Luca Tedoldi insegna Filosofia e Storia nei licei e si occupa di Teoria politica e Teoria dell'argomentazione. Da quasi dieci anni è impegnato nel favorire le tecniche di dibattito nelle scuole; nel 2016 è entrato nella Rete Wedebate e ha diffuso il metodo World School Debate partecipando a tornei e convegni.
Recensione a: R.A. Ventura, La regola del gioco, Einaudi, Torino 2023, pp. 220, € 15,00.
Occorre farla finita con la parola “ambaradàn”? Dovremmo schivare l’espressione “fare il portoghese”? Se non capiamo un certo discorso, dobbiamo censurare i consueti “parlare arabo” o “parlare cinese”? Quando vogliamo consigliare a chi ricopre un ruolo pubblico un comportamento più decoroso e pacato, dobbiamo ricordarci di non inciampare nella parola “pescivendoli”, per non turbare la sensibilità di vende il pesce? Se qualcuno ci dicesse che il nostro modo di portare i riccioli è un po’ “afro”, dovremmo sospettare del sottofondo etnico della parola? Ed è razzista dire, quando fingiamo di non capire qualcosa, che stiamo facendo “gli indiani”? Dovremmo smettere di usare la parola “villano”, per evitare di offendere chi viva in campagna?
Alcuni di questi esempi sono tratti da La regola del gioco, saggio dello studioso Raffaele Alberto Ventura, che, avvalendosi della pragmatica del linguaggio, ribadisce che parlare è agire e che occorre stare in guardia dai rischi e dai danni della comunicazione, soprattutto quella on line. Non è più il tempo della rilassatezza, il web non è l’allargamento di una serata con un gruppo di cari amici: diamoci tutti una regolata ed arrendiamoci «al ritorno di una maggiore formalità» (p. 136).
Questo tono allarmato e materno trapelava anche dalla traccia di un tema di Maturità del 2022, in cui Vera Gheno e Bruno Mastroianni indicavano ai diciottenni italiani la strada della moderazione e dell’autocensura, ricordando che certe frasi scritte per una circostanza informale potranno essere usate contro di noi, anche a distanza di anni, in un ambito professionale, magari impedendo la nostra assunzione. Dopo anni di sbalordimenti prodotti dall’assistere all’espressività irriconoscibile di persone che ci parevano normodotate nella vecchia vita libera da tastiere, ora s’invoca una maggiore responsabilità comunicativa.
Riesumando dall’oblio un trattato di filosofia morale di più di quattromila anni fa, un enorme vademecum egizio di rispetto e buone relazioni, Ventura ci esorta a non prendere per capricci le reazioni di chi si sente calpestato da un sottinteso; forse perfino noi, proprio nel momento in cui non diamo il giusto peso a certe interazioni, siamo diventati dei piccoli aggressori. Chi dispone di maggiore capitale culturale, dovrebbe farne un ethos per rispettare gli altri e non dei guantoni da boxe per umiliarli al primo disaccordo. Lo diceva già il saggio Ptahhotep, vigile morale ante litteram, anzi, diciamo pure woke del XXV secolo A. C., che insegnava la virtù della mitezza e dell’autocontrollo e che permette una scintillante sovrapposizione tra l’arcaico ed il presente. Dovremmo tenere conto del contesto e della reputazione che ci precede, altrimenti una banale gaffe si trasforma in poco tempo nella bancarotta del nostro capitale reputazionale e morale. Non bastano la cortesia e le buone intenzioni, perché il tribunale dei social può innervosirsi ogni giorno ed il piagnisteo degli accusatori digitali è ben lontano dalla carità interpretativa: «Andiamo verso un mondo di malintesi permanenti» (p. 49). A molti sarà capitato di doversi giustificare per un nonnulla; ad esempio, se digiti: «Quanto amo il paese xxx-ate di sotto!» sarai aggredito da quelli del paesino limitrofo: «Come ti permetti di denigrare xxx-ate di sopra!»; però, oltre a quelli che vorrebbero strangolarci perché provenienti dalla frazione limitrofa a quella che abbiamo appena celebrato, ci sono anche coloro, non tutte code di paglia o vittimisti, che allungano la tassonomia dei gruppi umani e categorie che dovremmo rispettare e che sicuramente non rammentiamo nella loro sempre dinamica totalità.
