Lorenzo Paudice (1975) si è laureato in Filosofia presso l’Ateneo fiorentino nel 2002, discutendo la tesi La questione del valore in bioetica. Dal luglio 2004 al settembre 2010 ha collaborato con la SISMEL – FEF (Società Internazionale per lo Studio del Medio Evo Latino – Fondazione Ezio Franceschini) alla redazione centrale per la realizzazione di Medioevo latino. Bollettino bibliografico della cultura europea da Boezio a Erasmo (sec. VI-VII). Nell’a.a. 2015-2016 è stato Docente Incaricato di Storia della Filosofia Antica presso la Facoltà Teologica “San Gregorio Magno” del Monastero Ortodosso di San Serafino di Sarov presso la facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze. Attualmente è impegnato in un personale lavoro di ricerca e approfondimento storico-teorico del pensiero di L. Wittgenstein e dei maggiori esponenti novecenteschi dell’ordinary language philosophy (in particolare G. Ryle e J.L. Austin).
INCUBI IMPERSONALI.
INCONSCIO E DISSOLUZIONE DELL’IO IN
BUÑUEL E LYNCH
(PRIMA PARTE)
In questo saggio intendo prendere in esame alcune opere di Luis Buñuel (Un chien andalou, L’Age d’or, Il Fascino Discreto della Borghesia) e David Lynch (Eraserhead, Strade perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE)[1] quale espressione paradigmatica di ciò che potremmo definire una “logica onirica” della narrazione e/o rappresentazione filmica, contraddistinta dall’esplicita messa in questione della nozione tradizionale di ‘Soggetto’ come, rispettivamente, a) punto di vista unitario, stabile e chiaramente identificabile sugli eventi raccontati e mostrati sullo schermo; b) protagonista e/o agente degli stessi in quanto dramatis persona coerente e distinta da tutte le altre. In particolare mi sforzerò di evidenziare la matrice surrealista – dichiarata e programmatica in Buñuel, più indiretta in Lynch – di tali pellicole, quali esempi di un “cinema del profondo” mirante alla destrutturazione della storyline classica (analogamente a quanto attuato dalla letteratura moderna e post-moderna rispetto alla ‘forma-romanzo’ tradizionale) e a far emergere e tradurre in immagini il sogno, il rimosso, l’inconscio. Nella misura in cui tale destrutturazione coinvolge e revoca in dubbio la stessa identità dell’Io Narrante (il point of view, esterno o interno, con la cui prospettiva lo spettatore è chiamato e/o portato ad identificarsi) e Narrato (il/i protagonista/i del film), essa può venir letta come un tentativo di dar voce alla dimensione di quell’Es connotato – nell’ottica freudiana – proprio dall’Impersonalità, e dalla più completa estraneità alle esigenze del logos e della morale. E’ appena il caso di precisare che la presente analisi non vuol essere in alcun modo esaustiva, neppure limitatamente ai titoli considerati.
Buñuel.
Elevando la dimensione onirica e i suoi meccanismi costitutivi –variamente indagati e descritti dalla psicoanalisi – a principio fondamentale dell’arte e della stessa esperienza cosciente, il surrealismo operava un consapevole, deliberato rovesciamento della weltanschauung razionalistico-borghese, che vedeva nel sogno l’esperienza “irreale” e privata per antonomasia, di contro alla solida e ragionevole “normalità” del mondo “reale” pubblico, dominato dai princìpi dell’ordine, del decoro, del progresso economico-sociale etc. Nell’opera di Buñuel (unanimemente considerata la massima espressione cinematografica del surrealismo storico) tale rovesciamento si traduce icasticamente nella rappresentazione sistematica – tragica e beffarda insieme – della ritualità borghese quale insieme di “atti mancati” sempre reiterati ed invariabilmente frustrati: il connubio erotico in Un chien andalou e L’Age d’or, il prendere congedo in L’Angelo Sterminatore, la riunione conviviale in Il Fascino Discreto della Borghesia (autentica summa aurea della poetica buñueliana). Nella “surrealtà” del regista aragonese sono la “normalità” e la razionalità borghesi ad apparire fuori posto, irrazionali, ridicoli: il fallimento storico (e, insieme, il peccato d’origine) della borghesia sta appunto in questa sua costituzionale incapacità di accogliere in sé la dimensione profonda dell’Inconscio e delle sue pulsioni liberatorie (a cominciare da quelle erotiche), e nel suo ostinato e disperato tentativo – eternamente votato all’insuccesso – di sovrapporre ad esso le proprie regole e i propri codici di comportamento. L’“inibizione” dei protagonisti di L’Angelo (impossibilitati, pur in assenza di qualsivoglia impedimento fisico, ad uscire dalla dimora in cui si sono riuniti per una cena) e la “coazione a ripetere” di quelli di Il Fascino (che tentano costantemente di pranzare insieme, senza riuscirci mai) sono in tal senso due facce della stessa medaglia e sanciscono l’inanità e inconsistenza ontologica del mito borghese del “Progresso” quale irresistibile cammino verso il meglio: ciò che sembra essere la chiave di lettura dell’enigmatica sequenza più volte ripetuta in Il Fascino (e posta emblematicamente a chiusura del film), in cui vediamo tutti i personaggi percorrere insieme in silenzio una strada di campagna, senza alcuna meta apparente.
