Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Sono molti i critici italiani che hanno accennato o cercato di indagare un possibile influsso della poesia giapponese degli haiku nello stile formale del Porto sepolto. L’ipotesi è tutt’altro che peregrina, dato che proprio nel 1916 Ungaretti collaborava con la rivista napoletana «La Diana» – rivista in orbita lacerbiana – che proprio in quegli anni aveva cominciato una collaborazione con il giapponese Harukichi Shimoi, poeta amico di D’Annunzio, volta proprio a far scoprire al pubblico la brevità e la levità della lirica del Sol Levante. È impressionante, appunto, che nel numero datato 25 maggio 1916 la traduzione e il commento alle liriche della poetessa Akiko Yosano siano immediatamente succedute dalla pubblicazione di Fase, i cui versi faranno poi parte del Porto sepolto. Ciò detto, le reticenze dello stesso Ungaretti nel confermare questa possibile influenza devono portare, se non a una negazione, almeno a trattare il tema con maggiore cautela.
Anzitutto, è necessario capire in che modo e quando sia l’arte sia la letteratura giapponese si diffondono in Europa, in quale forma e per quale motivo riscuotono successo, che influenza effettiva hanno sullo stile europeo. Successivamente, sarà doveroso osservare come Ungaretti si colloca all’interno di questo scenario.
La prima diffusione di opere d’arte e prodotti letterari nipponici si ha a partire dal 1853, data in cui la marina statunitense forzò il blocco navale del Giappone, distruggendo così un isolamento politico e culturale antico di secoli. Erano quelli, in Europa, i tempi eroici delle nuove esplorazioni, del colonialismo, e i salotti mondani stravedevano per qualsiasi prodotto che avesse un misterioso aspetto esotico e orientale. Grazie a questo clima generale, la cultura giapponese ci mise poco tempo ad affermarsi come una moda: molti artisti, soprattutto figurativi, di fine Ottocento subirono l’influsso o cercarono di imitare lo stile nipponico, dando vita ad un vero e proprio fenomeno chiamato, non senza una certa vena ironica, “giapponismo”.
Se, come si è detto, la penetrazione dell’arte figurativa fu quasi immediata, quella della letteratura, per ovvi motivi, tardò di più a farsi sentire: l’ostacolo della lingua, infatti, era tutt’altro che trascurabile. Una traduzione dal giapponese non ha certo lo stesso peso specifico di una traduzione da una qualsiasi lingua indoeuropea: entrare in un sistema alfabetico completamente diverso, con una ritmica e una musicalità difficilmente riproponibili, fu operazione complessa, e per questo piena di errori e fraintendimenti – che, d’altronde, sono tutt’oggi presenti, e che contribuiscono ad alimentare ombre su un fenomeno tutt’altro che trascurabile
Nel novero dei primi studi e delle prime traduzioni di una certa importanza segnaliamo i Poèmes de la libellule, 1885, di Judith Gautier, figlia del più celebre Théophile.Judith era un’orientalista, già studiosa e traduttrice di numerose poesie cinesi. Questo volume è importante, perché è tramite esso che si ha la prima infiltrazione “nipponica” in Italia. A notare ed apprezzare il volume, infatti, è l’attento e curioso Gabriele D’Annunzio. Sempre sintonizzato sulla moda e la mondanità europee, il Vate non si fece sfuggire il lavoro di Gautier, sicuramente tra i più accurati tra i vari che spuntarono in quel periodo, e ben presto si propose come punto di riferimento della cultura giapponese in Italia, arrivando a pubblicare il 14 giugno 1885 su «La domenica letteraia – cronaca bizantina» un saggio intitolato La letteratura giapponese. Ma ad avere una certa rilevanza sono i suoi esperimenti poetici, volti a impadronirsi dello stile nipponico. Il metro usato da D’Annunzio non si rifà all’haiku (che, come vedremo, avrà una penetrazione successiva), bensì all’uta, dal poeta chiamata, con francesismo, “outa”. Ecco come D’Annunzio descrive il metro:
Due specie di outa vi sono: l’outayé-outa, da cantarsi con compagnia di stromenti o senza; e la yomi-outa, da leggersi. La prima è più lunga, spesso lasciva e oscena; la seconda è più corta, si compone di pochissime linee senza rima e senza ritmo, ma d’un determinato numero di sillabe seguentesi in un ordine stabilito. La più elementar forma di poesia giapponese è la strofa di cinque versi, di cui il primo è di cinque piedi, il secondo di sette, il terzo di cinque, di sette gli altri due. In complesso trentun piede.
L’esperimento di imitazione sicuramente più riuscito è Outa giapponese, contenuta nella raccolta di poesie La chimera, pubblicata nel 1890. Ecco la prima strofa:
Guarda la luna
Tra li alberi fioriti;
e par che inviti
ad amar sotto i miti
incanti ch’ella aduna!
