Pierpaolo Naso ha conseguito il Dottorato in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l’Università “Guglielmo Marconi” di Roma, dopo aver acquisito presso l’Università di Roma “La Sapienza” la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. È iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e alla Associazione Italiana di Storia del Pensiero Politico (AISPP).
Recensione a: G. Gentile, Il tramonto della cultura siciliana, a cura di C. Genna, Le Lettere, Firenze 2019, pp. 217, € 20,00.
Negli anni della Grande guerra Giovanni Gentile (1875-1944) era già un accademico di fama, avendo teorizzato la filosofia dell’«atto puro», avendo partecipato alla fondazione della rivista «La Critica» diretta da Benedetto Croce ed avendo insegnato discipline filosofiche negli Atenei di Napoli, Palermo e Pisa. Dal 1917 avrebbe assunto la cattedra di Storia della filosofia presso l’Università di Roma, allorquando ebbe occasione di occuparsi nei suoi studi anche della sua terra d’origine, con il saggio su Il tramonto della cultura siciliana (1917): il filosofo di Castelvetrano mostrava la situazione spirituale dell’Isola in rapporto al contesto nazionale ed europeo. Il testo in questione – come il resto dell’opera omnia gentiliana inizialmente pubblicata da Sansoni – è stato ristampato in versione anastatica dalla casa editrice Le Lettere, pertanto va ricordato che questa argomentazione gentiliana sulla Sicilia già era stata trattata in più saggi brevi ne «La Critica», facendone infine una monografia.
Per comprendere lo stato d’animo dell’intellettualità siciliana nell’epoca post-risorgimentale occorre indicare alcuni passaggi storici determinanti. In età medievale, situato geograficamente dalla Germania fino al Regno di Gerusalemme, il concetto imperiale di Federico II di Svevia fece della Trinacria un simbolo della cultura eterogenea tipica del mondo mediterraneo: non a caso, la scuola poetica siciliana venne ritenuta fondamentale per la nascita della letteratura italiana. Con la fine tragica della dinastia normanno-sveva, il regno fu conteso da aragonesi e angioini nella novantennale Guerra del Vespro (1282-1372). Lo storico Rosario Romeo riconosceva ai monarchi spagnoli il merito di aver integrato l’Isola nel nuovo grande organismo imperiale, che limitava i poteri locali dei baroni, benché a differenza dell’Europa centro-settentrionale non vi si sia sviluppato un ceto medio capitalistico. Tra i processi storici moderni, come il Rinascimento, la Riforma e l’Illuminismo, la Sicilia conobbe invece soltanto la Controriforma. Inoltre iniziò una disputa tra Palermo e Napoli per il titolo di Capitale borbonica del Regno delle Due Sicilie, assunto definitivamente dalla seconda città in età moderna. Uno spirito culturale continentalista a trazione partenopea si distinse così da quello insulare. Per diversi secoli, nel Mar Mediterraneo la presenza di pirati barbareschi e ottomani, e la svolta spaziale verso le Americhe e le Indie, trasformarono la Sicilia in una periferia dell’Europa.
Sin dalle prime pagine del suo saggio del 1917, Giovanni Gentile ribadiva che l’arretratezza socio-economica e l’isolamento culturale portarono l’Isola ad un «sequestro» secolare. Tra il popolo siciliano ed i reali borbonici non vi furono buoni rapporti, nonostante che nel XVIII secolo vi furono dei tentativi di riforme da parte dei viceré Domenico Caracciolo e Francesco Caramanico, specialmente al fine di limitare i poteri baronali ed estendere il regime burocratico. La libertà politica era manifestata soltanto dalle rappresentanze nobiliari e clericali nel parlamento siciliano. Il riformismo borbonico si confuse con la tutela ed il mantenimento dei privilegi: abolito il feudalesimo, fu instaurato un sistema latifondista che non poteva contribuire a mutare in meglio lo status quo sociale e culturale. Una nuova borghesia terriera quindi andò a contendersi con l’antica nobiltà la spartizione degli ex feudi, mentre le masse contadine rimasero al di fuori del processo sociale. Gli intellettuali che ricoprivano cattedre universitarie, o che si dilettavano nella scrittura, agirono spesso su iniziativa personale, non riscontrando le molte ambizioni mecenatiste che si ebbero invece nel resto d’Italia. Questa cesura sociale provocava uno scollamento tra gli operatori della cultura e quei ceti che avrebbero dovuto migliorare le condizioni della Sicilia. Proprio a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento fu caratteristica la letteratura vernacolare di Domenico Tempio a Catania e di Giovanni Meli a Palermo.
