanto che dobbiamo tener fisso lo sguardo, non già con mire di usurpazione o di conquista, ma per impedire che altre conquiste o usurpazioni si compiano contro di noi, e per prevenirle, se altrimenti non si potesse fare» (p. 104).

Il Mediterraneo restava dunque, per tutta la classe politica post-unitaria, il centro nevralgico degli interessi geopolitici e geostrategici italiani, e il mantenimento dello statu quo sembrava, in quel momento, l’obiettivo più realisticamente conseguibile. Mancini sperava di arrivare al Mediterraneo per vie traverse, confidando di trovarvi le “chiavi” di accesso nel Mar Rosso, ma i risultati furono scarsi e di modesta importanza. I suoi avversari non smisero di rimproverargli l’eccessiva prudenza, il diniego all’offerta inglese di coinvolgimento dell’Italia nella questione egiziana e la mancata conquista della Tripolitania nel 1894. In particolare, l’atteggiamento italiano nei confronti della questione egiziana, passato alla storia come la politica del “grande rifiuto”, venne considerato come foriera di conseguenze nefaste per la nazione. Lo stesso Francesco Crispi, da Londra, scrisse una dura lettera a Mancini il 29 luglio 1882: «Sono dolentissimo che hai declinato l’invito che ti fu fatto dall’Inghilterra ad intervenire in Egitto. Voglia Iddio che il tuo rifiuto non sia la causa di nuovi danni all’Italia nel Mediterraneo» (p. 101).

Il rifiuto, da parte di Mancini, di intromettersi negli affari interni della politica egiziana – il cui regno, sotto la guida del Chedivé Muhammad Tawfiq Pascià, aveva contratto un enorme debito con i creditori europei – derivava, in gran parte, dalla convinta adesione del giurista al principio mazziniano dell’autodeterminazione dei popoli. Mancini asseriva infatti che la base razionale su cui si fondava il diritto internazionale fosse la nazionalità, intesa come «esplicazione collettiva della libertà». Così come l’individuo possedeva dei diritti naturali innati, lo stesso valeva per l’«aggregato organico» composto da tali individui, cioè la nazione, il cui solo limite era quello di rispettare l’analoga indipendenza delle altre nazioni. Cotticelli coglie bene questo passaggio, laddove scrive che «Mancini era un convinto sostenitore del principio di nazionalità […] rimaneva quindi fermo sull’idea che il progetto nazionale in Egitto si compisse senza particolari traumi e soprattutto senza interventi stranieri» (p. 100).

Unica nota critica che si potrebbe muovere al libro concerne l’asserzione, riportata in quarta di copertina, secondo cui l’Italia fu l’ultima delle potenze europee a inserirsi nella contesa coloniale. In realtà, se volessimo stilare una graduatoria cronologica del colonialismo, l’ultimo posto spetterebbe alla Germania, anch’essa giunta tardi all’unificazione nazionale. Le prime colonie tedesche saranno infatti edificate a partire dal 1884, ossia due anni dopo la trasformazione della baia di Assab in colonia italiana.

A corredare il volume è una nutrita Appendice contenente una serie di documenti ufficiali e diplomatici scrupolosamente raccolti e selezionati dall’autore, che arricchiscono ulteriormente il pregevole studio di Cotticelli.

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