Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.
Siamo in Normandia, in un piccolo paese di contadini, nel giugno del 1835. Pierre Rivière, un giovane di appena vent’anni, uccide con una specie di roncola la madre, la sorella e il fratello più piccoli. Viene subito individuato come responsabile, anche perché ci sono dei testimoni oculari. Fugge, rimane nascosto per circa un mese dormendo nei boschi, mangiando cose impossibili; alla fine viene arrestato e processato. È condannato a morte, successivamente però la sua pena sarà commutata nella reclusione perpetua. Nel 1840 si suiciderà. Si tratta di una storia apparentemente semplice dal punto di vista giudiziario, senza misteri, tranne che – ovviamente – per il movente: perché Pierre ha sterminato buona parte della propria famiglia? Il giovane subito dice di averlo fatto per aver ricevuto un ordine da Dio, poi ammetterà di aver voluto liberare il padre dalle angherie della madre e della sorella.
Pierre era il primogenito in una famiglia complicata, i genitori infatti non vivevano nella stessa casa: lui aveva scelto di vivere con il padre, con il quale lavorava anche nei campi. Sapeva appena leggere e scrivere – almeno all’apparenza. Aveva una brutta fama in paese, fra i vicini: era un po’ considerato l’idiota del villaggio. Era un ragazzo ostinato, taciturno, solitario, da bambino scappava di casa, parlava da solo, era anche violento e crudele, inventando ad esempio delle vere torture per gli animali che catturava ed aveva una particolare avversione per le donne. Una vita “bestiale” la sua, è stato detto, in un certo senso depravata… Eppure, il quadro era ben più complesso e il profilo di questo ragazzo deve essere un po’ precisato. In realtà Pierre era un giovane che apparteneva sì a una famiglia problematica, i genitori erano in lite continua e vivevano separati, ma che sapeva coltivare interessi che andavano ben aldilà del suo orizzonte quotidiano: aveva una memoria sorprendente ed era un lettore incredibilmente vorace. In passato aveva avuto ambizioni forse sproporzionate, sogni di gloria e addirittura di martirio, visto che le questioni religiose avevano tenuto occupata per molto tempo la sua mente. In sintesi: un «Plutarco dei contadini» che – vedremo presto come – si è voluto prendere il “diritto” (terribile) di rompere il silenzio in cui viveva, oltre che di “risolvere” in modo violento i guai della propria famiglia, volendo appunto “liberare” il padre e fare “giustizia”.
Sul caso di Pierre Rivière, all’epoca dei fatti l’eco fu piuttosto modesta, più che altro sulla stampa locale. Il dossier quasi completo, ricco anche di diversi documenti medico-legali, fu pubblicato su una rivista specializzata francese, gli “Annales d’hygiène publique”. Un secolo e mezzo dopo, il dossier e, in particolare, la bellissima memoria autobiografica scritta da Rivière durante la detenzione, è riemersa in tutt’altro contesto: siamo al Collège de France, una prestigiosa istituzione culturale parigina, nel 1971, dove da circa un anno Michel Foucault – che non ha bisogno di presentazioni – teneva i suoi corsi. Accanto alle lezioni pubbliche, Foucault aveva anche un seminario più ristretto, a cui partecipavano ricercatori e studiosi di diverse discipline: si trattava di un vero laboratorio, non di una scuola, e nell’annata 1971-1972 è appunto dedicato all’affaire Pierre Rivière. Prendiamo solo poche righe dal Riassunto del corso:
«Pierre Rivière: assassino poco noto del XIX secolo, che a vent’anni ha sgozzato la madre, il fratello, la sorella […]. Fra i molteplici dossier di psichiatria penale di cui è possibile disporre, questo ha attratto la nostra attenzione per diversi motivi: innanzitutto l’esistenza della memoria redatta dall’assassino, giovane contadino normanno, che amici e familiari consideravano al limite dell’imbecillità; il contenuto di questa memoria […]; le deposizioni relativamente dettagliate dei testimoni, tutti abitanti del villaggio, che esprimono le loro impressioni sulle “bizzarrie” di Pierre Rivière; una serie di perizie psichiatriche, ciascuna delle quali rappresenta strati ben definiti di sapere medico…»1.
