Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Il temine greco κληρος, «sorte, eredità» e successivamente «parte scelta dei fedeli»[1], designava, all’interno delle prime comunità cristiane, la totalità dei credenti[2]. Da qui, ovviamente, lo sviluppo e la diffusione del termine dotto latino cleru(m) e il conseguente clericus. A partire dal III secolo, però, tale denominazione fu riservata solo al gruppo di coloro che avessero ricevuto almeno il diaconato[3]. Da questo momento, dunque, è necessario distinguere il clericus da chi, seppur devoto, non aveva ricevuto alcun grado nell’ordine sacro. Per questi, si diffuse la denominazione latina laicus. Anch’essa è una voce dotta e la sua diffusione è documentata sin dai tempi di Tertulliano. Come clericus, è un prestito dal greco: λαϊκός, «proprio del popolo»[4]. Sin dalle sue origini, dunque, il termine laicus connota il suo significato in negativo, come non clericus, ed è proprio in questa accezione che viene usato nel corso del Medioevo[5].

Contestualmente, però, laicus acquisisce anche un’altra sfumatura di significato: quella di illitteratus. Questo uso denigratorio del termine nasce, ovviamente, in ambiente clericale e dotto, e permane fino al XIV-XV secolo[6]. Il pregiudizio sull’ignoranza del laicus è più che giustificato, in verità.

Dopo il crollo dell’Impero d’Occidente, infatti, il peso dell’istruzione ricadde quasi completamente sulla Chiesa, nel quasi totale disinteresse dei regni germanici che si formarono – salvo poche eccezioni, come il sud della Francia e l’Italia, dove l’impianto imperiale era più solido ed era riuscito a preservarsi meglio, anche in seno alle nuove dominazioni[7].

Per un lungo periodo, la Chiesa dovette concentrarsi principalmente sulla formazione interna di preti e di monaci, in modo da fornire loro le basi culturali necessarie per officiare il culto[8]. Questo, ovviamente, fece sì che gli studenti delle scuole monastiche o episcopali fossero, inizialmente, quasi totalmente chierici. Prime aperture significative laiche si ebbero a seguito dell’VIII secolo, nel periodo della «rinascita carolina», con i nobili franchi che cominciarono ad affidare l’istruzione dei figli a scuole monastiche o a pedagoghi chiamati a corte[9]. La Chiesa, dunque, restò la principale responsabile dell’educazione e riuscì a occuparsi, in linea di massima, dell’istruzione del clero stesso e delle classi dirigenti. Questo non vuol dire che le scuole fossero precluse ad altri tipi di utenza, si badi bene: nelle città vi erano le scuole capitolari, le cui attività, però, sono difficilmente documentabili almeno fino all’VIII-IX secolo[10]. Nelle campagne, già a partire dal VI secolo, si rivelò necessario operare una forte opera di evangelizzazione, a causa delle tradizioni e credenze pagane che erano ancora in auge in quei luoghi. Per questo, sorsero diverse scuole rurali, il cui mantenimento era però molto difficoltoso. Inoltre, con molta probabilità, erano più centri di catechismo che vere e proprie scuole[11].

La situazione mutò a partire dall’XI secolo, con la ripresa economica e sociale dei centri urbani, che segnò un aumento di importanza delle scuole capitolari[12] e un conseguente aumento degli scolari laici[13]. Questo fece aumentare significamente il livello di alfabetizzazione nei centri cittadini più grandi, mentre non cambiò la situazione nei piccoli borghi e nelle zone rurali, in cui rimaneva carente pure la preparazione dei magistri[14].

In generale, l’interesse didattico del laicus aveva una natura diversa, rispetto a quella del clericus, nonché, ovviamente, altre finalità. Era prediletta, infatti, una concezione più «pratica» dello studio, che trovava più interesse nell’imparare l’arte della scrittura o, in alcuni casi, nell’approfondire discipline che permettessero sbocchi professionali specifici, come il Diritto[15]. Questo poneva ancora una significativa disparità tra la cultura del laicus e quella del clericus; solo questi ultimi, infatti, nel corso dell’Alto Medioevo, percorrevano integralmente tutto il percorso didattico delle artes liberales, indispensabile per adempiere allo studio della scienza al tempo più rilevante: la teologia[16]. Tale discrimine si avverte anche da un punto di vista linguisco: per tutto l’Alto Medioevo, il clericus è colui che utilizza il sermo scolasticus, ovvero il latino, che si contrappone al volgare, chiamato sermo rusticus o sermo laicus[17]. Quest’ultima rimase una lingua principalmente orale fin quando l’istruzione non cominciò a estendersi anche in ambienti laici. Infatti, in seno a uno studio parziale e senza finalità di erudizione, si svilupparono inevitabilmente i primi tentativi di scrittura di opere letterarie in volgare, lingua che riusciva ovviamente più facile a questi primi autori rispetto al latino, nonché comprensibile a un più ampio gruppo di uditori o lettori. Fu in questo periodo che si affermarono i primi poemi cavallereschi, tra i quali certo spicca ancora oggi la Chanson de Roland, e agiografie appassionate, spesso accompagnate da musica ed eseguite in pubblico. Le prime prove letterarie in volgare, dunque, svilupparono temi bellici e religiosi. A partire dal XII secolo si diffuse e prese il sopravvento un altro tema storicamente caro ad autori e pubblico, ovvero l’amore, grazie alle poesie dei trovatori e, successivamente, ai romanzi cortesi del nord della Francia.

