Claudio Capo (1995) è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXIX ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma e laureando in Scienze Filosofiche presso l’Università Roma Tre. Si è laureato nel 2022 in Antropologia culturale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Le sue ricerche si focalizzano sul socialismo rivoluzionario italiano della prima metà del Novecento. I suoi interessi principali concernono l’analisi storico-filosofica delle forme spirituali, culturali e sociali dalla modernità alla contemporaneità. Ha pubblicato diversi contributi presso il mensile di attualità metapolitiche «Diorama Letterario».
Recensione a M.A. Napolitano, Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino, Soveria Mannelli 2023 pp. 198, € 18,00.
Con l’inizio delle operazioni militari russe sul territorio ucraino il 24 febbraio del 2022, è tornata prepotentemente alla ribalta l’annosa questione sulla natura dell’Europa quale soggetto politico capace di autodeterminazione. Definita da Sandro Gozi nel volume Il governo dell’Europa (2011) come «relativamente poco sviluppata nel sistema comunitario», l’Unione Europea, nel corso del suo processo di formazione, ha dimostrato vari punti di debolezza. Mario Telò in Dallo Stato all’Europa (2004) individua nel ruolo ancillare del cosiddetto “triangolo istituzionale” nei confronti dell’“egemonia statunitense” il vulnus principale delle istituzioni europee. Infatti, ogni passo in avanti dell’Unione, dall’istituzione dell’OECE il 16 aprile del 1948, fino, appunto, alla crisi russo-ucraina dei giorni nostri, sembra stato patrocinato dagli Stati Uniti per fronteggiare quell’impero del male di reaganiana memoria e proteggere quello che, con le parole dell’attuale Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri Josep Borrell, viene definito il “giardino europeo” dal pericolo dalla “giungla del resto del mondo”.
Facendo un passo indietro di almeno cinquant’anni, mutatis mutandis, la questione sulla centralità o la marginalità politica dell’Europa resta l’elefante nella stanza con cui dover fare i conti. Creazione di uno spazio sovrano, capace di inserirsi nella dialettica tra il blocco atlantico e quello sovietico o accettazione del ruolo guida dell’anglosfera e consolidamento del modello occidentale?
Tra queste due polarità – difficilmente conciliabili nella loro purezza – non sono di certo mancati tentativi di mediazione. L’ottimo lavoro di Matteo Napolitano, Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo (2023), edito per Rubbettino, analizza una famiglia politica che, incaricandosi di tradurre la piattaforma valoriale liberaldemocratica in operatività politica e istituzionale, ha avuto il merito di esprimere delle linee di pensiero significative per i futuri risolti dell’Unione (pp. 14-15). Prima di addentrarci nel cuore del lavoro, una nota particolare va posta sulla serietà e sulla complessità metodologica dello studio: attraverso un intenso lavoro di ricerca bibliografica e di scavo archivistico, Napolitano riesce a superare gli steccati disciplinari e consegna al lettore un’immagine a tuttotondo del fenomeno studiato.
In questa sede, data la densità del volume, si è scelto di porre il focus sul duplice aspetto politico-istituzionale e culturale-ideologico. Procediamo a sondare il primo terreno. Tra gli Accordi di Helsinki del 1975 e la Dichiarazione di Stoccarda del 1983 – alcuni degli eventi periodizzanti dello studio, il Gruppo liberale e democratico (Gld) propone alcune formule che siano in grado di conciliare il principio individualistico degli Stati con una struttura istituzionale sovranazionale in grado di coordinarli in funzione di obiettivi condivisi. Infatti, le preoccupazioni di «costruzione e consolidamento» orientano l’azione politica del Gruppo liberale nel senso di un rafforzamento delle istituzioni comunitarie e di un allargamento dei ranghi in grado di reggere l’impatto con la pressione esercitata dal blocco sovietico. A tal proposito Napolitano cita il Rapporto Tiendemans che, sostenendo la necessità per i paesi europei di presentarsi sullo scacchiere internazionale con un’unica politica estera, indicava la strada per la formazione di un organismo dotato di autorità decisionale.
Se il RT rappresentò, pur nelle difficoltà, un tentativo organico di riforma e di rafforzamento dell’edificio comune europeo, la densa attività del GLD, presa in un’ottica più ampia, mostra come il tema del graduale consolidamento comunitario, alla fine degli anni Settanta, fosse sentito e presente nella grande maggioranza delle proposte del Gruppo sia in sede parlamentare, sia nei momenti di confronto interno (p. 46).
Tuttavia, la creazione del soggetto politico europeo, rapportato alle logiche della Guerra fredda, rimane per lungo tempo un obiettivo problematico e l’impossibilità di far emergere un attore geopolitico “terzaforzista” si presenta alla porta come l’ingombrante convitato di pietra. Anche l’integrazione militare, dossier costantemente aperto sul tavolo dei liberali dopo il fallimento della CED del 1954, viene archiviato con un nulla di fatto: la presenza della NATO ostacola fino ad impedire la nascita di una forza militare esclusivamente europea e continentale.
Per i liberali democratici la creazione di uno spazio politico europeo non andrà mai a significare, con Schmitt, la formazione di un «grande spazio» capace di esprimere un «mutamento delle dimensioni e delle rappresentazioni dello spazio terrestre che domina l’attuale sviluppo della politica mondiale» (C. Schmitt, L’ordinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale con divieto di intervento per potenze estranee, 1941)), bensì una maggiore autonomia all’interno di una dimensione, quella atlantica e occidentale, capace di confermarsi come principale forma di deterrenza nei confronti del blocco sovietico. Tenendo fermo questo punto, per il Gruppo liberale e democratico, la creazione di un’unità europea non significa, de facto, lo sviluppo di un nomos «capace di difendere la propria autonomia dalle aspirazioni espansionistiche degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica» (S. Pietropaoli, Schmitt, 2012)), ma deterrenza al “pericolo rosso” proveniente dall’Est.