Se nella falsa coscienza borghese erano proprio le pulsioni inconsce più profonde a venir represse ed estromesse dalla “vita reale”, per trovare solo saltuariamente sfogo nell’esperienza onirica (privata, segreta e in qualche modo “clandestina”) del singolo, nel “mondo alla rovescia”[2] di Buñuel è il Sogno stesso – in quanto manifestazione pura e primigenia dell’Es, contro le censure e rimozioni dell’Io e del Super-Io – a divenire Principio Impersonale del Reale, e del Racconto che di esso può fornire il mezzo cinematografico: come nel celeberrimo incipit di Un chien andalou, il regista sarà d’ora innanzi colui che “taglia l’occhio” dello spettatore borghese per costringerlo a vedere ciò che le sue stesse ipocrisie e convenzioni hanno da sempre sottratto al suo sguardo. Violando clamorosamente ogni accordo tacito tra il Cineasta e il suo Pubblico circa la “moralità” e la “tollerabilità” di quanto può venir mostrato sullo schermo, il cortometraggio buñueliano si prefigge il compito programmatico di turbare, scandalizzare e disgustare i propri spettatori benpensanti[3] con una serie di shock visivi il cui filo conduttore sembra risiedere nel tema della mancata unione sessuale dei due anonimi protagonisti, e degli ostacoli incessantemente frapposti ad essa dalla morale borghese[4]. In questo senso anche Un chien è – nonostante le apparenze, e le proteste del regista contro qualsiasi tentativo di riconoscervi un senso compiuto – un’opera a suo modo “narrativa”, seppure d’una narratività che a bella posta ignora e infrange i tradizionali nessi d’ordine logico e temporale (cfr. le indicazioni cronologiche del tutto incongrue delle didascalie: “Otto anni dopo”, “Alle tre del mattino”, “Sedici anni prima”, “A primavera”). Ed è quantomai significativo che il momento culminante di tale narrazione sia rappresentato dallo sdoppiamento del protagonista in due alter ego, uno dei quali uccide l’altro con due libri trasformatisi in pistole: il trionfo dell’Inconscio deve necessariamente passare attraverso il sacrificio dell’Io (e del principio-cardine di ogni pensiero logico, l’identità o non-contraddizione), anche se la cruda sequenza finale dei due amanti sepolti nella sabbia e brulicanti di insetti sembra fugare ogni illusione circa la reale possibilità di una liberazione dell’Eros che non sia pure una vittoria del Thanatos e delle sue pulsioni autodistruttive.