È l’insieme di queste opere, lontane da sensibilità e formalismi classici, a sancire l’inizio della letteratura moderna. Questo fatto stimola inevitabilmente delle riflessioni: da una parte, il rifiorire di una letteratura vitale e vigorosa è direttamente collegata a un aumento della popolazione scolarizzata; dall’altra, queste produzioni non sono frutto della fascia più erudita della popolazione, bensì di quella che diremmo fascia «media», composta da laici o chierici minori che avevano affrontato studi incompleti o ben settorializzati.

E non si pensi che tali produzioni potessero interessare solo la parte laica della società, o solamente la parte meno istruita della popolazione: vi sono diverse prove del fatto che gli stessi chierici non ignoravano le poesie trobadoriche o le chanson de geste, anche perché molti di loro venivano dal mondo delle corti e della cavalleria. Riflettendo sulla cultura monastica e laica ai tempi di Bernardo di Clairvaux, il noto studioso Jean Leclercq scrive:

È noto che molti dei monaci di Clairvaux, al tempo di Bernardo, erano stati cavalieri, addestrati alle armi, versati nella letteratura cortese e a conoscenza dei romanzi cavallereschi. Ma qualunque fosse la loro origine sociale, essi erano figli della loro epoca e così, in maggiore o minor misura, conoscevano – e subivano l’influenza – delle canzoni e dei racconti del momento[18].

Successivamente, ricorda un episodio esemplare, avvenuto verso la fine del XII secolo e narrato da Cesario di Heisterbach, in cui un monaco cistercense, nel corso di un sermone, ottiene nuovamente l’attenzione dei monaci annoiati e distratti citando loro le imprese e le avventure di re Artù[19]. Neanche i dotti universitari, nel corso del XII secolo, si sottrassero alla fruizione di queste opere; anzi, alcuni presero parte pure alla produzione: si prenda Pietro Abelardo, una delle figure più importanti e controverse di quel periodo. Nella sua Historia calamitatum, il logico afferma di aver scritto diverse canzoni d’amore famose in molti paesi – di cui, però, non ci è rimasta traccia alcuna; nelle epistole scambiate con l’amata Eloisa, addirittura, sono riconoscibili molti riferimenti a una letteratura di chiara influenza laica, che hanno ispirato a molti critici parallelismi con il romanzo Erec et Elinde di Chrétien de Troyes[20].

A spiegazione di questo successo trasversale, credo si possa chiamare in causa la straordinaria capacità di questi autori di intercettare lo spirito del loro tempo con spontaneità e vitalità sorprendenti. Questi iniziatori della nostra tradizione letteraria cantano ciò che vogliono cantare, narrano ciò che vogliono narrare, e tutto questo coincide felicemente con quel che il pubblico – cortese e no – vuole effettivamente ascoltare. Una volta acquisiti gli strumenti linguistici, il vigore creativo di un immaginario collettivo da troppo tempo rimasto inespresso ha preso il sopravvento sulla cultura libresca ed erudita. In questo caso, dunque, l’importanza della scuola sembra concretizzarsi proprio nell’aver fornito mezzi espressivi adeguati ai poeti, mettendoli in condizione non solo di poter trascrivere i loro componimenti, ma di poter lavorare anche sull’eleganza della forma e sulla musicalità dei versi.

NOTE

[1] M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. Cortelazzo e M. A. Cortelazzo, Zanichelli, Bologna 2024, p. 349.

[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/clero_(Dizionario-di-Storia)/

[3] Ibidem.

[4] M. Cortelazzo, P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, p. 843.

[5] R. Imbach, C. König-Pralog, La sfida laica. Per una nuova storia della filosofia medievale, Carocci, Roma 2016, pp. 38-41.

[6] Ivi, pp. 41-44.

[7] P. Rosso, La scuola nel Medioevo. Secoli VI-XV, Carocci, Roma 2021, pp. 25-29.

[8] Ivi, p. 28.

[9] Ivi, p. 100.

[10] Ivi, pp. 57-58

[11] Ivi, p. 63.

[12] Ivi, p. 43.

[13] Ivi, p. 101.

[14] Ivi, p. 100.

[15] Ivi, pp. 100-101.

[16] Ivi, p. 81.

[17] Ivi, pp. 97-98.

[18] J. Leclercq, I monaci e l’amore nella Francia del XII secolo, Jouvence, Milano 2014, p. 115.

[19] Ivi, pp. 116-117.

[20] F. Zambon, Introduzione generale a La mistica cristiana, Mondadori, Milano 2020, vol. I, pp. XIII-XIV. Come afferma sempre Zambon in nota, nelle pagine segnalate, il problema attributivo delle epistole non ha ripercussioni sul discorso generale. Anche se si trattasse di un falso, infatti, testimonierebbe comunque la diffusione, in ambito alto, della letteratura amorosa. 

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