Dietro ogni minuto d’attenzione ce ne sono due di gogna. Escluse le ipotesi che al di là degli scambi esagitati ci possa essere un percorso per ricostruire l’arte del paziente dialogo e che oltre le maschere dell’esibita virtù si possa procedere verso un accidentato progresso morale o un’inclusione che non sia assimilazione, prevale in Ventura uno sguardo preoccupato, alieno dalla tesi della salubrità dei conflitti del Machiavelli dei Discorsi ed anche riluttante a sviluppare certe precisazioni presenti nel testo:
Quanto agli insulti, sembra ovvio dire che vanno evitati. Ma immaginate un mondo senza insulti. Un mondo in cui le parolacce non esistono, o non possono essere pronunciate. Un mondo liscio e politicamente corretto in cui nessuno viene offeso per il suo aspetto o la sua provenienza geografica, per i suoi difetti o la sua professione. Sarebbe un paradiso, credete? E invece è probabile che finirebbe presto a botte. Perché le parole violente, come ha suggerito il linguista Filippo Domaneschi, sono ciò che ci protegge dalla violenza reale. Una extrema ratio, una barriera, in qualche modo uno sfogo: potremmo dire una catarsi, proprio come nel teatro antico, mettendo in scena una certa condotta, si purificava la società (p. 137).
I diversi esempi citati ci ricordano che i contesti interpretativi differenti, con le loro attese, con i loro impliciti, con i loro diversi registri, scatenano terremoti e bruciano carriere. Possiamo controllare tutto, ma un trigger malandrino a favore di polemica può sempre sfuggirci. Ogni frase e soprattutto ogni battuta umoristica può contenere tracce seppur minuscole di sessismo, razzismo, omofobia, transfobia, abilismo, ageismo, bellicismo, colonialismo culturale, eteronormativismo, specismo, orientalismo, blasfemia, insensibilità nei confronti dei disturbi alimentari, dei problemi ecologici, dei corretti modi di cucinare una certa pietanza. Senza volerlo possiamo incappare nel mansplaining, nel deadnaming, nel misgendering, nello slutshaming, nel pink o green o rainbowwashing: tutte queste parole inglesi per dire che «l’igiene del linguaggio è diventata una posta in gioco centrale per la sopravvivenza della società multiculturale» (p. 138).
Nella nuova agorà affollata di utenti nervosi e non sempre consci di ciò che digitano, siamo diventati responsabili di ciò che gli altri capiscono, più che di ciò che diciamo davvero; solo così si spiegano queste spaventate evocazioni da fallacia del piano inclinato: «Se la Prima guerra mondiale venne scatenata da una singola pallottola, non è da escludere che i conflitti del futuro possano nascere da un banale insulto» (p. 138). In sostanza, nonostante l’intenzione puramente descrittiva, l’uso insistito delle iperboli allarmistiche mostra un Raffaele Alberto Ventura come quasi già sconfitto, superato dal panico della frammentazione sociale e dalla tentazione profetica, privo della speranza che un mondo politeista, in cui tutti hanno o sembrano avere delle buone ragioni, riesca a distinguersi da un perpetuo stato di natura hobbesiano. Sembra che in quella guerra di tutti contro tutti, in quella drammatica eccitazione delle ostilità, quasi fosse un Israele mondializzato, nel suo web da incubo in cui gli attivisti hanno sempre pronta la ghigliottina, siano finite l’indifferenza e l’assuefazione, sia impossibile l’oblio e l’attenzione non sia più, come del resto lui stesso ammette, «ipersollecitata, inflazionata, e poco reattiva» (p. 35).