Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: V. Codeluppi, La morte della cultura di massa, Carocci, Roma 2024, pp. 115, € 13,00.

Questo piccolo, denso volume di Vanni Codeluppi rappresenta a nostro avviso un sostegno a chi voglia orientarsi in un contesto (culturale, politico, “umano” in senso ampio) come il nostro, sempre più caotico e inaridito. Viviamo nell’epoca della frammentazione, non c’è dubbio. Per così dire, ci si accorge sempre più chiaramente del lato negativo, “pesante” della globalizzazione, della fluidità totale delle informazioni e delle identità, nonché della supremazia inattaccabile dell’individuo produttore e consumatore (il cosiddetto prosumer), vero idolo delle società ipermoderne.

I media offrono sempre di più masse di prodotti “culturali” sempre più accessibili: ma questa sovrabbondanza finisce inevitabilmente per generare un impoverimento di fatto. Per esempio,

Netflix ha dichiarato che circa l’80% dei contenuti guardati viene scelto dagli abbonati in base ai suggerimenti ricevuti dall’algoritmo dell’azienda. […] È probabile che ciò non risolva il problema odierno di fronteggiare l’enorme quantità di prodotti culturali che gli vengono offerti, quantità che inevitabilmente lo costringono a scartare qualcosa che ritiene possa essere altrettanto interessante e gratificante. Allo spettatore, cioè, accade quello che capita a un consumatore di un ipermercato odierno, che nelle diverse ricerche empiriche condotte dagli psicologi sociali ha dimostrato di essere spesso frustrato e in difficoltà quando si trova davanti al gigantesco numero di prodotti che sono esposti sugli scaffali e alle sempre più complesse scelte che ciò comporta (p. 61).

Non è il caso comunque di cadere in rimpianti fuori luogo. Può essere utile tuttavia tornare ai concetti  dei “classici”, appunto per renderci conto che le idee forti sulla società di massa, delle comunicazioni di massa, delle televisioni generaliste e della midcult appartengano ormai al passato. O meglio: il contesto in cui essi devono essere messi alla prova è totalmente diverso.

Ripartiamo dalle analisi della Scuola di Francoforte, di Umberto Eco e Roland Barthes, Christopher Lasch e Pier Paolo Pasolini (le famose lucciole) sui consumi (anche culturali) di massa, sul dominio del kitsch e sul nazionalpopolare. Sono tutte letture ancora utili per decifrare la complessità nebbiosa del mondo occidentale, ormai vittima di una spettacolarizzazione totalitaria di tutti gli aspetti della vita sociale e individuale. Ma si tratta, come dicevamo e come ben dimostra in queste pagine Codeluppi – uno dei maggiori esperti italiani di sociologia dei consumi e dei media in Italia – di affrontare una nuova realtà, segnata dalla frammentazione e da uno scollamento (forse irrimediabile) fra ciò che consideriamo tuttora “cultura” (la letteratura, il cinema, la musica) e le forme (piuttosto informi) emergenti dei prodotti artistici. Anche qui prendiamo un solo esempio:

Negli ultimi decenni, le persone si sono abituate all’idea che tutta la musica debba essere considerata pop, un termine che sta per popular (“popolare”) ovvero qualcosa che viene prodotto industrialmente e massicciamente consumato attraverso i media. Ciò è il risultato dell’intensificarsi dell’interesse sociale per l’immagine dei musicisti e del conseguente indebolirsi dell’attrazione esercitata da parte del livello qualitativo del linguaggio musicale (p. 74).

È il trionfo del banale, è la crisi delle narrazioni (qui è importante il riferimento ad esempio ai lavori di Byung-Chul Han), è il dominio del “metodo-Marwell” e così via. Ciò che conta è che dobbiamo oltre alla critica dei consumi televisivi e musicali, essendo entrati stabilmente nel regno iperfluido e digitalizzato del “superficiale” (detto senza alcun intento snobistico), del poco (pochissimo) e subito. Se pensiamo che l’idea tradizionale (moderna) di “cultura” era legata alla profondità, si capisce bene che siamo immersi in un’altra atmosfera.

La crisi irreversibile delle ideologie, la crisi del discorso storico, l’appiattimento forzato sull’attualità di ogni informazione, la riduzione della vita a facciata instagrammabile, l’ossessione del divertimento come dovere morale (oltre che come strategia obbligata di marketing), pongono serie domande a chi ancora appartiene e lavora nell’altro mondo, quelli dei fantasmi (i libri, il cinema, l’arte, l’accademia, ma anche una certa televisione). Quanto tempo c’è ancora prima di essere inghiottiti? E che ruolo può avere in particolare l’università per arginare, o almeno per ritardare il più a lungo possibile gli effetti di questa apocalisse indolore?

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