Il periodo rivoluzionario-napoleonico (1806-1815), in cui i Borbone dovettero rifugiarsi a Palermo sotto la tutela marittima della flotta britannica, poteva essere l’occasione giusta per ricucire le relazioni con gli isolani; eppure la distanza politica tra i monarchi e la popolazione siciliana si traduceva in una relativa simpatia dei primi verso la vita partenopea. Vi fu comunque l’impegno del principe panormita Carlo Cottone Castelnuovo all’elaborazione della Costituzione siciliana del 1812, ispirata al pensiero giuridico inglese: questo Statuto man mano subì l’abolizione da parte del centralismo borbonico ed i vari concetti moderni di «libertà» continuarono a rimanere sconosciuti al popolo siciliano. Secondo lo storico Giuseppe Tricoli le correnti filosofico-politiche d’età moderna, ovvero Illuminismo, Romanticismo, liberalismo e socialismo, arrivarono in ritardo nell’Isola e soprattutto furono interiorizzati soltanto attraverso il «filtro del sicilianismo». Il contesto si presentava complesso e contraddittorio, e per questo motivo, affascinante nella ricerca dei contenuti. Gentile spiegava nel testo proprio l’adesione dei cultori siciliani a tendenze materialistiche ed empiriste, contestualmente essi provavano un sentimento anti-romantico. Dal mondo anglosassone furono recepite quelle scienze economiche che si ispiravano a principi di libertà e progresso: nello specifico, si considerava indispensabile il liberoscambismo per la produzione agricola e piccolo-industriale della Sicilia vessata dall’apparato doganale.
Il filosofo di Castelvetrano ne rilevava, dunque, una doppia identità conciliante: «Italiani sì, ma prima siciliani; senz’avvertire se questo senso del particolare, giusto nel suo motivo originario, non eccedesse, oscurando la coscienza della comune nazionalità, nella quale esso deve avere le sue profonde radici» (p. 85). Tra i sicilianisti del Sette-Ottocento spiccavano lo storico Rosario Gregorio, «smascheratore della celebre impostura» dell’abate Giuseppe Vella, ma soprattutto il fisico Domenico Scinà e Lionardo Vigo come punto di riferimento per la raccolta delle fonti popolari. La cultura richiamava la contingenza politica: Gentile descriveva indirettamente la politica siciliana considerando l’eterogeneità del risveglio nazionale italiano ancora allora in divenire. Sorsero degli interrogativi sulle nozioni di nazione e popolo nell’uso lessicale siciliano: sia nelle definizioni scientifiche sia nelle speculazioni enfatiche, l’integrazione di questi concetti nel contesto risorgimentale sembrò inevitabile. Non c’erano dubbi su certi aspetti che rendevano questa «Isola sequestrata», a causa dell’arretratezza socio-economica e infrastrutturale, e dell’emarginazione dalle questioni politiche pendenti nel continente. Ciononostante essa si ripresentava come soggetto imprescindibile per la storia dell’Italia intera: a differenza di altre Isole del Mar Mediterraneo, la Sicilia conservò la sua rilevanza politico-culturale e produsse un rapporto di reciproca influenza con il territorio continentale. Nella sua trattazione, d’altronde, Gentile sottolineava l’incapacità siciliana a rendersi omogenea, indipendente e forte da poter contrastare le ingerenze straniere. Per questo, occorreva che partecipasse all’elaborazione della rinnovata cultura italiana. Oltretutto, le varie reazioni isolane ispirate da municipalismo, autonomismo, separatismo o federalismo non erano diverse da quelle espresse altrove.
Come sottolineò in seguito Rosario Romeo, non andavano trascurate le differenze di mentalità tra la Sicilia occidentale e quella orientale. Nella storia della Sicilia moderna, queste anime diverse giunsero ad evidenti ostilità, ovvero tra la metropoli di Palermo ed il suo entroterra, così come tra Palermo e altri capoluoghi che rivendicavano una propria identità. Dalla Sicilia si riverberava un odio anti-napoletanista da secoli: ciò comportava una volontà sentita o costretta di annessione a qualsivoglia progetto di Risorgimento nazionale italiano. I Savoia furono preferiti inizialmente ai Borbone, e le utopie repubblicane, mazziniane e garibaldine furono trascurate nella cultura politica siciliana. Alcuni dissidenti democratici – ossia anti-monarchici – preferirono l’esilio in Francia e Gran Bretagna piuttosto che rimanere in una terra ritenuta conservatrice per i loro schemi. Sin dal 1860 fu evidente la delusione da parte del popolo siciliano nei confronti della politica luogotenenziale, percependolo come una nuova occupazione straniera piuttosto che una liberazione dall’assolutismo. Tra gli alti ceti gelosi dei propri privilegi e lo Stato sabaudo si confermò un nuovo compromesso che perpetuò la stagnazione sul piano sociale.
