Matteo Antonio Napolitano (1989) è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, Motorie e della Formazione dell’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma. Nello stesso Dipartimento è titolare anche dei corsi di Storia contemporanea - Seminario laboratoriale di Analisi delle fonti e Storia contemporanea C.A. Insegna, inoltre, Storia contemporanea del crimine e Storia e istituzioni dell'Asia nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Sociologiche del medesimo Ateneo. È membro del Comitato Scientifico della Rivista «Europea». Tra le sue recenti pubblicazioni:  c Verso l’Europa unita. Il percorso politico-istituzionale di Giulio Bergmann(2020); curatela di V. Cian, Ricordi d'un ottuagenario, introduzione di S. Bartolini (2023);Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino (2023; vincitore del Premio "Emilio Colombo" per la saggistica storica dell'Unione Europea nell'ambito del Premio Letterario Basilicata).

Recensione a: J. Székely, Tentazione, trad. it. di Vera Gheno, Adelphi, Milano 2023, pp. 787, € 16,00.

Nel presentare Tentazione, romanzo scritto dall’ungherese János Székely, Natalia Aspesi ha parlato di un «capolavoro fagocitato dalla storia, dove un bambino nato sotto una cattiva stella insegue ardito la sua fortuna». A rimanere inghiottito dalle vicende della prima metà del Novecento, ad ogni modo, non fu solo il libro, ma anche il suo autore, un intellettuale che ebbe una vita incredibile e rocambolesca, come tante di quelle restituite a eterna contemporaneità dal secolo breve.

Székely nacque a Budapest nel 1901 e intorno ai diciotto anni si trasferì a Berlino, città nella quale coltivò la sua prima vocazione, quella di sceneggiatore, che lo portò a scrivere soggetti per il cinema muto e a lavorare con attori e attrici del calibro di Marlene Dietrich e Willy Fritsch, entrambi suoi coetanei. La scena tedesca aprì a Székely, grazie ai buoni uffici di Ernst Lubitsch, le porte di Hollywood, contesto nel quale poté consacrarsi, ottenendo grandi successi e arrivando nel 1940 all’Academy Award for Best Story con la pellicola Arise, my love (Arrivederci in Francia) del regista Mitchell Leisen, firmata con il pen name John S. Toldy, largamente utilizzato nel periodo americano e alternato al più riconducibile Hans Székely.

Gli anni Quaranta furono molto produttivi per l’autore ungherese, invero. Nel 1946 pubblicò – sotto un altro pseudonimo ancora, quello di John Pen – Tentazione (Kísértés/Temptation, portata in inglese dallo stesso Székely con l’aiuto di Ralph Manheim, traduttore tra le altre di una nota edizione statunitense del Mein Kampf, uscita nel 1943), la sua opera maggiore, divenuta subito popolare e, al contempo, destinata a un lungo oblio: nel suo paese natio, le copie – distribuite nella versione originale – vennero ritirate dal commercio e mandate al macero non appena si scoprì la reale nazionalità del fantomatico scrittore John Pen. Nel pieno della fobia maccartista, all’inizio degli anni Cinquanta, Székely fu costretto a rifugiarsi in Messico per poi ripiegare a Berlino Est, chiamato a collaborare con la DEFA (Deutsche Film Aktiengesellschaft), l’ente cinematografico di Stato della DDR. Il ritorno a Berlino doveva, in realtà, costituire una ulteriore tappa intermedia verso il rientro in patria, mai realizzatosi. Székely morì nel 1958, in attesa di ottenere un visto d’ingresso nell’Ungheria ancora sconvolta dall’intervento sovietico del 1956.

Questi particolari biografici, soprattutto i legami proficui con il mondo del cinema, rappresentano dei punti di riferimento per la lettura di Tentazione, non soltanto perché le circostanze narrate appartengono in buona parte alla storia personale dell’autore, ma anche per la struttura – molto evocativa nella sequenza delle immagini offerte al sogno e alla realtà reinventata dalla conformazione psichica di ogni lettore, quasi a prefigurare l’intervento di una macchina da presa – e per i temi a essa sottostanti: il desiderio di redenzione individuale che Béla, il protagonista del romanzo, incarna; la decadenza e la corruzione dei costumi borghesi nel lungo tramonto mitteleuropeo; e, non ultimo, il rapporto di ogni «creatura» con il limite della umana finitezza, – parafrasando i versi ungarettiani – con lo scontare vivendo la propria morte.

