Federico Magi si è laureato in Scienze dell’educazione alla Pontifica Università Auxilium con una tesi sul fondatore dell’Antroposofia Rudolf Steiner. Nel 2006 consegue l’attestato in critica cinematografica alla scuola di cinema “Sentieri Selvaggi” e nel 2009 supera l’esame da giornalista pubblicista. Ha collaborato col "Secolo d’Italia" e con alcune riviste occupandosi quasi esclusivamente di critica cinematografica e letteraria. Attualmente è educatore e redattore del portale di critica letteraria Lankenauta.
Sembra ieri, ma è ormai trascorso quasi un quarto di secolo dalla morte dell’artista forse più amato e celebrato della musica leggera italiana. Lucio Battisti se ne andò in una giornata uggiosa di settembre del 1998, quando era oramai lontano dall’Italia sotto ogni punto di vista: lontano dalle scene, dalla gente, da quella ribalta mediatica che il suo carattere un po’ schivo e riservato non gli aveva mai fatto amare veramente. Battisti aveva scelto di scomparire continuando però a far musica. I più lo ricordano per il fortunato sodalizio con Mogol, che negli anni Settanta partorì indubbi capolavori; canzoni che, a distanza di mezzo secolo, non hanno perso quel fascino che qualcuno, al tempo, definì nazional-popolare, quasi a volerne sminuire l’intrinseco valore. Erano anni in cui la canzone d’impegno politico e sociale imperversava, e cantare “le bionde trecce gli occhi azzurri e poi, le tue calzette rosse” non godeva dello stesso credito, presso l’intellighenzia culturale del tempo rispetto a comporre versi come “contro i re e i tiranni scoppiava nella via la bomba proletaria, e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia”.
Al di là delle inevitabili connotazioni politiche – furono ritenute dai “critici illuminati” canzoni di destra –, cui anche la musica del duo Battisti-Mogol andò incontro, la collaborazione tra i due artisti diede vita a vere e proprie perle destinate a rimanere nell’immaginario di un popolo intero. Inutile fare il lungo elenco, ma canzoni come I giardini di marzo, Il mio canto libero o La luce dell’est hanno uno spessore, anche testuale, difficilmente avvicinabile anche dai grandi cantautori dell’epoca. In pochi forse considerarono Battisti artista a tuttotondo, e ciò suona davvero singolare a ragionarci oggi, proprio perché il cantautore di Poggio Bustone era un polistrumentista con pochi eguali non solo nel ristretto ambito della musica italiana, ma anche, estendendo la visuale senza paraocchi, nell’intero panorama europeo. A conferma di ciò restano, in particolare, le parole di David Bowie, che lo definì, senza tanti giri di parole, il migliore in assoluto. Ma anche non volendo dar troppo credito al Duca Bianco ci sono le riletture e le reinterpretazioni dei suoi brani, i numerosi attestati di stima che sono arrivati, negli anni, dai luoghi più disparati e lontani della Penisola.
Nel 1980 Lucio Battisti interruppe bruscamente, agli occhi dei più, la collaborazione con Mogol. Fu come un fulmine a ciel sereno per la folta schiera di appassionati. In più l’artista di Poggio Bustone aveva ormai scelto di eclissarsi dalle scene. La sua ultima dichiarazione pubblica fu lapidaria, non dette adito a dubbi o a possibili ripensamenti di sorta: «Tutto mi spinge verso una totale ridefinizione della mia attività professionale. In breve tempo ho conseguito un successo di pubblico ragguardevole. Per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mète artistiche, di nuovi stimoli professionali: devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più perché un artista deve comunicare solo per mezzo del suo lavoro. L’artista non esiste. Esiste la sua arte». A leggere queste parole col senno di poi già si possono scorgere le tracce del Battisti che verrà, ovvero la rivoluzionaria collaborazione col paroliere Pasquale Panella, un viaggio che ancora oggi resta unico e difficilmente ripetibile, l’ultima vera avanguardia che la musica italiana ricordi. Prima di ciò, però, il cantautore laziale scelse di concedersi una parentesi artistica familiare, se così la si può definire, collaborando con la moglie Grazia Letizia Veronese ai testi dell’album E già (1982), disco totalmente elettronico dalle melodie essenziali del cui Battisti che si ricordava resta sostanzialmente solo la voce. E già, pur non segnalandosi come opera memorabile, segna una prima rilevante rottura col passato e contiene importanti tracce del notevole cambiamento artistico che avverrà negli anni successivi.
