Claudio Capo (1995) si è laureato in Scienze e tecniche psicologiche presso l'Università degli Studi G. D’Annunzio (Chieti) e frequenta il corso magistrale di Antropologia culturale ed etnologia all'Università Alma Mater Studiorum di Bologna. I suoi interessi concernono la modernità, la postmodernità e le società tradizionali.

Recensione a: R. Magraw, Il “secolo borghese” in Francia. 1814-1914, Il Mulino, Bologna 1987 (nuova ediz. 1996), pp. 448.

Il notevole lavoro di Roger Magraw, Il “secolo borghese” in Francia (1987), offre un quadro critico e dettagliato della storia francese moderna, dalla Restaurazione allo scoppio della Grande Guerra. Con efficacia vengono messi a frutto i risultati di una ricerca che fa della multidisciplinarietà un valore aggiunto. Il taglio politico-culturale del volume non impedisce all’Autore di servirsi della storia sociale ed economica per tracciare la parabola ascendente che ha portato al trionfo della borghesia. Magraw descrive meticolosamente il processo che, tra continuità e rotture, porta la classe borghese, progressista e capitalista, ad imporsi.

Durante il “secolo borghese” (1814-1914) la società francese è caratterizzata da un’imponente mutamento economico e sociale che ha visto la progressiva affermazione del capitalismo come sistema di riferimento. Il passaggio da un’economia prevalentemente di sussistenza ad una di tipo industriale avviato a fine Settecento favorì il drenaggio delle ricchezze verso il ceto borghese e pauperizzò interi settori della società contadina. Sebbene molte regioni periferiche e rurali sembrassero patire i dolori dello sviluppo capitalistico, la cultura popolare rimase viva. La religione continuò ad essere un elemento dominante nella società contadina e rappresentò un solido argine all’espansione della cultura borghese. Dietro il carattere arcaico delle feste religiose si strutturava una sorta di “resistenza dal basso” che respingeva con vigore la modernizzazione illuminista. L’intrusione di uno Stato burocratico e dichiaratamente anticlericale veniva sentita come una minaccia per la pratica religiosa e per la relativa autonomia della comunità (p. 22).

Dopo aver introdotto con grande dovizia il quadro entro cui si sviluppa la sua indagine, Magraw è abile a mettere in evidenza la relazione biunivoca tra lo “spirito borghese” e il sistema produttivo capitalistico. Per l’Autore, da una parte la Rivoluzione francese liberò le energie necessarie al capitale per organizzarsi autonomamente, dall’altra il capitalismo – prima industriale e poi finanziario – creò i presupposti necessari per l’affermazione della borghesia. I leader della Rivoluzione seppero coniugare questi elementi e diedero vita ad un sistema costituzionale su modello inglese il cui Stato, portando avanti politiche liberali e anticlericali, salvaguardò le conquiste socioeconomiche della borghesia.

Nonostante ciò, le precedenti élite aristocratiche ed ecclesiastiche, che avevano subìto una sconfitta durante la Rivoluzione, non si limitarono ad osservare passivamente gli eventi, ma si rinvigorirono nell’alleanza – specialmente nella regione sudorientale della Francia – con contadini ed artigiani, anch’essi delusi dai nuovi equilibri sociali. Quest’asse approfittò della Restaurazione del 1815 per vendicarsi di un ventennio di umiliazioni; l’escalation delle violenze raggiunse l’apice nel Terrore bianco che vide l’assassinio di centinaia di mercanti, borghesi e protestanti. Magraw afferma che l’aristocrazia, legandosi al populismo anticapitalistico e richiamandosi all’antica religiosità popolare, riuscì a conquistare un largo sostegno popolare e a riequilibrare momentaneamente i rapporti di forza con la “classe borghese”. Tuttavia, nonostante nobiltà e clero riuscirono a riconquistare parte del loro potere politico ed economico, che avevano perso durante la Rivoluzione, non riuscirono a scalzare definitivamente la borghesia, che continuò a giocare un ruolo di primo piano nella società francese.

Dopo un periodo di sostanziale equilibrio, la Rivoluzione dei «carrieristi frustrati» (p. 38) del 1830 completò il processo iniziato nel 1789 e permise ai borghesi di ottenere il pieno controllo sullo Stato. Dopo aver rovesciato l’ultimo sovrano Borbone, venne istituita la Monarchia di luglio, che rappresentò un compromesso tra le forze borghesi, liberali e repubblicane e quelle conservatrici e realiste. La natura del regime orleanista, della cosiddetta «Monarchia borghese» (p. 47), è estremamente contraddittoria. Per Magraw, a ragione, il compromesso fu una farsa. Infatti, dietro un’apparente dialettica pluralista si nascondeva l’interesse predominante della “classe borghese”. In altre parole, la Monarchia di luglio rappresentò un’importante vittoria per la borghesia francese, che riuscì a mascherare il proprio potere politico ed economico sulla scena nazionale, consolidandosi. E i fatti non smentiscono l’Autore. Le riforme sociali tra il 1832-42 furono eloquenti: allentamento delle leggi sulla bancarotta, l’ammorbidimento del controllo statale, dura repressione degli scioperi, controllo dei salari e promozione della concorrenzialità tra gli operai, inasprimento leggi antisindacali. Il governo Guizot (1840-48) incarna alla perfezione lo Zeitgeist. La matrice ideologica del primo ministro francese era fortemente intrisa di rigido calvinismo: «I pigri e gli stupidi non prosperavano. Nessuna comprensione per i problemi degli operai» (p. 63).

