Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Ha scritto per «L'Intellettuale dissidente» e «Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».
Recensione a: M.N. Covini, Ludovico Maria Sforza, Salerno Editrice, Roma 2024, pp. 296, € 26,00.
Maria Nadia Covini, medievista di chiara fama e una delle massime esperte sulla storia politica e diplomatica delle dinastie dei Visconti e degli Sforza, ha scritto per la collana i Profili della Salerno Editrice una monografia su Ludovico Sforza, alias il Moro. Quest’ultimo è stato un personaggio chiave per la storia politica e anche culturale del Rinascimento italiano. Ma come spiega l’Autrice nelle pagine introduttive del saggio, gli unici saggi biografici, sia di carattere scientifico che pubblicistico su Ludovico Sforza, sono stati la voce per la Treccani su dizionario biografico degli italiani di Gino Benzoni nel 2006 e la monografia, monumentale, di Francesco Malaguzzi Valeri, di ben quattro volumi, scritti dal 1913 al 1923, che aveva per oggetto la corte milanese dello Sforza. Il perché di questi solo due studi su un personaggio così importante, si interroga l’autrice, è dovuto forse ad una serie di motivi: il primo di questi è l’interesse nella storiografia, quella anglosassone in primis, con ricercatori del calibro di Baron e Gilbert, che si concentrarono sulla Repubblica Firenze per un interesse allo civic humanism, piuttosto che sul ducato di Milano, perché definito come uno Stato tirannico, ma sottolinea l’autrice, che il potere che esercitava Ludovico Sforza, non si allontanò nel merito da quello di Lorenzo dei Medici o di Ferdinando I d’Aragona, sovrano di Napoli.
Per scrivere la monografia, l’Autrice ha dovuto vagliare, analizzare e selezionare una miriade di fonti narrative e documentarie. Quest’ultime già editate in diverse edizioni a stampa, come i dispacci degli ambasciatori degli stati italiani nel ducato di Milano. Per le fonti narrative sono state invece utilizzate la biografia di Bernardino Corio, uomo di corte di Ludovico Sforza, i Diarii di Marin Sanudo e la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini. La struttura del testo è cronologica, divisa in nove capitoli: il primo e il settimo racchiudono le vicissitudini biografiche del protagonista. Gli due ultimi capitoli sono tematici. L’ottavo è dedicato alla politica finanziaria ed economica del ducato, l’ultimo invece alla politica culturale e artistica della corte ludoviciana.
Sin dalle prime pagine del saggio, l’Autrice mette in evidenza di quanto la vita di un membro della famiglia Sforza fosse strettamente legato alla politica statuale. Emblematico fu infatti la scelta da parte del padre, Francesco Sforza, di chiamare Ludovico Charles, in onore del figlio dell’allora sovrano francese Luigi XI, futuro Carlo VIII, che però trovò il diniego di sua moglie, Bianca Maria Visconti. Scelta dell’onomastica che andava letta come una chiara alleanza degli Sforza alla casata francese degli Angiò. Alleanza che però vedeva il Ducato milanese come paria della Francia.
Lo studio di Corini ha il merito di mettere in evidenza l’influenza che ebbe il regno di Napoli nel tentare di influenzare le dinamiche interne del Ducato di Milano. Tentativi di influenzare le dinamiche del ducato che sono state analizzate in diverse occasioni dall’autrice, come la volontà di Ferdinando I d’Aragona, il sovrano di Napoli, che tentò di interferire nella successione interna dopo la morte del duca Galeazzo Maria, avvenuta il 26 dicembre del 1476 e che seguì la reggenza della vedova Bona di Savoia per conto di suo figlio Gian Galeazzo Maria, legittimo erede del Ducato, che all’epoca dei fatti aveva otto anni. Il sovrano napoletano preferiva però una soluzione di tipo federale, ovvero una divisione del Ducato milanese ai fratelli del duca e non al legittimo erede.
Lo stesso Ferdinando I fu determinante per consegnare la luogotenenza a Ludovico a Milano dopo una serie di azioni politiche, diplomatiche e militari, come avvenne in occasione della Congiura dei Pazzi nel 1478: «Molte delle vicende italiane e dei conflitti in corso erano conseguenza delle ambizioni di Ferrante d’Aragona il quale, non più frenato da Galeazzo Maria Sforza e trovando una sponda nei progetti nepotistici di Sisto IV a favore dei nipoti Riario e Della Rovere, aspirava a condizionare la politica italiana…» (p. 46).
Una volta che Ludovico ottenne la reggenza di Milano, si presentò come un alleato strategico del sovrano napoletano proprio perché quest’ultimo era stato determinante per la sua reggenza del ducato milanese. Ma nel corso degli anni i rapporti tra Ludovico e Ferdinando si deteriorano, come spiega l’autrice con dovizia di particolari. Deterioramento dei rapporti che furono una confusa della successiva impresa francese in Italia del 1494, preventivamente auspicata e incoraggiata dallo stesso Ludovico, perché preoccupato da quanto si vociferava nelle corti italiane, ovvero che Isabella d’Aragona tentava di «indurre Alfonso di Calabria, guerriero e comandante risoluto, a prendere le armi contro Milano per ripristinare il giovane duca (Gian Galeazzo Maria) e togliere il potere al luogotenente, e persino temeva che i napoletani si coalizzassero con i francesi, nonostante i trascorsi tutt’altro che amichevoli» (p. 141).
Ludovico, che già dal 1492 inviò delle legazioni dirette alla corte di Carlo VIII per premere e sollecitare un’azione militare contro il regno napoletano. Ambasciate che si rivelarono fruttuose perché andavano ad inserirsi nella volontà di Carlo VIII di compiere una spedizione nel regno di Napoli per ripristinarvi la dinastia angioina: «il re ascoltava i consiglieri contrari, e si convinceva delle loro ragioni, ma poi l’attrattiva italiana era troppo forte e infine prevalse il partito più incline alla guerra, nel quale c’erano anche esuli napoletani e italiani» (p. 142).
L’Autrice non si esima dal tracciare il bilancio sulle responsabilità attribuite a Ludovico Sforza già dai suoi contemporanei. Secondo la sua sintesi l’errore di Ludovico Sforza fu quella di ragionare secondo i morali concettuali e morali della politica estera italiana del Quattrocento, fondati sulla consuetudine di attuazione delle operazioni militari come una prima fase per poi, successivamente, avviare i negoziati tra le parti belligeranti. Concetti che però non si confacevano con quelli degli Stati prealpini, come la Francia, che attuava una politica militare completamente nuova per gli Stati italiani preunitari dell’epoca, quella di attuare la guerra totale come unico metro per risolvere le controversie politiche. Per addurre ciò Covini prende in esame diverse opere storiografiche sopra citate, come le opere storiografiche del Corio, Guicciardini e di Marin Sanudo, analizzate in parallelo con i dispacci degli ambasciatori milanesi, come l’ambasciatore milanese Carlo Barbiano di Belgioioso, che nel 1494 si trovava presso l’ambasciatore presso la corte francese, il quale avvertiva Ludovico che una calata in Italia dell’esercito francese fosse imminente e che sarebbe stata drammatica per la sopravvivenza del ducato di Milano e dello stesso Ludovico, dispacci che però Ludovico ignorò. La politica diplomatica di Ludovico si rivelò quindi disastrosa, sia per gli Stati italiani che per se stesso, infatti con la seconda invasione francese nel 1499 da parte del nuovo sovrano Luigi XII, fu determinante per porre fine alla sua parabola di uomo di Stato.