Per queste e altre ragioni, ecco che Foucault e i suoi collaboratori sono rimasti «stupefatti» davanti al caso di Pierre Rivière e alla sua memoria. Dallo studio delle carte d’archivio, ripubblicate e trascritte fedelmente, è nato un volume di Gallimard nel 1973, dal titolo molto efficace (sono le prime parole dell’autobiografia: Moi Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma soeur et mon frère...), che verrà tradotto in Italia per Einaudi nel 1976. Oltre ai documenti processuali, sono compresi diversi saggi sul caso, opera di studiosi con approcci diversi, storici, filosofi, psicoanalisti.
Sono state fatte tante ipotesi sul perché Foucault si sia dedicato tanto a questo caso e sul perché il gruppo abbiano deciso di pubblicare la memoria di Rivière senza commentarla, lasciandola così com’era. Era forse il tentativo di fare un monumento a un ribelle? Oppure addirittura di fare l’apologia di un crimine? Oppure, ancora, Pierre Rivière era uno dei tanti «uomini infami», di cui Foucault si interessava allora? Sicuramente dalla storia di Pierre Rivière e dal mistero che tuttora permane in quella storia, emerge tutta una serie di voci dissonanti, di conflitti fra interpretazioni e fra poteri: è la questione ben nota dei rapporti fra magistratura e psichiatria, ma anche dei rapporti fra un soggetto (un omicida) e i poteri che lo devono valutare e giudicare. È interessante notare come il libro di cui ci occupiamo qui, continui a essere ripubblicato anche in Italia, anche se non si tratta di una lettura semplice, ma pur sempre affascinante, anzi inquietante. Da quel caso è uscito – così dice Foucault – un «libro per eruditi» senza dubbio, ma che, nel contesto dei primi anni Settanta, era considerato uno strumento utile anche per la critica dell’attualità, dei poteri – e consideriamo soltanto che in quel periodo Foucault era particolarmente attivo, da militante, proprio sul tema della penalità e delle prigioni. A questo riguardo, è interessante quello che ha scritto Paolo Crepet introducendo l’edizione Einaudi del 2000 (introduzione poi rimossa nell’edizione successiva, del 2020: distaccandosi dalle ideologizzazioni e dalle forzature nelle interpretazioni del testo, dalle possibili strumentazioni, cosa resta? Resta tuttora la eco di quella frizione, di quella crisi causata dalla condotta e dalle parole di Pierre Rivière. In questo senso, la sua rimane una figura comunque eversiva. Dunque, un caso eccezionale non per il fatto in sé, ma per gli effetti che ha prodotto e che continua a produrre su chi se ne occupi.
Ricordiamo anche che sul caso Pierre Rivière è uscito nel 1975 anche un film in Francia, diretto da René Allio, in cui lo stesso Foucault ha recitato la parte di un giudice nella versione non distribuita. Si tratta di un film oggi assolutamente inattuale, un esempio di “cinema storico” che ha cercato di mostrare nel modo più autentico possibile quel mondo così com’era, usando anzitutto le parole dei protagonisti (Pierre, testimoni, autorità). Foucault ha anche collaborato alla realizzazione del film e a trovare i finanziamenti (fra cui il suo editore, Gallimard).
