Federico Magi si è laureato in Scienze dell’educazione alla Pontifica Università Auxilium con una tesi sul fondatore dell’Antroposofia Rudolf Steiner. Nel 2006 consegue l’attestato in critica cinematografica alla scuola di cinema “Sentieri Selvaggi” e nel 2009 supera l’esame da giornalista pubblicista. Ha collaborato col "Secolo d’Italia" e con alcune riviste occupandosi quasi esclusivamente di critica cinematografica e letteraria. Attualmente è educatore e redattore del portale di critica letteraria Lankenauta.

Il periodo difficile che stiamo vivendo da oltre un anno, dovuto all’irrompere nelle nostre vite di un virus insidioso e ancora difficilmente gestibile, è un tempo ingrato per tutti. Non v’è dubbio alcuno. Inutile far l’elenco delle tante categorie di persone coinvolte, dei devastanti riflessi sull’economia, delle conseguenze – non tutte inevitabili, a dire il vero – che tutto ciò ha avuto sulla salute fisica, ma anche e soprattutto psicologica, dell’intero pianeta. Evitando di scomodare teorie millenariste o catastrofiste, più per affidarsi all’intelletto e a un minimo esercizio di razionalità che per effettiva convinzione, si può ben constatare che questa sorta di tsunami che ci ha investito, per quanto apparentemente improvviso e di difficile gestione, non era poi così imprevedibile come ci è stato fatto credere. Ma questo è un discorso lungo e altro rispetto a un’evidenza tanto lampante quanto pericolosamente sottovalutata.

Qual è quest’evidenza? Restiamo entro i confini della stanca e declinante Europa, per circoscrivere il campo d’analisi, ma anche e soprattutto perché il vecchio continente – e scusate il gioco di parole – invecchia in tutti i sensi, non soltanto anagraficamente. Siamo oramai un regime gerontocratico non solo nei gangli del potere, ma anche e ancor più pericolosamente nell’idea di società che abbiamo sviluppato da quando il benessere percepito è diventato più diffuso. Conseguenza di ciò è che, da qualunque angolazione le si guardi, le giovani generazioni sono le più penalizzate da un modello di sviluppo che andrebbe quantomeno messo in discussione, efficacemente rivisto, se non addirittura interamente ripensato. Ciò risulta ancora più palese in questo periodo di pandemia, tempo nel quale si è voluto sostituire la canonica lezione in presenza con la didattica a distanza, cosa che sta comportando una serie di effetti a cascata sulla psiche dei nostri figli, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti e a lunghissimo termine. È – ed ancor più risulterà – l’errore fatale di un mondo in decadenza. Di un mondo che vive alla giornata come se non ci fosse un domani. E torniamo alle giovani generazioni, agli adolescenti in particolare.

Definire oggi l’adolescenza è compito non così scontato come superficialmente potrebbe apparire, proprio perché il modello di sviluppo europeo, italiano in particolare, fa sì che i figli restino a vivere coi genitori più a lungo rispetto a un tempo. I motivi sono facilmente percepibili e dunque sostanzialmente noti: difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro, di potersi mantenere da soli e quindi, di conseguenza, di potersi creare una famiglia. Meno famiglie, meno figli e si ritorna al problema d’origine. Decadenza, invecchiamento, futura estinzione e probabile sostituzione etnica.

Tutto chiaro? Certamente. Si potrebbe obiettare che questa breve analisi sia banale, facile, scontata. E potremmo anche concordare con voi se il discorso finisse qui. Se non si andasse a fondo, alla questione delle questioni, tragicamente trascurata dalle istituzioni e da chi, più in generale, “muove” le idee del mondo attuale. Ripartiamo dalle giovani generazioni. Dall’adolescenza, per l’appunto. Definiamola, intanto, e inquadriamola in un lasso di tempo. Il dizionario la definisce perlopiù con questi termini: «Fase della crescita dell’essere umano collocabile tra i 12-14 e i 18-20 anni, caratterizzata da una serie di modificazioni fisiche e psicologiche che introducono all’età adulta». Sembra esaustiva come definizione. C’è più o meno tutto: la fascia di età e le caratteristiche del periodo, il tutto contenuto entro i confini di un concetto breve e difficilmente confutabile. Dice tutto ma è un po’ troppo fredda e concisa, come lo è ogni definizione di un dizionario, del resto.

Andiamo a pescare tra gli scienziati sociali, allora. Uno psicologo, un pedagogista o un sociologo… chi preferite? E invece no, evitiamo. Non per disistima o antipatia verso gli scienziati sociali, ma perché a modesto parere di chi vi parla non sarebbe comunque esauriente. Non coglierebbe il punto, non arriverebbe al cuore della questione. Per capire meglio cosa sia l’adolescenza, e quale peccato mortale noi si commetta nello scegliere di soffocare i naturali slanci verso la vita di coloro che, in un mondo un po’ meno egoista e gerontocratico, dovrebbero essere deputati alla costruzione del futuro, aiutiamoci con la letteratura: «Rendimi il tempo della mia adolescenza, quando ancora non ero me stesso se non come attesa. Rendimi quei desideri che mi tormentavano la vita, quelle pene strazianti che pure adesso rimpiango. La mia giovinezza… Basta. Sappi rianimare in me la forza dell’odio, il potere dell’amore».

