Claudio Capo (1995) si è laureato in Scienze e tecniche psicologiche presso l'Università degli Studi G. D’Annunzio (Chieti) e frequenta il corso magistrale di Antropologia culturale ed etnologia all'Università Alma Mater Studiorum di Bologna. I suoi interessi concernono la modernità, la postmodernità e le società tradizionali.

Recensione a: S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, vol. II, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 548, € 30,00.

Si è già visto come Il pensiero storico classico sia un’opera capace di aprire nuove prospettive di lettura dei grandi storici dell’antichità. Attraverso una continua riflessione sui momenti di crisi nella storiografia antica, Mazzarino tenta di superare lo storicismo evoluzionistico degli anni Quaranta e l’atteggiamento estremamente “razionalizzante” della prima modernità. Per Mazzarino è la questione metodologica che dev’essere sempre sollevata nell’indagine storica.

La critica mazzariniana mette in luce un’aporia: la razionalità del sillogismo si muove in maniera retta. Se le vicende umane fossero tutte improntate sul sillogismo, questa linea dovrebbe confermarsi sempre. La storia di impianto razionalista ha sempre creduto di poter indicare in modo predittivo la retta, le direzioni e le forze in campo. L’opera del Mazzarino respinge tout court questa prospettiva, frena gli entusiasmi e spinge verso una meditazione profonda capace di ridiscutere tutto l’impianto storiografico moderno.

Mentre il primo volume è uno studio sul pensiero greco classico, il secondo costituisce un riesame della tradizione storiografica latina. Un solo capitolo, il IV (Dagli alexandrografi ai cesariani), compone il volume oggetto di attenzioni. Mazzarino riprende i motivi del primo volume e aggiunge, come tema dominante, il rapporto tra la storiografia ellenistica e il pensiero storico romano fino all’età cesariana, studiandolo e discutendolo negli aspetti mitico-religiosi e sociopolitici. Prima di continuare questa presentazione, è necessario tener presente come tutta la Repubblica romana sia vista da Mazzarino come un capitolo (seppur eminentissimo) del mondo ellenico (p. 153).

Il pensiero storico nasce dalla grecità classica e, perciò, l’età ellenistica si muove entro i presupposti di sintesi tracciati dalla classicità. A conferma di questa tendenza, il caso di Alessandro è emblematico: mito e storia sembrano confondersi. Con le imprese del giovane condottiero macedone il mondo mitico viene posto di nuovo in auge. Mazzarino rinviene nella “mitistoria” di Alessandro, presentata soprattutto nell’opera di Ctesia, permeata di tradizioni orientali e greche, un tentativo di reviviscenza dei motivi erodotei (pp. 20-27). L’epoca alessandrina condusse il pensiero antico ad un definitivo bilanciamento delle sue possibilità critiche. Da una parte, la necessità di gettar via tutto il mito per favorire la tradizione “veridica” (pragmatica) sulle imprese di Alessandro, dall’altra la realizzazione dell’impossibilità di recidere di netto il legame con il mito. Il dionisiaco mondo di Alessandro non rinuncia alle immagini del mito: «Non era possibile cancellare dalle carte la città del dio Dioniso, Nysa, perché l’impresa di Alessandro si confrontava con quella di Dioniso stesso; e si credette di trovare Nysa» (p. 26).

Nuovi tematiche appaiono al contatto tra Roma e l’Ellade, in particolar modo tra il III e il II secolo: la “grecità” dell’Urbe. La scuola aristotelica immaginò fin da subito Roma come una città «greca da parte degli uomini, troiana da parte delle donne» – e il confronto fra essa e Alessandro suggerito da Clitarco (pp. 54-59). Viene a delinearsi, così, un nuovo modello di riferimento al quale sarebbe seguito un immediato riflesso nell’azione politica: l’uomo Alessandro e la città di Roma. Un altro tema che appare nel confronto tra Roma e la storiografia greca è quello della differenza tra «grecità tragica» e «religio romana». Mazzarino nota come la nobiltà romana non ha mai avuto con gli dèi quel confidente rapporto di discendenza mitica proprio dell’aristocrazia greca (p. 60). Più che su una loro discendenza dagli dèi, i nobili romani insistono sulla loro origine da avi illustri, le cui laudationes funebres erano i grandi ricordi di famiglia. Il rapporto che i romani intrattengono con gli dèi sposta decisamente il centro spirituale del mondo antico: dalla tragedia del mito al rituale della religio. Ancora una volta riaffiora il “marchio di fabbrica” dell’opera del Mazzarino: i rapporti di forza vengono stabiliti dall’intervento di fattori metafisici, non condizionati ma condizionanti.

Proseguendo verso il II secolo, e rimanendo sulle tracce dell’azione della religio, viene introdotta una figura essenziale: quella di Polibio. Secondo le sue Storie, la vera fortuna in campo politico e culturale, con cui i romani riescono a ridurre sotto il loro dominio quasi tutta l’oikuméne, è appunto il concetto di religio. Polibio ritiene che la scrupolosità in materia religiosa (deisidaimonia), vissuta fino all’ansia angosciosa, rappresenti un eccezionale strumento di potere, per mezzo del quale le classi dirigenti tenevano a freno il popolo:

I romani hanno inoltre concezioni di gran lunga preferibili nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo serve in Roma a mantenere unito lo Stato (Polibio, Storie, VI, 56).

Naturalmente, commenta Mazzarino, la religiosità romana è un’espressione di vita ben più immediata e penetrante rispetto a quel che Polibio pensasse, riducendola ad un instrumentum regni (p. 116).