Fin dal suo cortometraggio d’esordio, Buñuel non lascia dunque adito a equivoci in merito al proprio radicale pessimismo sulla condizione umana e sull’eventualità di una sua emancipazione storica di segno rivoluzionario (anarchico o marxista). L’idea di un Soggetto Umano Motore della Storia – sia questo concepito come Individuo, come Classe, come Élite Intellettuale etc. – è essa stessa un’illusione cristiano-borghese una menzogna che occorre smascherare e denunciare. “Fu il surrealismo” preciserà anni dopo il regista “a rivelarmi che nella vita c’è un senso morale che l’uomo non può esimersi dal considerare. Per mezzo suo ho scoperto per la prima volta che l’uomo non è libero. Io credevo nella libertà totale dell’uomo, ma con il surrealismo ho conosciuto una disciplina da seguire”[5]. Una dichiarazione a tutta prima sorprendente, nel suo ricondurre l’idea di moralità non alla libertà, ma all’assenza di essa – nonché nel suo legare assieme surrealismo e “disciplina”, contro ogni banalizzazione di esso quale ripudio di qualsivoglia regola e condizionamento etico e/o estetico. All’opposto, l’unica possibile disciplina morale ed artistica non potrà che consistere nell’accettazione e nel disvelamento integrali degli automatismi psichici profondi che governano l’esistenza umana, e nell’aggressione demistificante ad ogni ipocrisia di natura religiosa e ideologico-politica. Il surrealismo, da questo punto di vista, non è che il realismo condotto alla sua forma più radicale: da cui lo stile “oggettivo” e persino naturalistico adottato da Buñuel già dal successivo L’Age d’or (non a caso aperto da alcune sequenze documentaristiche sugli scorpioni), e l’onnipresenza di animali in tutta la sua filmografia.
Sebbene nel secondo film – e primo lungometraggio – buñueliano il tema della scissione dell’Io non sia presente in modo esplicito come in Un chien, quello “antiumanistico” (e antistoricistico) or ora accennato vi ha invece un rilievo centrale: il celebre prologo “maiorchino” – con i banditi dell’isola che decidono di prendere d’assalto gli arcivescovi sbarcati sulla scogliera, ma stramazzano uno ad uno[6] durante il tragitto – non potrebbe essere, a riguardo, più eloquente. Se il mondo borghese finirà, non sarà certo per iniziativa delle classi sfruttate, ma semmai per una qualche forma di auto-dissoluzione[7] (poco oltre nel film vedremo gli stessi prelati ridotti a scheletri). Così i numerosi atti di violenza e distruzione contro cose, uomini e animali che costellano la pellicola da un lato tradiscono la ferocia e la brutalità che covano sotto la “civiltà” e le “buone maniere” della haute bourgeoisie, dall’altro sembrano caricarsi di una valenza apocalittica che tocca il suo climax nel famigerato epilogo ispirato a Le 120 giornate di Sodoma di De Sade, con l’identificazione blasfema Duca di Blangis-Cristo.
Da sempre celebrato come l’esaltazione incondizionata dell’amour fou e della legge del desiderio oltre ogni convenzione sociale, morale, religiosa etc., L’Age d’or è perciò anche (e soprattutto) apoteosi dell’anarchia pulsionale ed istintuale contro la stessa idealizzazione romantica della passione amorosa: c’è effettivamente qualcosa di animalesco nella sensualità che travolge e domina i due protagonisti, dal loro amplesso iniziale nel fango all’abboccamento in giardino in cui ciascuno “divora” letteralmente le dita dell’altro, fino alla fellatio praticata dalla Donna al piede della statua etc. Inaugurando un procedimento divenuto poi tipico del suo cinema, Buñuel costruisce tutto il film come una successione di “quadri” relativamente autonomi e apparentemente realistici, in ciascuno dei quali è presente un qualche elemento incongruo, anomalo e/o assurdo, che tuttavia non sembra percepito come tale dai personaggi sullo schermo[8]: proprio come accade nei sogni, dove la sospensione e/o abrogazione delle ordinarie leggi logiche, fisiche e psicologiche è solitamente esperita ed accettata come affatto normale ed ovvia.
Che poi tutto il racconto si collochi in una dimensione interamente onirica è reso evidente dal completo annullamento di quella temporale e storica: l’Uomo viene arrestato durante la cerimonia di fondazione della Città Eterna e rilasciato nella Roma del 1930, nel mentre hanno luogo le orge sadiane del castello di Silling, nel XVII secolo… Per l’Inconscio il tempo non esiste, tutto è attualizzato nell’eterna dialettica Es-Io-Super-Io che riassorbe in sé passato, presente e futuro in un hic et nunc acronico perennemente incompiuto. Ogni evento reale non vi assume consistenza che per la sua risonanza simbolica: così la realtà storica della romanità imperiale-cattolica si trasfigura come simbolo e archetipo del Potere Politico-Religioso, da sempre insidiato dalle Forze ad esso antagoniste (le pulsioni erotiche e sadomasochistiche). Ma allora anche i due protagonisti del film – borghesi loro malgrado – a ben guardare non sono che simboli, vane ipostatizzazioni di quel Momento Ideale della Vita Psichica che è costituito dalla parziale vittoria di tali pulsioni. Non diversamente da Un chien (di cui costituisce a tutti gli effetti lo sviluppo tematico e ideologico), L’Age d’or è la messa in immagini di un incubo: anzi, dell‘Incubo di un’intera Civiltà – la Modernità cristiano-borghese – obbligata dalla Psicoanalisi e dal Marxismo a prendere atto, una volta per tutte, della propria mauvaise conscience.
