Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
Francesco Mancuso, Il limite del diritto, Giappichelli, Torino 2022, pp. 124, € 16,00

Docente di Filosofia del diritto presso l’Università di Salerno, Francesco Mancuso offre nel volume Il limite del diritto alcuni suoi saggi editi e altri inediti. Il  volume, concettualmente denso, tocca varie problematiche orbitanti attorno a un diritto concepito come limite e mediazione di pluralismi entro un ordinamento giuridico sostanzialmente coincidente con le norme positive. L’angolo visuale dell’Autore è di chiara matrice positivistico-kelseniana ed è bene tenerne conto al fine di meglio comprendere il piglio polemico contro Carl Schmitt, Walter Benjamin, Giorgio Agamben e l’odierno sovranismo populista.

Lasciando da parte le pagine dedicate ai populismi (non prive di interesse ma troppo politicizzate e di inferiore densità giuridica), qui ci concentriamo invece sugli aspetti connessi al diritto, alle sue funzioni e al suo rapporto con la legalità intesa in senso positivista.

La sua ispirazione positivistica conduce innanzitutto Mancuso a misurarsi con la giuridicità dei totalitarismi. È noto che proprio in reazione alle aberrazioni delle leggi totalitarie l’Europa post-1945 conobbe una spontanea fioritura di antiche e nuove idee, laiche e cristiane, di ispirazione giusnaturalistica e costituzionalistica con il loro addentellato di radicale critica al primato della norma. Il formalismo legalitario negli anni del totalitarismo si era rivelato incapace di offrire garanzie circa gli intrinseci contenuti di giustizia, cosicché i popoli europei avevano subìto la divaricazione sempre più accentuata tra atti aventi forza di legge, di perfetta fattura formale, e contenuti prescrittivi sommamente iniqui. Si era aperto un bàratro rispetto alla tradizione giuridica borghese di ascendenza positivistica e dopo il 1945 era ormai maturata la consapevolezza che persino i regimi democratici non avrebbero potuto fornire garanzie di coincidenza tra legge formale e giustizia.

Questo quadro interpretativo non incontra il consenso dell’Autore: la giuridicità dei regimi totalitari deve leggersi come la negazione e non l’affermazione del positivismo. Il “totalitarismo” (l’Autore si riferisce essenzialmente al regime nazista) non va appiattito sulla manifestazione estrema di positivismo potestativo perché la giuridicità totalitaria non muoveva affatto dall’assunto che la legge creata ex nihil dal potere politico fosse giusta per definizione e vincolante tutti i soggetti coinvolti nel processo giuridico. All’opposto: per il totalitarismo non si pone neppure il problema se una legge sia di per sé giusta e vincolante perché le leggi si risolvevano in contingenti arbitri e il regime nella sua prassi era il primo a violarle. Il potere sconfessava impunemente i vincoli che esso stesso si dava. Una legalità totalitaria, per quanto colma di iniquità, avrebbe se non altro potuto in un quadro di positivismo neutro offrire certezza e prevedibilità. Ma proprio la meccanica di potere dissolveva questa certezza e prevedibilità violando di continuo le leggi. Prendendo spunto dalle Origini del totalitarismo di H. Arendt Mancuso rimarca il carattere di pura finzione della legalità totalitaria, laddove l’ultima parola  spettava sempre all’arbitrio, allo stato d’eccezione in cui si esplicava alla massima potenza il sommo momento discrezionale di una sovranità completamente ab-soluta. C’è del vero in questa prospettazione ma, per limitarci all’esperienza giuridica nazista, va aggiunto che in quel sistema la legge scritta si collocava in posizione subordinata rispetto alla “legge vivente” del Fuehrer, nella cui persona si concentrava la totalità dei poteri dello Stato e del governo. La violazione della legalità formale in quel regime è tale solo dal punto di vista della concezione positivistico-ottocentesca. Ma se alla legalità delle leggi assembleari si sovrappone la legalità stabilità dal supremo (e, in quel contesto, legittimo) detentore del potere politico, ecco che i termini del problema, dal punto di vista di stretta legalità positivistica, non mutano: ciò che è stabilito dalla (e nella) legalità formale positiva (sia essa emanazione di assemblee elettive, di commissioni tecnico-giuridiche o del supremo decisore sovrano) resta intrinsecamente giusto e vincolante. La legalità del nazionalsocialismo si è mantenuta per tutta la durata di quel regime il quale non “violava” le proprie leggi ma le superava quando l’organo politico supremo, per dinamica intrinseca della sua stessa – per quanto perversa – legalità, decideva di farlo. Insomma a noi pare che la  giuridicità totalitaria, lungi dal palesarsi – come scrive Mancuso – quale «torsione antipositivistica» (p. 32), segni invece storicamente un positivismo parossistico alla massima potenza.