In Polibio troviamo, inoltre, i concetti di “rovina” (phthora) e “cambiamento” (metabolé) e delle cause esterne ed interne a cui questi si riconducono. La riflessione sulla nascita e morte delle cose umane e dell’eternità del cosmo – vecchio problema sul cui terreno si erano scontrati pitagorici e aristotelici, atomisti e stoici – viene traslata sul piano politico. Due sono i modi in cui ogni tipo di costituzione suole perire: un modo è la rovina che viene dall’esterno, l’altro, viceversa, è la crisi interna; difficile a prevedersi il primo, preordinato il secondo. Questa preordinata fine di Roma viene indicata da Polibio nella rivoluzione delle masse cittadine dalla quale ha origine il «cambiamento in peggio» (p. 130-136). In virtù dell’identificazione tra “rovina” e “cambiamento”, la società che Polibio ammira è dunque quella dei nobili, alla quale contrappone il minaccioso demos, di cui preannuncia, e teme, una vittoria (l’ochlokratia, “dominio della massa”).

Se la figura di Polibio illustra l’anima aristocratica della Roma del II secolo, d’altra parte possiamo farci un’idea di una certa “democrazia” sfogliando le pagine di Rhetorica ad Herennium nel quale viene riportato un «patetico profilo di storia dei martiri democratici» (IV, 31). Opere di retorica come queste conducono i romani a riprodurre quella posizione teoretica che era stata propria del pensiero storico greco nell’età sofistica. Lungo questa opposizione ideale nasce, e si sviluppa, la figura di Cesare che, nonostante l’adesione alla fazione dei populares, non si identificava con gli ideali che voci come quelle di Tiberio e Gaio Gracco avevano espresso precedentemente. La progressiva “sdemocratizzazione” di Cesare tra il 63 e il 65 a. C., la svolta del Bellum civile, rappresenta il radicale sopravvento di un realismo politico capace di cancellare gli schemi del pensiero storico democratico. Insomma, la filosofia cesariana è volta verso una libertà d’azione del singolo a prescindere dalle istituzioni repubblicane e dai “partiti”. La rivoluzione democratica era fallita, la “conservazione” aristocratica anche, entrambe destinate a cedere il posto a un dominio personale, fondato su un nuovo equilibrio delle classi dirigenti. Cesare sa riassumere in sé ciò che di più moderno c’era al suo tempo, dando prova del suo ingegno. Un ritorno ad Alessandro che, attualissimo a Roma per lo meno dalla metà del II secolo, si accorda con la benevolenza e la protezione degli dèi.

Tuttavia, sebbene Cesare sembri ripercorrere le tappe del macedone, tra i due c’è una differenza sostanziale. A differenza del giovane Alessandro, Cesare – pur non essendo del tutto impermeabile al mito – non prende le mosse da una concezione mitica della vita, ma si rifà ad un’idea razionale dell’uomo e della storia: distingue, come Tucidide, tra la calcolata deliberazione e lo scrupolo religioso (p. 199). Ciononostante, in lui appaiono le stesse condizioni di sintesi presenti in Alessandro.

Più avanti Mazzarino riconosce nell’esaltazione del “giusto mezzo” il concetto basilare del buon governo, secondo la storiografia romana ispiratasi all’ideale della concordia ordinum – riassunta proprio in Cesare (p. 313). Egli nota come la valutazione della personalità in rapporto alle virtù morali e politiche sia il criterio conduttore del pensiero storico romano. La storiografia romana propriamente detta si è formata su due componenti principali: gli exempla a-temporali, da un lato, la serie annalistica di avvenimenti “immersa” nel tempo, dall’altro. La fusione di entrambi questi motivi consente alla storiografia romana di rendersi autonoma da quella ellenica nell’età imperiale (p. 325).

Il tomo si chiude con un paragrafo che è, di fatto, un’introduzione all’età cristiana (pp. 470-492). Pur ammettendo che l’età cristiana resta, in certo senso, fuori dei limiti di una storia della storiografia classica, pur facendo terminare con Plotino il pensiero pagano d’età imperiale, nella sua espressione più caratteristica, Mazzarino è costretto ad ammettere che il pensiero cristiano si snoda da quello classico e ne acquisisce delle traiettorie già ampiamente consolidate. Mazzarino sottolinea l’introduzione di un nuovo senso del tempo durante l’età cristiana, differente qualitativamente dal precedente, ma non è disposto a risolvere in una formula di mutua esclusione la classicità rispetto alla nuova età cristiana. Tuttavia, la radicale differenza tra il pensiero ellenistico-romano e quello della dottrina cristiana, a detta dello storico catanese, è che i pensatori pagani, sono più o meno coscienti della diversa gradazione di certezza fra tempo storico e tempo mitico, laddove i pensatori cristiani abolivano le differenze in funzione della certezza per fede (p. 476).

Mazzarino conclude la sua ricerca evidenziando come i modi di rappresentazione della storia siano concepiti come somma, o se mai connessione, di varie storie, ognuna secondo il suo filum temporale (p. 491). Forte di quest’idea, Mazzarino ritiene del tutto impossibile approssimare ad uno schema generale l’intero corso storico. Tuttavia, la profonda ragione di trovare un evidente telos alla storia (o alle storie?) si lega a doppio filo con la ricerca di quel cronotopo capace di risolverla. Ma la posta in gioco è alta, altissima, e il pericolo di far confusione è sempre dietro l’angolo.

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