D’Annunzio non segue completamente le indicazioni da lui stesso affermate nel saggio prima citato: l’uta dovrebbe essere priva di ritmo e rima, ma qui sono presenti entrambi (schema ABBBA). Non si limita, quindi, ad una imitazione blanda del modello (come d’altronde mai si è limitato), ma integra e modifica la base originale adattandola al suo gusto personale e alla tradizione poetica italiana. Il vate non darà poi seguito ai suoi esperimenti nipponici, forse perché lontani, per certi aspetti, dalla sua sensibilità, ma questi suoi versi saranno molto apprezzati dai poeti crepuscolari, in particolare Corrado Govoni, che ispirato dall’Outa occidentale, scrisse dei versi di imitazione giapponese nella sua prima raccolta del 1903, Le fiale.
Già prima della penetrazione dell’haiku, quindi, l’Italia e l’Europa avevano avuto un contatto con i versi giapponesi. D’altronde, lo stesso genere haiku, mediato dall’antica pratica giapponese del componimento di gruppo, detto renga e poi renku, aveva vita piuttosto recente. Infatti fu restaurato e reso genere autonomo dal poeta Masaoka Shiki a cavallo tra il XIX e il XX secolo – e fu lui stesso a coniare la parola “haiku”.
Il genere arrivò in Europa tramite le traduzioni del britannico B.H. Chamberlain nel 1902. Nel saggio critico che accompagna i componimenti Chamberlain si riferisce a loro come «epigrammi giapponesi». Questi componimenti brevissimi, di un totale di 17 sillabe, riscuotono subito un enorme successo in tutta la Francia. Questo probabilmente perché il genere pare rispondere alle più urgenti esigenze estetiche di quel periodo: la sinteticità e la concretezza delle immagini. Tanti furono i tentativi di imitazione nel primo decennio del Novecento, tra i quali segnaliamo principalmente Paul Fort, che nel 1914, nella raccolta poetica intitolata Prétintailles, pubblica versi visibilmente ispirati alle traduzioni degli haiku.
Ecco quindi che molti poeti assolutamente noti a Ungaretti, D’Annunzio, Govoni e Paul Fort già avevano avuto contatti con la poesia giapponese, anche se, ovviamente, non in maniera diretta. In tutti questi casi, però, lo stile era ancora ben lontano da quello metricamente oggi noto, ovvero dei tre versi non rimati di cinque, sette e cinque piedi. In Govoni, addirittura, i versi giapponesi saranno proposti all’interno della forma metrica del sonetto, quindi versi di undici sillabe tra loro rimati (niente di più lontano dall’uta). In D’Annunzio la ricerca della musicalità sembra farsi addirittura ossessiva, in linea con il post-simbolismo di Fort: «Une larme tombe, et puis tombe une autre, une larme / tombe, et puis tombe une autre». Certamente, quindi, Ungaretti non può aver mediato da loro lo stile metrico, anche se pare improbabile che, durante il soggiorno a Parigi, non avesse già avuto contatti con qualche traduzione francese degli haiku – quindi prima dell’esperienza nella rivista «La Diana».
La cosa interessante è che lo stile dell’haiku occidentale cambia radicalmente tra i poeti francesi proprio nel corso della grande guerra. In particolare, Julien Vocance, uno dei primi a cercare di scrivere haiku in francese, ne compone diversi in Cent vues de la guerre, 1916, che avevano come tema, appunto, la sua esperienza in trincea nella Grande Guerra. Per la prima volta compare la partizione in tre righe, scompaiono le rime e a primeggiare, più che il ritmo, è la ricerca dell’immagine d’impatto: «Avec la terre / Leur corps célèbrent des noces / Sanglantes». In più, non sempre il poeta rispetta la norma delle 17 sillabe.
Le similitudini con Ungaretti certamente si sprecano, ma non si vuole qui affermare che uno dei due poeti possa aver tratto ispirazione dall’altro. Piuttosto, è indicativo il fatto che a generare questo cambiamento stilistico sia stata, principalmente, la guerra: le occasioni per poter comporre sono poche, il tempo della riflessione è limitato; a far da padrone deve essere, per forza di cose, l’intuizione e il colpo d’occhio. Un altro poeta, Jean Cocteau, riguardo i suoi versi di guerra scriverà, significativamente: «Il n’y a une minute à perdre».
Nell’haiku e nella poesia giapponese, per com’era penetrata, non stava tanto una questione di forma. Esso era diventato altro: era l’ideale poetico a cui arrivare, era l’appiglio fisico a una battaglia ideale da tempo intrapresa dalla poesia occidentale contro la retorica ottocentesca. Come si è visto, lo stesso Ungaretti, prima di partire per la guerra, aveva cominciato a intraprendere quella strada. Ci volle un evento traumatico come la Grande Guerra, di per sé distruttore, perché quell’ideale così a lungo inseguito divenisse reale.
Fonti critiche:
Paola d’Angelo, Prime tappe dell’introduzione dello haiku in Europa, «Rivista degli studi orientali», vol. 73, fasc. ¼, pp. 267-283.
Bruno Basile, D’Annunzio e la lirica orientale, «Lettere italiane», vol. 35, n.2, pp. 167-188.
Andrea Zanzotto, Presentazione, in Cento haiku, Guanda, Milano 2020, pp. 9-13.