L’insistenza di Mancuso sulla funzione positiva del positivismo (si perdoni il gioco di parole) e del diritto in quanto norma stabilita nasce da una esigenza di polemica contro chi – il Walter Benjamin della Kritik der Gewalt del 1920 e, oggi, il Giorgio Agamben di Homo sacer – sostiene l’esistenza di un connaturato nesso tra diritto, forza e violenza. Per Benjamin al principio del diritto troviamo il potere, e il potere è essenzialmente violenza e paura cosicché gli elementi costitutivi del diritto si riducono alla triade potere-violenza-paura. Il diritto, arriva a scrivere Benjamin, non è altro che un residuo del demoniaco nell’uomo e nulla ha a che fare con la giustizia. Agamben riprende e aggiorna le tesi di Benjamin e, andando oltre il mero dato normativo, scorge nel diritto l’eccezione sovrana, la mera violenza che può spingersi sino all’annientamento della “nuda vita”. A fronte di queste tesi da lui giudicate estremiste (Agamben appiattisce indebitamente la violenza pre-giuridica sulla violenza dei sistemi giuridici; cfr. p. 47) Mancuso opera un recupero delle virtù mediane  e mediatrici del diritto. Non nega che alle origini del diritto si trovi la violenza; non nega neppure che esso conservi tracce di quella primordiale violenza (e respinge quindi le teorie di vacuo irenismo che contrappongono diritto e violenza come alterità assolute e l’opposta teoria di Carl Schmitt che separa il “politico” dal diritto). Ma rifiuta connettere costitutivamente diritto e forza. La vera funzione del diritto risiede invece proprio nel limitare, proceduralizzare e rendere prevedibile l’impiego della forza (cfr. p. 62). Ma si proceduralizza l’uso della violenza solo quando la forza di due gruppi o individui si equivale e risulta più conveniente a entrambi trovare una mediazione. Questo in ultima analisi è il diritto: un insieme di regole convenzionali che traggono origine da una contrapposizione di violenze. E se il diritto nasce dalla violenza, ne consegue che prima della violenza non esiste alcun diritto che stabilisca cosa è giusto e cosa no. Solo il dato positivo, la regola convenzionale accettata (o subìta) demarca il confine tra il giusto e l’ingiusto (intesi come il legale e l’illegale).

Ma legalità significa diritto? Come si pone il diritto nei confronti del dato positivo formale e delle procedure di legislazione? Le irte pagine di Mancuso, di difficile lettura, dal periodare complicato e contrassegnate da evocazioni e assonanze, possiedono tuttavia un loro fascino perché cercano di sviscerare in profondità la radice autentica del diritto. L’Autore pretende di non fuoriuscire dal perimetro del positivismo giuridico cosiddetto “moderato” o «evoluto» (p. 24), tenuto piuttosto artificiosamente distinto dal più greve positivismo ideologico (quello del iustum qiua iussum, cfr. p. 18); egli ammira Hans Kelsen ma non si esime dal metterne a fuoco alcuni limiti. Il più grave di questi risiede nella concezione della democrazia come luogo di composizione proceduralizzata di interessi (cfr. soprattutto l’ultimo capitolo – pp. 115-124 – dedicato a un serrato confronto tra  Kelsen e il grande “avversario” Carl Schmitt), cui si riconnette strettamente l’altra celebre concezione kelseniana del diritto quale «tecnica artificiale della convivenza e dell’ordine sociale» (p. 10) svincolata da ogni contenuto etico ed anzi valorialmente neutra, che pure Mancuso in vari passaggi del testo mostra di apprezzare. I valori non negoziabili e in lotta tra loro costituiscono il vulnus più potente contro la democrazia e la legalità perché seguono la logica binaria amico/nemico e, se inseriti nella cornice interpretativa di Carl Schmitt sul “politico” sviluppata sino alle estreme conseguenze, condurrebbero non alla pacifica coesistenza ma all’annientamento del nemico valoriale. Però il diritto (positivo) delle democrazie è stato inventato proprio per evitare la contrapposizione tra le alterità: non già una (impossibile) negazione di  contrapposizioni valoriali e ma un loro “raffreddamento” grazie alla mediazione delle procedure legali e, appunto, democratiche.

Kelsen si arrestò sulla soglia del valore; comprese che la legalità procedurale da sola non basta e provò a elevare il principio di compromesso (vera «pietra angolare del dispositivo teorico kelseniano», p. 119, in nota) quale valore a bassa intensità, un «minimo morale condiviso» (p. 19). Per Mancuso quest’esito è insoddisfacente. Il solo momento di mediazione resta evanescente, fragile e esposto alle intemperie delle guerre tra valori. Occorre andare oltre. Le procedure legalistico-democratiche neutrali, bisognose oggi di venire preservate dall’attacco dei semplicismi populistici di chi riduce la complessità del “politico” a un conflitto tra “noi” e “loro”, non bastano più. Per resistere agli assalti valoriali queste procedure debbono connettersi alla Costituzione, «intesa come un thesaurus che contiene costellazioni di valori desostanzializzati, ma non depotenziati, in forma di principi» (p. 123). E quindi? Questa è una conclusione che non conclude perché in definitiva Mancuso fuoriesce dal perimetro del primato della legalità positiva e delle mediazioni procedurali per rinviare, quale ultima parola, a un principio, ossia a un valore (o una costellazione di valori) precedente l’assetto giuridico legale e che sussiste – può sussistere – anche senza Costituzione e proceduralismi. Ossia l’Autore fuoriesce dal positivismo, pretendendo però di restare positivista. Una aporia irrisolta.

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