Alessandro Della Casa (1983) è docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: J. Dewey, Liberalismo e azione sociale (1935), a cura di M. Calloni, Società Aperta, Milano 2023, pp. 111, € 12,00.

Come mai negli Stati Uniti il liberalismo, a lungo considerato sinonimo di progressismo e osteggiato solo dai difensori dello status quo, aveva finito per essere screditato perché giudicato pavido nei riguardi del cambiamento sociale? E quale liberalismo potuto riconquistare buona fama tra i progressisti? Questi erano i principali quesiti ai quali si proponeva di rispondere il filosofo John Dewey – «onestamente, intelligentemente un liberale» – nella sua opera politica più nota, Liberalism and Social Action. Questa, tornata oggi disponibile in italiano, era apparsa originariamente nel 1935, anno in cui il democratico Franklin Delano Roosevelt attuava la seconda e ancor più massiccia fase di riforme e interventi del New Deal.

Per rispondere ai quesiti che si era posto, il pensatore di Burlington ripercorreva l’origine e lo sviluppo storico del liberalismo anglosassone, a partire dalla «rigida dottrina di diritti naturali individuali indipendenti dall’organizzazione sociale» postulata da John Locke, il quale, comprensibilmente nel frangente in cui l’aveva formulato, aveva inteso fornire un fondamento intangibile alla limitazione del potere del monarca sull’individuo e sulle sue proprietà. L’eredità dell’impostazione lockeana, però, era stata tanto la cristallizzazione dell’«antagonismo fra governante e governato», tradotta in opposizione tra la società organizzata e l’individuo, quanto la tutela della proprietà privata che, interpretata in termini prettamente economici, da statico possedimento legittimamente acquisito tramite il lavoro in un contesto di economia agricola, si era mutato, nell’ambito dello sviluppo commerciale e industriale, in diritto alla libera e dinamica «produzione della ricchezza».

La subordinazione dell’attività politica a quella economica, implicata dall’identificazione sostanziale tra «leggi naturali» e «leggi della produzione e dello scambio», era stata rinvigorita dalle teorie fisiocratiche e smithiane, che avevano indicato nell’inintenzionale convergenza degli sforzi compiuti dai singoli per il proprio «guadagno personale» la fonte del «progresso» e del «benessere sociale», inficiata dall’intromissione statale che oltrepassasse la protezione della libera attività individuale. All’identificazione della libertà nell’assenza d’interferenze aveva poi contribuito il radicalismo utilitarista di Jeremy Bentham. Eppure, questi con lo studio degli specifici problemi ispirato al «metodo sperimentale» per l’elaborazione di riforme che massimizzassero la felicità per il maggior numero, aveva avuto, agli occhi di Dewey, il merito di dimostrare la capacità del liberalismo, svincolato dal retaggio giusnaturalistico, di «apportare radicali mutamenti sociali». Non a caso, superando anche l’atomismo psicologico benthamiano, era stato sulla scorta del diffondersi della dello storicismo romantico che la legislazione (dei Tories, rimarcava il filosofo) aveva regolamentato il lavoro nelle fabbriche.

La nuova attenzione liberale verso la dimensione collettiva, già presagita da John Stuart Mill, aveva trovato nutrimento nell’«idealismo organico» di matrice tedesca, di cui si era fatto testimone in Gran Bretagna Thomas Hill Green. «La filosofia dell’idealismo», spiegava Dewey, che dall’idealismo aveva mosso i primi passi verso l’affermazione dello strumentalismo pragmatista, «insegnò che gli uomini sono tenuti insieme dalle relazioni che derivano e si manifestano in una mente cosmica finale. Da ciò seguiva che la base della società e dello Stato è una collaborazione intelligente e lungimirante e non la forza e nemmeno l’interesse». Lo Stato, dunque, diventava un «organismo morale», frutto dello Spirito e della Volontà comune degli individui che lo compongono, grazie al quale ed entro il quale essi incessantemente realizzano sé stessi e la propria libertà, non più «immutabile» possesso.