Questo breve e illuminante estratto è contenuto nel Faust di Goethe, e ci spiega l’adolescenza meglio di qualunque trattato che le scienze positive e illuminate possano aver mai concepito fino ad oggi. Perché ne coglie l’anima profonda, rendendo limpidi i motivi per cui è stata, è e resterà – in ogni tempo e a qualunque latitudine, a dispetto di qualunque potere gerontocratico – l’età più importante della vita di ogni essere umano. Mi sembra quasi superfluo aggiungere commenti alle parole del letterato tedesco, ma proviamo a capire perché Goethe riesca con efficacia a sintetizzare in poche parole un tempo di vita così complesso e dirimente per la vita di ogni individuo. Partiamo da «Rendimi il tempo della mia adolescenza», invocazione dalla quale scaturisce il significato profondo del termine sviluppato successivamente. Non è una semplice nostalgia di un passato indefinito, è proprio un voler tornare a quell’età in particolare. E perché?  Il perché è nel suo significato. Cos’è l’adolescenza per Goethe? È quel tempo in cui «non ero me stesso se non come attesa». Ecco l’adolescenza, quel tempo di formazione irripetibile nel quale ogni cosa è possibile e in costante divenire, perché non siamo ancora l’uomo che saremo. Non serve essere psicologi per capire che anche il piacere più intenso scema nel momento stesso in cui lo si sublima. Dunque è l’attesa che ci muove alla vita: non il raggiungimento del fine, ma l’idea e il percorso che ci porta a raggiungerlo. E andiamo oltre, all’essenza dell’adolescenza, a quel «Rendimi quei desideri che mi tormentavano la vita, quelle pene strazianti che pur adesso rimpiango».

Eh sì, tormenti e pene strazianti, quelle che Goethe stesso ha saputo ben restituire ne I dolori del giovane Werther, romanzo che anticipa i temi della letteratura romantica, ivi compreso il titanismo puro e incontaminato insito nell’adolescenza. Quell’idea di lotta consapevole contro i mulini a vento che sarà fonte di quelle “pene”, “strazianti” e irripetibili, cui l’uomo adulto andrà sempre in cerca, perlopiù invano e inconsciamente, per il resto della vita. È “la giovinezza”, a cui tutti torniamo con la mente per rianimare in noi «la forza dell’odio, il potere dell’amore». Odio e amore in questo contesto hanno un confine labilissimo, sono due facce dell’identica medaglia perché sono sentimenti assoluti, radicali, che possiamo provare solo in assenza di sovrastrutture. L’adolescenza ci concede tutto ciò, ovvero la possibilità di essere radicali e massimalisti: nei sentimenti, negli ideali, nelle parole, nei pensieri e nella gesta. Di più: è un delitto se non lo fossimo, perché l’età adulta non ci concederà più la possibilità di esserlo, o quanto meno di esserlo con la stessa efficacia.

Era necessario spiegare l’adolescenza a partire da Goethe perché il letterato tedesco fu colui diede vita al Bildungsroman, ovvero al romanzo di formazione. Francesco Varanini, ne La formazione come arte letteraria: ovvero la Morfosfera, ci spiega sinteticamente l’etimologia e le caratteristiche di tale forma di romanzo: «Secondo Goethe “il tedesco si serve opportunamente del termine Bildung per indicare sia ciò che è già stato prodotto, sia ciò che sta producendosi”. L’etimologia del sintagma risale ad una radice germanica bil, che parla di potere miracoloso, magia: è la magia implicita nell’apparire dell’immagine. Il testo, in questo senso, non è contenuto appartenente ad un canone, non è dato una volta per tutte, ma appare e riappare in ogni istante, come per magia, diverso. Ecco dunque il Bildungsroman, il romanzo di formazione, che guarda all’apparire della persona, alla sua origine: descrive così, dal di dentro, osservate nel loro nascere, attraverso le emozioni, le passioni, i dolori e le continue scoperte, l’evolversi del protagonista verso la maturità. […] Non c’è formazione senza trasformazione, senza auto-formazione».