Eccoci alla memoria di Rivière: un testo molto lungo, ripetitivo, puntiglioso, ma anche così preciso e nitido da lasciare davvero meravigliati. Anzitutto sorprende e sorprese all’epoca perché scritta da quello che si sarebbero potuto facilmente liquidare come un contadino ignorante. D’altra parte, è necessario leggere questo testo senza collegarlo alle perizie psichiatriche e al processo che Pierre Rivière ha subito e su cui torneremo presto. Rivière ha voluto scrivere la propria storia, anzi per così dire la “preistoria”, propria e della propria famiglia (in questo senso, giustamente si è parlato di una eterobiografia più che di una autobiografia in senso proprio). Inoltre, qui non si può separare l’autobiografia dal crimine: essa è stata pensata da Rivière già prima che il delitto avesse luogo e si “compiuta” assieme ad esso. Egli aveva anzi inizialmente pensato di pubblicare un vero “annuncio” dove avrebbe spiegato le ragioni del crimine che stava per compiere.
La prima parte della memoria, la più minuziosa e la più ricca di dettagli concreti, è dedicata al Riassunto delle pene e delle afflizioni che mio padre ha sofferte da parte di mia madre dal 1813 al fino al 1835, ovvero le traversie di un matrimonio tribolato, in cui il padre è sempre in balia dei tranelli e dei soprusi di una moglie impossibile. Pierre è il primogenito e vede le liti continue, le ripicche, la divisione dei genitori, le diatribe per interesse, con tanto di avvocati, giudici, creditori… Al centro ci sono sempre problemi economici, scontri per la “roba”: tutto ciò provocava scene di disperazione e di rabbia da parte del padre, che negli ultimi tempi minacciava anche il suicidio. Questa è ovviamente la versione di Pierre. Tanto è vero che, quando la madre è stata uccisa, era incinta del marito da sei mesi almeno, quindi i rapporti coniugali non dovevano essere del tutto interrotti…
E Pierre come parla di sé, della propria infanzia? Il suo è effettivamente il racconto di un ragazzo solitario, che veniva preso in giro a scuola e che aveva coltivato idee strane, mistiche persino, volendo fino a un certo punto avrebbe voluto fare il prete. In seguito aveva iniziato a coltivare idee di gloria più terrena (una ambizione sempre però indeterminata). Come dicevamo, leggeva moltissimo, la Bibbia, gli Almanacchi, libri di geografia e di storia antica, persino i pezzi di giornale che trovava in giro. Pierre passava il tempo inventando apparecchi per uccidere gli uccelli, come quello che definisce il «calibene». Erano tutti segni che facevano dire ai più che si trattava di un ragazzo anormale.
La terza parte della memoria racconta di come il giovane concepì il crimine, volendosi sacrificare per il padre, arrivando addirittura ad uccidere il fratello minore proprio per farsi odiare e non rimpiangere da Rivière padre. Pierre racconta dettagliatamente i preparativi, i cambiamenti repentini, le idee più o meno eccentriche, come quella di mettersi il vestito della festa per presentarsi decorosamente davanti alle autorità.
«Pensavo tra me: anch’io mi sacrificherò per mio padre, tutto sembra invitarmi a questa azione. Persino il mistero della redenzione, pensavo anzi che fosse più facile da comprendere, dicevo: nostro Signore Gesù Cristo è morto sulla croce per salvare gli uomini, per riscattarli dalla schiavitù del peccato e della dannazione eterna, era Dio, era lui che doveva punire gli uomini che l’avevano offeso; poteva dunque perdonar loro senza patire queste cose; ma io non posso liberare mio padre se non morendo per lui»2.
Subito dopo gli omicidi, Rivière decide di andare in paese ad annunciare il proprio gesto, credendosi una specie di eroe, di martire. Il suo orizzonte è sempre la morte, anche la propria. In realtà però decide di fuggire, rimanendo nascosto per circa un mese, vivendo nei boschi, girovagando, facendo la fame e decidendo di assumere a un certo punto (simulando?) il ruolo del pazzo, del visionario che avrebbe ucciso per ordine divino, in un certo modo, come se si volesse reintegrare paradossalmente nella società, appunto con l’abito del folle. Questa versione verrà però subito abbandonata per la confessione che è appunto il cuore della memoria.