I liberali, soprattutto negli Stati Uniti, dove più duratura si era rivelata l’impronta lockeana fissata nella Dichiarazione d’Indipendenza, si erano mostrati però incapaci di «affrontare i problemi organizzazione ed integrazione sociale» posti dai mutamenti sempre più accelerati dai progressi tecnico-scientifici, che esigevano di declinare con «senso della relatività storica» i suoi «valori durevoli» e interconnessi: la libertà, l’individualità e l’intelligenza. Pertanto il liberalismo avrebbe dovuto continuamente fungere da «mediatore dei trapassi sociali», affinché «i valori della esperienza d’ieri» divenissero «docili strumenti dei desideri e dei fini di oggi». La libertà, allora, non aveva più ragione di essere intesa quale mera «libertà economica», laissez-faire, che non aveva prodotto il benessere generale ascritto alla concorrenza, bensì l’accentramento delle forze di produzione nelle mani di una rapace aristocrazia industriale, moderna incarnazione di quelle «particolari forze oppressive» (schiavitù, dispotismo, «gabelle legali»), inizialmente ritenute inalterabili ma poi superate poiché riconosciute di ostacolo allo sviluppo umano. L’inveramento della libertà, quale liberazione individuale e stimolo reale allo sviluppo di «rudi individui» (il riferimento polemico era ovviamente il rugged individualism liberista difeso dal repubblicano Herbert Hoover) indipendenti avrebbe invece richiesto «il controllo sociale delle forze economiche» e l’«emancipazione da insicurezza materiale», preludio alla “libertà dal bisogno” proclamata qualche anno dopo da F.D. Roosevelt. In ultimo, gli stessi individui, più che atomi isolati e in sé compiuti, erano finalmente da concepire come esseri relazionali: immersi fin dall’inizio in un ambiente costituito dal reticolo di associazioni e appartenenze, che influiva sul continuo mutamento di ciascuna intelligenza integrata con l’altra.

Dewey individuava il fine del «liberalismo rinascente», ineludibilmente radicale, nell’applicazione dell’«intelligenza affrancata», socializzata e «cooperativa», della sperimentazione e revisione collettiva di ogni ipotesi e di ogni intervento – ossia del «procedimento scientifico», che tanti risultati aveva apportato nell’ambito della fisica, della tecnica e dei processi produttivi – alla direzione e alla pianificazione della società.  La riarticolazione graduale della democrazia, attraverso l’introduzione del metodo della scienza, avrebbe permesso di regolare le «richieste in conflitto» nell’«interesse di tutti – o almeno della grande maggioranza». Questo risultato, che presupponeva l’ampia disponibilità o l’induzione alla cooperazione e l’effettiva possibilità di un’efficace comunicazione reciproca trascurando effettivamente la complessa eterogeneità del tessuto sociale statunitense, non si sarebbe invece avuto, secondo Dewey, fermandosi al confronto dialettico, alla persuasione e alla competizione tra partiti, incapace di pervenire a una sintesi. Non più improntata al soddisfacimento della «classe economica dominante», la democrazia, così concepita, avrebbe avallato il «libero sviluppo individuale», senza ricorrere ai mezzi violenti o dittatoriali giudicati inevitabili dai marxisti, sul cui fine di una società senza distinzione di classe Dewey sostanzialmente convergeva; benché guardasse con maggiore interesse agli esperimenti di Robert Owen, ispiratori della pratica dell’autogoverno nella comunità di Hull House fondata da Jane Addams,  scomparsa nello stesso anno in cui usciva Liberalism and Social Action, a lei dedicato.

La proposta deweyana risentiva certamente del confronto in atto sul significato e sugli scopi del liberalismo statunitense (al 1935 risaliva anche Our Enemy, the State di Alfred Jay Nock, che argomentava in favore di quello che si sarebbe poi chiamato “liberalismo classico”, libertarianism o Old Right), scioltasi infine con la risemantizzazione dell’aggettivo liberal, senza altre specificazioni, proprio sulla scorta dell’interventismo economico rooseveltiano, da Dewey sostenuto, negli anni della Depressione. Ma tale rilettura, coerente con l’impianto pragmatista peraltro contestato dal lato conservatore per l’abbandono di ogni valore assoluto all’incessante mutamento, affondava le sue radici anche nell’idea di progresso che, incentrata sull’avanzamento delle conoscenze tecniche, sociologiche e psicologiche, largo seguito aveva avuto sul piano teorico e pratico sin dalla fine della Guerra civile. E quel progressisvism, che prefigurava più spesso (dai fratelli Henry e Brooks Adams a Rexford Tugwell) la compressione degli spazi della politica e della deliberazione a vantaggio dell’amministrazione e dell’organizzazione “scientifica” della società a opera o su consiglio degli esperti – da Dewey reputata incapace di interpretare la pluralità delle posizioni diffondere senso di responsabilità ed ethos democratico –, avrebbe percorso, come è evidente, un più lungo cammino rispetto all’«uso sociale dell’intelligenza» di Liberalismo e azione sociale e alla «comunità cooperante a tentar nuove vie» evocata in Individualismo vecchio e nuovo.

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