Nella seconda metà dell’Ottocento, l’aumento del capitale economico e sociale della “classe borghese” suscitò forti reazioni che spaziarono dai letterati agli operai. Stendhal, nel romanzo Lucien Leuwen (rimasto incompiuto per via della censura), rifiutò di idealizzare l’“eroe borghese” poiché, nel mondo capitalistico standardizzato, l’autenticità sembrava essere irrealizzabile. Balzac, con César Birotteau, dipinse una borghesia segnata dall’avidità e dall’egoismo (p. 86). L’Argent di Émile Zola avrebbe poi mostrato nel 1891 una religione il cui tempio era la borsa, i sacerdoti i borghesi e il gioco finanziario la liturgia attraverso cui l’ethos capitalistico si impose come nuova evangelizzazione (p. 173). In molte città si registrarono importanti tumulti. Il 1848 rappresentò un periodo di grandi agitazioni politiche, dominato dalla lotta degli operai per abbattere il governo liberalcapitalista e istituire una repubblica sociale. Tuttavia, le speranze dei socialisti e dei contadini furono spezzate nel 1852 con l’avvento della “dittatura modernizzante” (p. 169) di Luigi Napoleone, che ristabilì l’ordine borghese.

Modernizzazione e crescita economica vennero viste come rimedio all’instabilità politica e alla pacificazione sociale. La legislazione che regolava le imprese industriali si fece sempre più liberale e avvantaggiò, più di prima, l’espansione dei grandi capitali. Il trionfo della Repubblica era essenzialmente il trionfo dei settori più progressisti, flessibili e strategicamente intelligenti del capitalismo. La Repubblica si presentava all’opinione generale come un connubio naturale tra capitalisti utili e produttivi, le nouvelles couches in ascesa e le aspirazioni delle masse piccolo-borghesi (p. 229). Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant, insomma.

A seguito della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana e della conseguente caduta di Luigi Napoleone, venne istituita la Comune di Parigi, un governo rivoluzionario guidato da socialisti e radicali. Tuttavia la Comune fu repressa brutalmente nel sangue dalle forze governative. Successivamente venne varata una nuova Costituzione. Con la proclamazione della Terza Repubblica nel 1870, la “classe borghese” concesse una più larga democratizzazione della vita politica al fine di stemperare gli animi delle masse recalcitranti. Tuttavia, afferma Magraw, la grande borghesia sopravvisse alla “svolta democratica” senza subire un graffio, anzi. L’Autore fa notare come il patrimonio medio del mercante o del banchiere parigino aumentò del 650 percento mentre quello del piccolo negoziante tendeva a ritrarsi (p. 405). Dopo aver ammansito gli operai, la “classe borghese” lavorò per creare un’omogenizzazione morale ed intellettuale per sradicare definitivamente ogni sussulto rivoluzionario. Potendo contare su un accesso esclusivo e incondizionato nelle Grandes écoles e sul sostegno di una stampa notoriamente venale, il programma pedagogico della borghesia francese ebbe modo di istituzionalizzarsi. Presentando la Repubblica come la realizzazione delle idee dell’Ottantanove, vennero dispensati valori mercantili preconfezionati. L’istituzione laica assumeva il ruolo di un nuovo “oppio dei popoli”, ma più sofisticato. Magraw definisce questo processo di “civilizzazione” come una specie di «colonialismo interno» (p. 354) nel quale le tradizioni, i costumi, le credenze, le lingue e le idee estranee alle cultura borghese vennero trattate con disprezzo. Insomma, la battaglia per la Civilisation che veniva combattuta con durezza nelle colonie, si combatté anche in Patria. Ma le resistenze antiborghesi e anticapitaliste furono dure da fiaccare e attraversarono la soglia del 1900.

Socialisti come Malon e Chirac continuavano la tradizione di Proudhon e Blanqui, associando l’usura al capitale finanziario, dichiararono guerra senza frontiere alla borghesia che, dominando i ministeri, l’industria e le scuole, trattava i francesi come “una mandria di vacche da mungere” (p. 289). Figure come Biétry, Sorel e Valois tentarono di unire un socialismo fatto di solidarietà di classe, sindacalismo, avversione all’elettoralismo parlamentare, disprezzo del conformismo materialista con un’audace rifiuto del nazionalismo borghese di destra della Ligue de le Patriote François, incoraggiando i proletari e gli operai a collaborare con i sindacalisti, lottando insieme agli scioperanti contro lo Stato borghese (p. 306). Janvion in Terre libre sosteneva che la Repubblica sfruttava i lavoratori e invitava questi a rivoltarsi contro. L’atteggiamento dei lavoratori nei confronti della Terza Repubblica era chiaro: la maggioranza di questi lo giudicavano come un regime capitalistico nel quale, dietro una facciata di democrazia parlamentare e di discorsi progressisti, continuava a dominare una ristretta cricca (p. 311).

In conclusione, il volume di Magraw illustra chiaramente e con estrema precisione come, durante il siècle bourgeois, il dominio delle élite borghesi riuscì ad affermarsi sull’alternanza tra capitale economico e capitale sociale. La capacità di diffondere valori capitalistici e mercantili – la famosa “etica manchesteriana” di cui parlò Sombart – tra i vasti ceti della società, fu lo strumento adatto per creare egemonia culturale. Agli albori del 1900, il modello del Bon Marché, l’ostentazione delle apparenze, la celebrazione del materialismo e l’incoraggiamento delle fantasie di consumo piccolo-borghesi, rendevano i “grandi magazzini” in simbolo dell’egemonia borghese della Belle époque (p. 408). Sebbene nel corso del XIX secolo il dominio della borghesia fu messo più volte in discussione, il XX secolo si apriva con l’affermazione dei valori capitalistici. Solo nell’agosto del 1914 qualcosa sembrò tentennare, ma questa è un’altra storia.

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