L’Ottocento ebbe comunque delle figure centrali per l’Italia e l’Europa: si pensi al contributo di Vincenzo Bellini per la musica lirica italiana, così come Giuseppe e Michele Rapisardi nel campo della pittura. L’opera dell’arcivescovo Vincenzo Di Giovanni mostrò come una parte della Chiesa siciliana intendeva approcciarsi ad alcune idee liberali. Gentile notava quanto sia stato significativo il ghibellinismo nei testi di Michele Amari, storico affermato sui temi dei musulmani in Sicilia e della guerra del Vespro, e di seguito personalità di spicco del Risorgimento siciliano. Un altro storiografo impegnato politicamente nell’annessione dell’Isola allo Stato unitario fu Isidoro La Lumia, più volte menzionato da Gentile. Nonostante la prevalenza del cattolicesimo in ambito culturale, Gentile fece notare come nelle università siciliane giunse anche la filosofia idealista. Non si ebbe soltanto la dedizione di accademici e scienziati puri: la Sicilia moderna si caratterizzò per le erudizioni di professionisti impegnati, ovvero di medici, avvocati e notabili che facevano della cultura ben più di un mero passatempo. Gentile elencava una rassegna copiosa delle riviste di storia patria siciliana e tradizioni popolari, che consegnavano già nella contemporaneità del Novecento un importante lascito testamentario culturale per l’intera nazione italiana.
Secondo Gentile, il «tramonto» della cultura siciliana si solennizzava con l’inattesa coincidenza di tre dipartite avvenute tra marzo e aprile 1916: da ciò il motivo per cui il saggio si presentava come un requiem a Salvatore Salomone-Marino, Gioacchino Di Marzo e Giuseppe Pitrè. Costoro non furono soltanto tre studiosi di etnologia, storia dell’arte e folklore, ma anche autori dediti a sostenere l’autonomia dell’identità siciliana rispetto al contesto eterogeneo italiano. Dal canto suo, Gentile non voleva che essi fossero dimenticati quali esempi di attivismo intellettuale, ritenendo la peculiarità isolana un fondamento del patriottismo italiano. Un legame caratteristico con la tradizione europea fu l’adattamento dialettale dell’epopea dei paladini di Carlo Magno a teatro e nell’opera dei pupi. Tuttavia, la cultura popolare siciliana si dispensava anche nelle piazze grazie ai cantastorie. In appendice a questa edizione, è stata proprio aggiunta l’introduzione di Gentile alla riedizione postuma dei Canti popolari siciliani (Società editrice del libro italiano, Roma 1940) di Giuseppe Pitrè, medico di professione, ma esperto di demopsicologia. Secondo Gentile, il lettore poteva leggere Pitrè non soltanto per puro interesse storico, ma anche per suggestionarsi del suo pensiero lirico, che Gentile definì come modello di una «eterna Sicilia poetica».
Il filosofo di Castelvetrano, da un lato, rimpiangeva con una vena nostalgica il «tramonto» della cultura siciliana, ma, dall’altro, sperava in un inserimento di essa nella grande cultura nazionale che stava concretizzandosi con fatica. Considerando gli aspetti negativi che rischiavano di comportare una astoricità di questa terra, Gentile sembrava piuttosto voler promuovere una sicilianità esule dall’immobilismo, dai particolarismi e dal conformismo. In quei decenni cruciali vissero Giovanni Verga, Luigi Pirandello, Federico De Roberto, Luigi Capuana, Mario Rapisardi e Luigi Natoli. Occorre ricordare l’eminente contributo di questi autori siciliani alla letteratura italiana. Nonostante il modello egemone di «piemontesizzazione» nel Risorgimento, vi fu comunque un’importante partecipazione della classe politica siciliana all’eterogenesi dello Stato unitario: ad esempio, antesignano del liberalismo anti-borbonico nell’Isola fu il giurista Emerico Amari. Inoltre, dall’Unità d’Italia fino alla contemporaneità di Gentile, la Sicilia espresse ministri e presidenti del consiglio come Francesco Crispi, Antonio Starabba di Rudinì e Vittorio Emanuele Orlando. Lo stesso filosofo di Castelvetrano venne nominato ministro della pubblica istruzione (1922-1924) lasciando un’impronta indelebile di pedagogia nazionale, ritenuta una fase ulteriore del processo risorgimentale. La storia ha sancito quanto il destino della Sicilia fosse legato in un rapporto di reciprocità al destino dell’Italia. In questo testo del 1917 Gentile rimembrava le sue origini come elemento di ricchezza spirituale, proprio negli anni dell’interventismo bellico e del suo sostegno al «fronte interno», mentre centinaia di migliaia di siciliani condividevano la vita di trincea con altrettanti compatrioti provenienti dalle più disparate città e campagne d’Italia.
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