Questo punto di snodo ci consente un rapido passaggio alla questione culturale e ideologica; questa sembra contraddistinta da un acceso anticomunismo e da una convinta adesione al modello atlantico e occidentale. Tuttavia, dal punto di vista della forma culturale dell’Unione, Napolitano riporta un’importante dichiarazione dell’allora membro liberale del Parlamento europeo De Gucht nella quale si afferma che «l’unione di per sé non può essere caratterizzata ideologicamente» (p. 142). Sebbene questa considerazione sia ben validata da un certo opportunismo sul piano politico, sul piano culturale, sussistono varie difficoltà a prendere per buona l’affermazione del belga. Infatti, qualora per “caratterizzazione ideologica” volessimo intendere la naturalizzazione di alcune prospettive culturali e, con Gramsci, il “riflesso” di una realtà che si radica nell’apparenza delle cose e ne restituisce un’immagine conforme agli interessi dei detentori del primato dei rapporti di forza – sia sul piano nazionale che internazionale, saremmo costretti ad ammettere un certo portato ideologico del Gld. Infatti, questi anni, sono caratterizzati da un insistente tentativo di trasporre sul piano politico e organizzativo i contenuti emersi nel “decalogo” della Conferenza di Helsinki del 1975, riducibili generalmente sotto il sintagma dei “diritti umani”.
A tal proposito, un esempio messo in mostra da Napolitano è la risoluzione di Russell Johnston, approvata dal Parlamento europeo nella seduta dell’11 maggio del 1977, nella quale, alle dichiarazioni di principio già espresse anni prima nella capitale finlandese, seguivano delle proposte operative. L’effetto positivo che avrebbe dovuto produrre Helsinki sarebbe stato quello di costringere l’Urss a sottoporsi alla pressione costante e vigile di un «controllo internazionale» del rispetto dei diritti umani (p. 53). Il ricorso all’ideologia dei diritti civili – indigesti a Mosca – venne a rappresentare uno strumento con il quale minare le basi dello Stato sovietico alimentandone contraddizioni e frizioni. Se è vero, con Chabod, che «coscienza europea significa infatti differenziazione dell’Europa» (Storia dell’idea di Europa, p. 23), e che il concetto di Europa possa essere definito solo per mutua esclusione dell’estremo opposto, per i liberali l’Europa rappresenta il polo antipodico del bolscevismo.
Per Napolitano, infatti, «la prospettiva dei liberali era dunque definita in un’ottica di tutela complessiva dei diritti e della dignità umana, da portare avanti – tramite le prese di posizione del Parlamento e con la cooperazione politica – in funzione di pressione nel contrasto al comunismo e al livello non solo europeo, ma globale» (p. 54). Le riforme, gli equilibri politici all’insegna del pluralismo, il progresso sociale e la liberalizzazione del mercato si legavano a doppio filo e non potevano prescindere dall’attuazione dell’agenda dei diritti civili dell’uomo. La presidenza di Simone Veil al Parlamento europeo rappresenta il punto di caduta di tutta questa serie di istanze. Infatti, afferma l’Autore, «la Veil vedeva nel rispetto dei diritti dell’uomo non soltanto una questione di alto principio morale o un tratto puramente giuridico, ma un aspetto fondamentale per la sopravvivenza delle democrazie» (p. 115).
In conclusione, durante il “secolo breve”, espressione coniata nell’omonimo saggio di Eric Hobsbawm per indicare quel fazzoletto temporale compreso tra la Grande Guerra e il collasso dell’Unione Sovietica, l’Europa pone al centro delle proprie riflessioni politiche la problematica della società borghese di fronte allo Stato. Lo squilibrio di quegli elementi che Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto del 1821 andrà ad indicare con i termini di società civile (Burgerlichkeit Gesellschaft) e Stato-politico rappresentano, da Rousseau in poi, un problema fondamentale di tutte le moderne teorie politiche e sociali. I liberaldemocratici non fanno eccezione e Matteo Napolitano offre al lettore e allo studioso un’utilissima cartina di tornasole per orientarsi con destrezza in uno scenario molto articolato.
Con l’avvento dei regimi autoritari e totalitari del primo Novecento il processo di democratizzazione liberale conosce una brusca frenata; tuttavia, dal secondo dopoguerra la marcia torna a correre spedita e, con il crollo del muro di Berlino dell’89, si assiste a quell’unificazione politica del mondo occidentale sotto i vessilli della democrazia liberale propiziata dal Gld. L’ottimo lavoro di Napolitano può aiutare a comprendere il processo di ascesa e affermazione del liberalismo europeo incarnato dal Gruppo liberale e democratico, all’insegna di «un’Europa realmente democratica, con un Parlamento “véritablement” rappresentativo, fautrice delle libertà individuali, della libera iniziativa economica e del sostegno vigoroso allo sviluppo; una Comunità non confinata entro i propri limiti territoriali o ridotta a mero strumento commerciale, ma aperta ai problemi delle aree limitrofe e degli altri continenti, in grado di coordinare in modo maggiormente sinergico la difesa all’interno del quadro atlantico e di avere una voce più solida a livello globale» (p. 76). Un libro senz’altro da leggere, rileggere e studiare, sia per il suo tipo di approccio metodologico, che per i suoi contenuti inediti.