Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Ancora prima della cura, l’obiettivo della terapia psicologica è eliminare l’idea di obiettivo.

Non è a colpi d’ascia che si esce dalle lande dell’ansia e della depressione; non si tratta di illuminare a giorno la disperazione, né di trasformare in ambiente traslucente la notte dell’anima. Per fare chiarezza si parte dalle penombre, dalle catene umbratili del pensiero che hanno preso stanza presso di noi. Si entra nelle catene, con una fiammella alimentata da un buon olio: è una vicenda di resistenza, in un deserto di ghiaccio. Si entra per comprendere, gettare sonde in profondità, strappare qualche briciola di significato al vuoto straziante.

La terapia psicologica è una navigazione da seduti. Si vive un lungo tempo di fronte a uno sconosciuto e a questo sconosciuto si offre la narrazione della propria vita, il buio dei traumi, le glaciazioni della disperazione, gli afflati che nonostante tutto sono la speranza contro ogni speranza. Si procede, da seduti, ma in una navigazione che a breve lascia il cabotaggio per il mare aperto, il fruscio del vento di quartiere per la tempesta di terre incognite, la strada dritta per la città negativa: intercapedini, pozzi di luce, ogive, scantinati, passaggi carrabili, giardini pensili, canali di aerazione, fenditure, svincoli, lucernari, strettoie interiori, fino a piazzole più estese, arcipelaghi lontani che profumano di altrimenti, che fanno risorgere l’idea di casa, il coraggio nell’idea del ritorno.

Il paziente ansioso, il paziente depresso, vive una crisi al quadrato: la sua sofferenza nasce in una città, in una nazione, in crisi. La costellazione dei sentimenti risente di quanto accade e attraversa la città. I suoi comportamenti non sono né bizzarri né esagerati: sono troppo coerenti con quanto accade nelle vie e nelle piazze.

Sofferenze legate al tempo e allo spazio, alla stabilizzazione della vita di settimana in settimana, al movimento nello spazio tenendo e approfondendo direzioni, traiettorie, funzioni: la produttività richiesta occlude ogni futuro possibile appiattendo a rotaia l’orizzonte. Ansia, panico, depressione, depersonalizzazione, derealizzazione, non vanno né aggiustate (non siamo dal meccanico) né sostituite né riportate nel qui e ora: sono forme di vita, per questo vanno arricchite di corpo e di sensi, di immagini e grammatiche, placide, neutrali e terrificanti.

Non si comprende molto a dare un nome alle sofferenze mentali, senza inserirle dentro un motore narrativo. Ansia e depressione non sono parole, monoliti gettati in una vita, il giorno mercoledì di una settimana di settembre. Ansia e depressione sono prima di tutto forme di vita, mondi di senso, architetture semantiche intricate ma nette, sentimenti e idee troppo coerenti e non viceversa, le cui catene dei pensieri e i moti sentimentali e morali vanno ad inghirlandare la vita quotidiana con una certa esattezza e prepotenza. Certo, disperazione, tedio, asetticità, superfluità, strazio, ma anche inquietudine conoscitiva, tenerezza, indugio, speranza, densità.

Il tempo del dolore, in Ungaretti e Pavese, è il tempo della verità. Il modo di declinare la propria ricerca dentro questo tempo è molto diverso, ma quello che accomuna i due è la sfibrante (e non passiva, non pessimista) e volontaria conoscenza dell’esistenza di un tempo che resiste ad ogni attesa, ogni speranza, che decide in maniera irrevocabile. Una conoscenza le cui sonde gettate non toccano il fondo, non possono toccarlo ed entrambi lo sanno già al grado secco di gettata.

Fintantoché una certa psichiatria e una certa psicologia incontreranno i soggetti a partire dai loro comportamenti, in un rapporto asimmetrico che preclude ogni destino comune, ogni presa di consapevolezza di essere-nel-destino-comune, allora, i soggetti malati, nell’incontro si comporteranno come li si vuole. Di più: il malato diventa il malato della disciplina, una accozzaglia di comportamenti che restano entro i confini del mondo della prevedibilità, enucleazione del mondo della vita, e quindi non propriamente il mondo della vita.