Dopo altri quattro anni di silenzio, nei quali il nome di Lucio Battisti sembra ormai risuonare come un’eco lontana in via di dissoluzione, ecco arrivare nei negozi di dischi Don Giovanni (1986), prima collaborazione di Lucio col poeta e paroliere Pasquale Panella, conosciuto tre anni prima grazie alla comune collaborazione all’album Oh! Era ora, di Adriano Pappalardo. Al primo impatto con le otto tracce del disco, sia i critici musicali che i nostalgici e appassionati dell’era Mogol o anche i semplici fruitori occasionali, ebbero tutti o quasi la medesima sensazione di disorientamento e incredulità rispetto a ciò che le loro orecchie percepirono. E stavolta non fu tanto la musica, la cui componente elettronica risultò peraltro meno preminente rispetto a E già, quanto i testi a sconvolgere tutti; e a stravolgere tutto, definitivamente. La prima traccia che ridefinisce il nuovo Battisti, Le cose che pensano, ha un incipit davvero folgorante che ci catapulta d’immediato nell’universo estetico e immaginifico di Pasquale Panella: «In nessun luogo andai / per niente ti pensai / e nulla ti mandai / per mio ricordo / Sul bordo m’affacciai / d’abissi belli assai / Su un dolce a sdraio / amore ti ignorai / invece costeggiai / i lungomai». Risulterà evidente anche ai neofiti quanto sia ampia la distanza da Mogol, e quanto Panella insegua una poetica che destrutturi totalmente la canzone tradizionale non solo e non tanto per i concetti espressi, che a una prima lettura restano inevitabilmente ermetici per non dire oscuri, quanto per la continua ricerca dell’iperbole in una costruzione globale che tende alla distruzione-rielaborazione delle convenzionali funzioni sintattiche e all’uso di neologismi che valorizzino l’intera costruzione poetica. Quel «lungomai» che sigilla l’unione concettuale delle due strofe è un colpo di genio che dopo ripetuti ascolti può cogliere non solo l’appassionato più attento ma anche, e direi soprattutto, l’esegeta dei versi del paroliere romano.
Tutto ciò, va da sé, trova la sua apoteosi grazie all’arrangiamento musicale e alla voce di Lucio Battisti il quale, lungo l’arco dei cinque dischi che contrassegnano la collaborazione, mette sempre più distanza tra sé, le musiche composte e i versi di Panella. Se Don Giovanni è un disco – l’unico dei cinque in cui Panella scrive i testi sulla musica composta da Battisti, perché per i restanti quattro avviene l’esatto contrario – nel quale è ancora presente l’uso di diversi strumenti, da L’apparenza (1988) in poi imperversa l’elettronica e l’effetto sonoro diventa sempre più ipnotico e straniante. Si amplifica anche, progressivamente, la cripticità dei testi, che assemblano, in mirabolanti giochi di parole prossimi allo scioglilingua, riferimenti colti a divagazioni esistenziali, l’uso del linguaggio colloquiale a vere e proprie epifanie del verso poetico. Sono dischi che trascinano l’ascoltatore in una dimensione onirica, quasi metafisica, veri e propri concept album legati da un filo conduttore quasi mai determinabile nel breve periodo. Necessitano inevitabilmente di più ascolti.