Magia e trasformazione, tematiche ricorrenti in ogni romanzo di formazione degno di tal nome, che ci chiariscono la caratteristica che ne determina la peculiarità, ovvero l’importanza dei riti di passaggio. E cosa sono i riti di passaggio? Sono quegli eventi che nella vita di ognuno di noi segnano un cambiamento, una trasformazione, sia interiore che esteriore. L’adolescenza è il periodo che ne conta di più, e anche in questo caso non ci serve uno scienziato sociale per spiegarci il perché. Queste trasformazioni non sono mai indolore – sono sovente scontro, sconfitta, messa in discussione delle certezze maturate nell’infanzia – e non sono identiche per ognuno, proprio perché definiscono attraverso i conflitti ciò che saremo. Ecco il motivo per il quale il tempo anestetizzato che stiamo vivendo – quasi una distopia di orwelliana memoria – è una spada di Damocle sul futuro di intere generazioni, perché in assenza di conflitto, con sé stessi e col mondo circostante, c’è il rischio di rimanere intrappolati in un tempo emotivo senza speranze e senza sogni. Al centro dei romanzi di formazione ci sono proprio questi conflitti, queste tensioni, questi slanci verso la vita che assumono modi diversi di rappresentazione ma che ci parlano con un linguaggio rivolto rigorosamente al futuro. Pensiamo ai personaggi di Dickens, David Copperfield, Oliver Twist, oppure al Martin Eden di Jack London, alle dure prove che la vita mette loro di fronte fin dalla fanciullezza.

Ho citato queste tre opere perché sono capisaldi di un genere che proprio Goethe inaugurò col Werther e con Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, sul finire del XVIII secolo. Anche Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, nel secolo successivo, entrano a giusto diritto in tale categoria letteraria, inquadrano questa trasformazione e la relativa autodeterminazione di sé in una cornice fiabesca. Fiaba e romanzo di formazione andranno in effetti sempre più fondendosi, negli anni successivi, fino a inglobare altri generi. Il romanzo più noto e celebrato del re dell’horror Stephen King, IT, che ha avuto anche una recente traduzione cinematografica, esemplifica perfettamente la versatilità di genere. La storia dei sei ragazzini “perdenti” che si trovano a dover sconfiggere il clown Pennywise – e attraverso di esso le loro paure ancestrali – materializzatosi in maniera feroce e sanguinaria, è forse uno dei più importanti romanzi di formazione di fine millennio. A dispetto della sua catalogazione horror, che ad un primo superficiale sguardo appare la più consona, IT ci parla apertamente di conflitto, trasformazione, crescita, bisogno di identificazione, autodeterminazione, sogni, rivincita, futuro. E lo fa in maniera credibile, dura, dolorosa ma al contempo rigenerante, pur se all’interno di una struttura fiabesca dalla forma orrorifica.

Se IT è la classica storia in cui per sconfiggere il Mostro – parafrasando Nietzsche – si è costretti a guardare nell’abisso, non tutti i grandi romanzi di formazione prefigurano una lotta visibile, esteriore, una realtà sfidata e presa di petto. Quello che è forse il romanzo di formazione per antonomasia del secolo scorso, Il giovane Holden di J.D. Salinger, ci catapulta per soli tre giorni nella vita di un adolescente prossimo alla maggiore età. Tre giorni che cambiano il volto alla letteratura di genere, grazie ad un protagonista scanzonato e apparentemente perdigiorno, le cui riflessioni però lasciano trasparire una complessità propedeutica alla comprensione del mutamento dello stato d’animo delle giovani generazioni appena uscite dal Secondo conflitto mondiale. Il titolo originale, pressoché intraducibile in lingua italiana, è Catcher in the rye, ovvero “cacciatore nella segale”. Titolo motivato da questo splendido passaggio che chiarisce, sia pur metaforicamente, dove ci trasporta questa nuova letteratura che avrà ampio sviluppo nei decenni successivi:

Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzi che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare.

Salinger fa uso di queste splendide immagini dal retrogusto onirico per esemplificare in forma allegorica il disagio interiore legato alle difficoltà del crescere. Non ci sono adulti ma solo ragazzini che corrono senza guardare, anelando un senso di libertà che è prossimo all’estinzione (il dirupo). Ma c’è di più, perché queste parole sono una vera e propria elegia dell’adolescenza. È facile immaginare che in Holden ci sia il Salinger ragazzo, perché fermare il vento con le mani – le migliaia di ragazzini –, sull’orlo di un dirupo, è una delle immagini più incisive rinvenibili in letteratura rispetto alla naturale paura che si può avere rispetto al dover crescere. Il male oscuro che sta vivendo il nostro mondo decadente non è dunque aver perso la ragione, ma al contrario aver smarrito l’immaginazione, l’istinto di provare a fermare il vento con le mani, la capacità di saper guardare oltre i muri dell’immanenza e, per ciò stesso, di aver voluto sacrificare l’adolescenza sull’altare della realpolitik e dei compromessi al ribasso. Per questo è fondamentale riscoprire il romanzo di formazione e, attraverso di esso, l’importanza dei riti di passaggio, per ricordarci sempre che la vita è una continua aspettativa densa di ostacoli e conflitti, di prove da superare e cambiamenti, nonostante le difficoltà e il senso di disorientamento che, inevitabilmente, questo tempo ingrato restituisce. Perché, per dirla nuovamente con Nietzsche: «Non so dove è finita la mia stella, ma so che se smetto di cercarla, per me finisce il cielo».

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