Quarantadue anni dopo, in Il Fascino, quell’Incubo non sembra ancora dissolto: la Borghesia è più che mai viva e vegeta ed i suoi rappresentanti nel film (i coniugi Sénéchal, i tre Thenevot e don Rafael), pur nella loro tipicità, non sono dei meri simboli ma personaggi a tutto tondo ben caratterizzati psicologicamente. Essi paiono venuti serenamente ai patti anche con l’eros e la violenza, integrandoli alla bell’e meglio nel proprio sistema di vita: e tuttavia tale “normalizzazione” si rivelerà sempre più precaria ed illusoria, come sempre più labile il confine tra esistenza reale e sogno (di qualcuno dei protagonisti della storia). Benché la narrazione si presenti lineare e in essa sia dunque sempre possibile, in teoria, distinguere gli eventi ‘veri’ da quelli solo sognati, nulla impedisce di includere tutto il film nell’incubo finale di don Rafael affamato, e quindi di dubitare della stessa esistenza reale degli altri personaggi. Ma anche al di là di questa ipotesi radicale, l’individualità dei protagonisti di Il Fascino appare costantemente erosa e minacciata nei modi più sottili e imprevedibili: si pensi al memorabile sogno di Sénéchal in cui i commensali riuniti a tavola inaspettatamente scoprono di trovarsi su un palcoscenico e di stare recitando un copione teatrale di cui nemmeno ricordano le battute. L’esistenza borghese non è che una commedia, una mediocre messinscena che nasconde il nulla, fondata interamente sulle apparenze (cfr. la gag del vescovo-giardiniere scacciato in malo modo o accolto con deferenza dai Sénéchal a seconda dell’abito indossato) e sull’inganno (la valigia diplomatica di don Rafael impiegata per trasportare cocaina, la giovane rivoluzionaria dallo stesso rilasciata e poi fatta sequestrare dal suo servizio di sicurezza etc.), così prevedibile che in più punti il regista può divertirsi ad “occultarne” – a propria volta – il dialogo dietro il rumore di aeroplani in volo.
Ma si pensi soprattutto alla geniale trovata del “sogno nel sogno”, con il risveglio di Sénéchal che scopriamo in seguito essere parte (insieme all’incubo “teatrale” appena menzionato, che lo precede) di un altro incubo di Thenevot: vivendo solo di apparenza, i borghesi – sembra volerci dire Buñuel – si somigliano tutti, al punto che persino le loro più intime fantasie oniriche sono intercambiabili come maschere di scena. Così, via via che il film procede, tra un sorriso e l’altro s’insinua nello spettatore una genuina angoscia metafisica: ogni azione cui assistiamo potrebbe essere solo un ulteriore incubo, sognato dal personaggio che la compie o persino da qualcun altro che sta sognando di essere quel personaggio[9]. Non solo la vita è sogno, ma non è neppure detto che sia un nostro sogno. Ma fa poi tanta differenza?
Bibliografia
Abruzzese, A.-Masi, S. (1981). I film di Luis Buñuel. Roma, Italia: Gremese Editore.
Cattini, A. (2006). Luis Buñuel. Roma, Italia: Il Castoro.
Di Giammatteo, F.-Bragaglia, C. (2004). Dizionario dei capolavori del cinema. Milano, Italia: Bruno Mondadori.
Freud, S. (1966-1980). Opere. Torino, Italia: Bollati Boringhieri.
Jousse, T. (2010). David Lynch. Paris, France: Cahiers du Cinema.
Lynch, D. (2016). Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita. A cura di Chris Rodley. Milano, Italia: Il Saggiatore.
Mereghetti, P. (2010). Il Mereghetti. Dizionario dei film 2011. Milano, Italia: B. C. Dalai editore.