Nell’ultimo disco della serie, Hegel (1994), uscito quattro anni prima della morte del cantautore reatino, Panella omaggia a suo modo il grande filosofo tedesco. L’opera, che sul consueto sfondo bianco e asettico questa volta stampa solo una grande E – e non una H, come sembrerebbe più logico, considerato il titolo –, contiene la traccia Estetica, uno dei pezzi più raffinati ed esemplificativi del livello artistico raggiunto dal duo: «È successo quello che doveva succedere / ci siamo addormentati, perché è venuto il sonno / a fare il nostro periodico ritratto / e per somigliarci a noi / più che noi stessi, ci vuole fermi / che appena respiriamo / e mobili ogni tanto / come un tratto / sicuro di matita. Ecco che siamo / la viva immagina di una / distilleria abusiva che / goccia a goccia / secerne puro spirito». Il pezzo in questione, a ben leggere tra le parole, non è un semplice omaggio indiretto al filosofo tedesco ma sembra invece essere un vero e proprio atto di congedo, non solo di Battisti nei confronti di Panella – o viceversa? Non lo sapremo mai –, ma anche, probabilmente, di Battisti verso il suo pubblico.
Alexandre Ciarla, autore ad oggi dell’unica opera letteraria (Battisti-Panella. Da Don Giovanni a Hegel) che tenta un’esegesi delle quaranta canzoni contenute nei cinque dischi del duo, così si espresse in merito: «Il settimo brano descrive in modo inequivocabile la fine di una relazione […]. Eppure dietro all’evocazione della rottura di un presunto rapporto sentimentale sembra celarsi qualcosa di differente. In effetti, pur mantenendo la tipica struttura formale “io/tu”, in questa canzone il “tu” non è connotato sessualmente. Ciò rende possibile una interpretazione di altro genere supportata da numerose coincidenze fra il testo della canzone e i fatti del percorso artistico di Panella e Battisti ai quali in effetti potrebbe far riferimento […], la canzone Estetica sembra affrontare per la seconda volta il tema della rottura del rapporto artistico tra autore e compositore».
Il lodevole lavoro fatto da Ciarla nel suo libro rende però lampante una cecità prolungata non solo del mondo editoriale, che non è mai parso interessato a finanziare o quantomeno promuovere alcun testo critico sugli anni di Battisti con Panella, ma anche e in particolar modo degli addetti ai lavori, di artisti, intellettuali o chiunque ruoti intorno al mondo della cultura del nostro Bel Paese. Il che è a maggior ragione paradossale, se si considera la popolarità che raggiunse e di cui a tutt’oggi gode Lucio Battisti, l’originalità indiscutibile dei cinque dischi, nonché la sostanziale rottura con tutto ciò che precedette tale esperienza artistica. Ma non è ancora tutto, perché a voler guardare oltre Battisti-Panella troviamo davvero poca musica degna della memoria dei posteri, e nulla di veramente avanguardistico, a meno di non voler considerare tale il Trap, che non è altro che un sottogenere dell’Hip Hop importato dagli States, peraltro di valore assai trascurabile alle nostre latitudini.
L’epopea Battisti-Panella resta dunque l’ultima vera avanguardia dell’Italia in musica, l’ultimo atto rivoluzionario di un artista che, a dispetto di ciò che sentenziò la vulgata ufficiale, rivoluzionario – come artista – lo fu sempre, anche al tempo del connubio con Mogol. E i motivi di ciò sono storia, per chi li sa leggere; sono arte e musica, tracce indelebili della nostra cultura comune e condivisa. Il culmine della parabola umana e artistica del musicista reatino fu riuscire a spersonalizzarsi, diventare una sorta di ologramma, per poi evaporare del tutto lasciando traccia di sé solo attraverso la musica. Così volle, ed è giusto che sia ricordato e celebrato Lucio Battisti. Perché «l’artista non esiste. Esiste la sua arte».