Laddove una psichiatria e una psicologia descrittive vedono comportamenti disfunzionali, un’altra psichiatria e un’altra psicologia che si potrebbero definire comprensive – dalla distinzione di Karl Jaspers del 1913 – vedono mondi di senso, architetture semantiche.

Che cosa manca alla psichiatria e alla psicologia oggi? Innanzitutto queste parole di Cristina Campo: l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile: la sola strada al mistero.

Attenzione a cosa? Alla vasta costellazione dei sentimenti, ognuno significativo e indispensabile, ognuno portatore di una simbolica, di una regia immaginifica, icastica, di orbite narrative e forza gravitazionale.

La psichiatria, la psicologia, oggi, conoscono e praticano una navigazione superflua, si orientano lì dove la luce è massima o nulla. Tuttavia, nella costellazione dei sentimenti la navigazione deve rigorosamente tenere conto degli arcipelaghi intermedi, già incontrati in precedenza: rammarico, sconforto, sventura, tedio, nostalgia, malinconia, frustrazione, mestizia, pietà, malasorte, inerzia, disperazione, e ancora tenerezza, indugio, letizia, pacatezza, speranza, estro, ardore, entusiasmo, goffaggine, clemenza.

Nella terapia psicologica, la tenerezza, per esempio, non ha solo il compito di comprendere l’incomprensibile, di accostarsi all’irrimediabile, di sostenere l’insostenibile con uno sguardo e un cenno di accoglienza nei confronti di una lacrima, di una sventura. La tenerezza, in questa relazione, forzerà il saturo, si farà largo nella disperazione, assumerà la configurazione topologica di un tokonoma: diventerà il luogo interiore del poter-essere altrimenti, una luce soffusa capace di donare sollievo, una presenza anche durante le notti dell’anima. Verso nuove Azzorre.

Il professionista, lo ripetiamo, deve essere disposto a lasciare il cabotaggio, verso le luci soffuse e rare, dove le diffuse spesso sono del tutto assenti. Deve essere disposto a farsi bastare decine di fari di Tiro, deve disporsi alla possibilità di un mancato incontro (o un ritardo) con il faro di Alessandria.

Tuttavia riteniamo impensabile un percorso educativo e un percorso di cura psicologica senza orientare lo sguardo verso la letteratura. È così fondamentale, sia per la formazione sia per il lavoro clinico delle sofferenze psicologiche, accostarsi al Palomar di Calvino, all’idiota principe Miskin di Dostoevskij, al rapporto di Proust con Albertine, alla figura dell’industriale di Bernhard, a Funes el memorioso di Borges, al modo di guardare di Antoine in Sartre, all’uso della cangianza negli scenari di Conrad, ai significati che assume la penombra (e le variazioni della lucentezza del nero) in Tanizaki, in Lalla Romano, in Bachelard. È in questa direzione che risulta possibile avviare una pedagogia, una psicologia, capace di rispettare, raccogliere, comprendere l’iridescenza della fondazione sentimentale e morale del soggetto.

Infine, ma senza concludere, che cos’ha in comune la terapia psicologica con la città?

L’essere steganografica: così come la città nasconde il suo passato dietro, sotto e attraverso le strutture che la costituiscono nel presente, nella terapia si nascondono immagini dietro a parole, parole dietro a immagini, catene di simboli sconosciuti dietro a luoghi familiari, esperienze vissute dietro a esperienze mai accadute.

Nella terapia psicologica il vero, il falso e il finto a volte si mantengono entro confini definiti, altre volte, i medesimi confini, si mettono in movimento, sfumano le certezze, angosciano, perturbano, sfaldano le placche tettoniche dell’animo. Ricomincia il lavoro di traduzione steganografico: riportare delle immagini nel territorio delle parole, riportare delle parole nel territorio delle immagini, portare entrambe dove la sofferenza circola libera, a vuoto e fa male. Dare parola e immagine alla sofferenza significa trasformare il dolore in storia.

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