Morandini, L.-Morandini, L.-Morandini, M. (2014). Il Morandini 2015. Dizionario dei film e delle serie televisive. Bologna, Italia: Zanichelli Editore.
Note
[1] Per una prima informazione su trama e dati tecnici di queste pellicole – e delle altre menzionate nel testo – cfr. Di Giammateo-Bragaglia (2004), Mereghetti (2010) e Morandini etc. (2014). Per un approfondimento critico cfr. Abruzzese-Masi (1981) e Cattini (2006) su Buñuel, Jousse (2010) su Lynch; su quest’ultimo inoltre le interviste raccolte da C. Rodley in Lynch (2016).
[2] Cfr. in particolare il penultimo film di Buñuel, Il Fantasma della Libertà, costituito appunto da una serie di vignettes basate in prevalenza sul ribaltamento paradossale di altrettante ‘situazioni-tipo’ della moderna società borghese: la coppia che si eccita guardando… cartoline turistiche; i gendarmi che al corso di addestramento si comportano come scolaretti indisciplinati; il party in cui ci si riunisce a tavola per espletare i propri bisogni fisiologici e ci si ritira nella toilette per mangiare; i genitori che denunciano alla polizia la scomparsa della loro bambina pur avendola davanti agli occhi; il cecchino arrestato, processato, condannato e subito rilasciato tra gli applausi della folla etc.
[3] “Noi ci troviamo davanti al primo film della storia del cinema che, contrariamente ad ogni regola, è stato realizzato affinché lo spettatore medio non possa sopportarne la visione. ‘Un chien andalou’ è il primo film non attraente. Questa volontà di offendere era talmente spinta che passò il suo scopo. I borghesi, notoriamente masochisti, applaudirono dopo aver visto quel film che disturbava la loro digestione.” (A. Kyrou, in Abruzzese-Masi cit., p. 55). Il grande successo dell’opera presso il pubblico borghese irritò non poco Buñuel: “Ma che posso io contro i ferventi di ogni novità, anche se questa novità oltraggia le loro convinzioni più profonde, […] contro questa folla imbecille che ha trovato «bello» e «poetico» quanto, in fondo, non era che un disperato, un appassionato appello al crimine?” (ivi, p. 54).
[4] Cfr. ad es. la scena in cui l’uomo tenta di avvicinarsi alla donna ma ne è frenato dalla “zavorra” costituita da due pianoforti (sormontati da carcasse d’asino) e due Frati Maristi, simboli rispettivamente di un’Arte oramai putrescente e della Religione Cattolica.
[5] Cahiers du Cinema n. 36, giugno 1954 (Cattani cit., p. 6)
[6] Tranne il capobanda, interpretato da Max Ernst.
[7] Cfr. Mereghetti cit. su Il Fascino (p. 1219).
[8] Un esempio per tutti, la scena del ricevimento dei Marchesi X, in cui nessuno pare stupirsi/allarmarsi per: 1) il volto coperto di mosche del padrone di casa, 2) il passaggio di un barroccio nel salone, 3) l’incendio scoppiato in cucina (e le grida d’aiuto della cameriera che poi si accascia al suolo, presumibilmente senza vita). Altre volte l’incongruità risiede in azioni inappropriate e/o sproporzionate rispetto al contesto: cfr. il guardiacaccia che uccide il figlioletto perché gli ha fatto cadere a terra una sigaretta; la Marchesa schiaffeggiata dal protagonista per avergli versato addosso un po’ di liquore; il suicidio del Ministro – sfracellato contro il soffitto – dopo che il protagonista lo ha mandato al diavolo per telefono etc.
[9] Tale angoscia è accresciuta dall’inserzione, nel racconto principale, di altri tre sogni per così dire “collaterali” (i due narrati dal tenente e dal sergente e quello sul “brigadiere insanguinato”), che non hanno con esso alcuna attinenza diretta ma contribuiscono a disorientare lo spettatore ed a gettare un’ombra sinistra – di morte, crudeltà, vendetta – sull’universo del film, all’apparenza solare e boulevardienne. Anche l’ultimo di tali incubi presenta in parte una struttura “a scatole cinesi”: la storia del brigadiere torturatore e redivivo è inizialmente introdotta come aneddoto riferito da un gendarme ad un collega, salvo poi scoprire che questo stesso colloquio tra i due non è che un sogno… del commissario di polizia.