Nell’impegno e nella sofferenza di Béla sulla strada del riscatto, lastricata da personaggi degni del miglior Charles Dickens – orfani sfruttati e lasciati in miseria, ragazze madri, una anziana e meschina signora e molti altri –, si identifica la spina dorsale dell’intero romanzo. Per narrare il percorso del protagonista, Székely si avvale di una prosa impetuosa e ironica, sostanzialmente priva di pause – come è la vita e l’andare dell’uomo – e scevra di elementi che possano, nel lettore, ridurre allo stucchevole il senso di compassione nei confronti del processo di crescita di questo giovane appassionato e dannato. All’interno del cammino di Béla, l’autore assegna alla cultura un ruolo di rilievo: il protagonista mostrerà precoci doti poetiche, non appena avrà la possibilità di frequentare la scuola diverrà il migliore fra gli studenti, cercherà di apprendere da autodidatta i rudimenti della lingua inglese per poter un giorno sbarcare in America, comprenderà dai libri dell’amico e collega Elemér le basi del socialismo, arrivando prima degli altri a individuarne i limiti applicativi, nel passaggio dalla teoria alla prassi.

La figura di Béla si colloca, in questa costruzione, nell’alveo di una tradizione letteraria che varia dall’eroe e poeta nazionale Sándor Petőfi all’Huckleberry Finn di Mark Twain, fino al Martin Eden di Jack London. L’idea di una ascesa, ad ogni modo, è rintracciabile anche in alcuni significativi elementi simbolici. Non per un caso, una volta assunto al Grand Hotel, il primo impiego di Béla sarà quello di addetto all’ascensore – difficile non andare per associazione mentale al Lobby Boy del film di Wes Anderson Grand Budapest Hotel (2014) –, situato al piano terra, il piano in cui ci si incontra, confronta, mescola e scontra, ma destinato a salire, un trasferimento metaforico valido tanto per l’avanzamento sociale, quanto per la purificazione e l’accesso alle chiavi profonde della conoscenza. Piace pensare che un altro ungherese, Ferenc Karinthy, avesse letto Tentazione prima di scrivere Epepe (1970) e assegnare a una ragazza bionda, addetta all’ascensore di un hotel, il ruolo di spiraglio di salvezza di fronte a un contesto segnato dalla incomunicabilità.

Interessante anche l’uso simbolico del linguaggio. Sul treno che lo riporterà a Budapest dopo l’esperienza con la mefitica mammana zia Rozika, Székely mette nella bocca di Béla, autodefinitosi «mendicante straccione» (p. 171), la nota locuzione «Dietro di me il diluvio» (p. 172), attribuita a Luigi XV di Francia e Madame de Pompadour, ripresa da Dostoevskij e Marx – e anche da Lucio Battisti e Pasquale Panella («Dopo di noi non spioverà / Dopo di noi il diluvio», Il diluvio, in Don Giovanni del 1986) – e utilizzata dall’autore per creare una interessante dissonanza tramite la rottura delle barriere “di classe” nel registro linguistico.

La maturazione di Béla viaggia, all’interno del romanzo, in parallelo con la decadenza della borghesia nel contesto mitteleuropeo – tematica molto cara altresì a Sándor Márai, anch’egli magiaro, che visse questo decadimento come una tragedia, sia personale che collettiva –, ben identificabile nella lussuria e nella corruzione dei costumi incontrate dal protagonista al Grand Hotel, soggetto letterario per eccellenza – si ricorda, ad esempio, la celebre opera della scrittrice austriaca Vicki Baum, Grand Hotel (Menschen im Hotel), datata 1929 –, vera e propria istituzione nell’Europa della Belle Époque e, in generale, della prima metà del Novecento. In questo contesto, Béla entrerà in contatto con le vibrazioni forti delle scelte esistenziali decisive, tentato tra bene e male, giusto e sbagliato, onesto e sleale, finendo nelle maglie di una umanità molto varia: personaggi ambigui – come quello della “esimia signora” –, spie, cospiratori, uomini di regime (quello del reggente Miklós Horthy), arrivisti di ogni tipo e così via.

Alla fine del lungo percorso – dal finale in realtà aperto – di Béla, illuminato nelle pagine di Székely, quanto rimane in termini esperienziali per il lettore è la lotta per la vita piena condotta dal giovane protagonista, costretto sin dai tentativi della madre di interrompere la gravidanza indesiderata a fronteggiare i pedoni bianchi mossi dalla morte contro di lui; la stessa Grande Mietitrice che proverà a opporgli, senza successo, la fame, il freddo, la privazione del sonno, il pericolo delle malattie sessualmente trasmissibili, la galera, il cinismo e la violenza. János Székely racconta dunque, in fondo, la più grande “tentazione”: quella di vivere, nonostante tutto, nella plenitudine e nella integrità del nostro essere. Ognuno con i suoi contenuti e i suoi abissi, ma sia quel che sia deve essere Vita.

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