Questo testo autobiografico segna tutta la vicenda processuale di Pierre Rivière. Al processo a Caen c’è uno scambio fra accusa e difesa sulla presunta alienazione mentale del giovane. I giurati, dopo alcune ore di camera di consiglio, decidono per la condanna a morte (la pena dei parricidi) e davanti allo stupore generale affermano che Rivière era un mostro, non un insensato. Successivamente, verrà presentato un ricorso, con nuove perizie mediche, opera di celebri specialisti parigini. Anche il ricorso però verrà respinto, ma sarà accolta la domanda di grazia da Luigi Filippo e la pena commutata in reclusione perpetua.
Ed eccoci alle perizie psichiatriche: il dossier ne presenta tre, le prime due risalgono all’epoca del processo. La prima, firmata dal dottor Bouchard, nominato dall’accusa, un medico di paese ancora legato alla vecchia medicina e addirittura alla teoria degli umori, dice che Rivière aveva un «temperamento bilioso-malinconico», ma che non presentava alcun disturbo mentale riconoscibile, sottolineando anche la lucidità con cui il criminale parlava del proprio delitto. Invece la perizia del dottor Vastel, medico specialista in una casa di cura a Caen, utilizza il lessico della psichiatria dell’epoca e trova in Rivière una vera alienazione mentale. Già negli ascendenti, da bravo alienista, ritrova le tracce della follia e “usa” la prodigiosa memoria del giovane come sintomo di una cattiva predisposizione, assieme alla esaltazione religiosa, alle idee di superiorità, all’isolamento affettivo, ma concentrandosi soprattutto sulle idee deliranti di Rivière (da cui questi si sarebbe poi riavuto) e lasciando sullo sfondo la questione della sua cattiva volontà, della sua immoralità.
Il terzo giudizio medico, quello della perizia parigina, firmata da medici illustri, come Esquirol, Marc, Leuret e Orfila, rappresenta invece un grado elevato di specializzazione psichiatrica. Si tratta di un testo che nasce in sostanza alla Salpêtrière a Parigi e che si presenta più come una petizione che come una perizia vera e propria. Qui l’obiettivo vero non è il riconoscimento in Rivière di un caso di monomania, cioè di una follia parziale – concetto inaugurato proprio da Esquirol qualche anno prima – a cui si univa una attività involontaria, incoercibile, irresistibile, ma soltanto il riconoscimento di un caso di aberrazione mentale.
Per concludere, sottolineiamo ancora soltanto che nel caso di Pierre Rivière c’è in nuce tutta la serie delle questioni legate alla psichiatria forense e alla pericolosità sociale, temi che domineranno in Europa nei decenni successivi. A Rivière è stata risparmiata la testa, ma è rimasto comunque a vita sotto il controllo dell’amministrazione penitenziaria, fino al suo suicidio, avvenuto nel 1840. Davanti al mistero di Pierre Rivière, alla sua apparente follia, non ci sono risposte; la sua stessa confessione motivata, ragionata e minuziosa, non risolve l’enigma. Fra l’altro, la “contesa” fra giustizia e psichiatria per controllare e “marchiare” il gesto di Rivière – una disputa non eclatante come avverrà di seguito nell’Ottocento e oltre, ma ben visibile – si è svolta proprio anzitutto leggendo la sua autobiografia. Il crimine di Rivière resta radicalmente ambiguo: gli specialisti hanno cercato invano segni certi della malattia mentale e per questa ragione le parole scritte da Rivière sono diventate così importanti. Il caso di Pierre Rivière continua a interrogare la psichiatria, la criminologia, oltre che la ricerca storica, come una figura inclassificabile: quel giovane contadino ha cercato di assumere un ruolo, cercando prima di sopravvivere da pazzo per poi – come era il suo progetto originale – morire da criminale.
NOTE
1 Michel Foucault,Teorie e istituzioni penali. Corso al Collège de France (1971-1972), Feltrinelli, Milano, 2019, pp. 250-251.
2 Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino, 1976, pp. 99-100.