Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
E. Mauro, Anime prigioniere. Cronache dal Muro di Berlino
Feltrinelli, Milano 2019 [rist. 2021], pp. 203, € 11,00.
Wir sind das Volk! (“Noi siamo il popolo”); die Mauer muss weg ! (“il Muro deve crollare”). Nel concitato mese d’ottobre 1989, a ridosso della manifestazione ufficiale del giorno 7 per i quarant’anni dalla fondazione della Ddr, i tedesco-orientali osano scendere nelle piazze a Lipsia, Dresda, Rostock; persino a Berlino Est; persino nelle adiacenze del fortilizio del potere socialista. Il regime scricchiola; già da agosto, in un crescendo di febbrile ansia di libertà, i cittadini della Ddr varcano i confini per la Cecoslovacchia e da lì raggiungono l’Ungheria (il cui governo aveva imboccato sin da febbraio la strada di audaci riforme liberali) o addirittura l’Occidente, oppure accedono in migliaia negli edifici della rappresentanza diplomatica tedesco-occidentale e chiedono asilo politico. Da Mosca il Politbjuro fa sapere che non presterà assistenza – né economica né logistica né tantomeno militare – alla Ddr presa dalla morsa della crisi. Gorbaciov in persona aveva d’altronde ammonito Erich Honecker proprio a margine dei festeggiamenti del 7 ottobre: «Se si resta indietro, la vita ci punisce immediatamente». Eppure, ancora a gennaio Honecker aveva solennemente dichiarato ai dirigenti della Sed (il partito socialista) che il Muro (simbolo grezzamente materiale del regime) sarebbe rimasto dov’era sino a che il governo lo avesse ritenuto necessario. I Vopos continuavano a sorvegliare e a uccidere.
A febbraio, in un disperato tentativo di fuga rafforzato dall’erroneo convincimento che alle pattuglie di sorveglianza del Muro fosse stato revocato l’ordine di sparare a vista, era caduto sotto i colpi delle mitragliatrici il ventunenne Chris Gueffroy: l’ultima vittima diretta del Muro. Al giovane è oggi dedicata una via berlinese, la Gueffroyallee. L’ultima vittima “indiretta” cadde appena un mese dopo, a marzo: un ingegnere di 32 anni, Winfried Freudenberg, approntata segretamente una rudimentale mongolfiera, si era innalzato nel notturno cielo berlinese e aveva raggiunto il settore occidentale ma, sfuggitogli il controllo dell’apparecchio, si era schiantato al suolo perdendo la vita. E a settembre – alla vigilia dell’ultimo atto – un altro giovane, il ventiquattrenne Mario Wächter, tenta la fuga notturna a nuoto, sulla costa baltica; una motovedetta di frontiera lo sta per catturare ma un provvidenziale traghetto tedesco-occidentale lo avvista e lo recupera prima degli aguzzini. Una fuga a lieto fine, che da lì a un mese non sarebbe stata più necessaria.
Storie di vita minima, tra le innumerevoli di quei mesi, ma grandi nella loro tragicità, restituiteci con vivido realismo da Ezio Mauro nel suo Anime prigioniere, e frammischiate alla storia degli eventi importanti. Il volume, uscito nell’autunno del 2019 in occasione del trentennale della caduta del Muro e oggi ristampato da Feltrinelli, offre un originale approccio, a metà tra cronaca e storia, agli eventi della DDR. L’autore ricostruisce mese per mese il formidabile anno 1989 muovendo da episodi di cronaca politica ma allargando lo scenario di indagine ai decenni precedenti cosicché il lettore è condotto a riconsiderare tutta la storia della Ddr filtrata dall’Ottantanove. Il vero protagonista del libro, a dispetto del titolo, non sono le “anime prigioniere” dei berlinesi e neppure il regime ma il Muro, onnipresente con le sue molteplici valenze materiali, ideologiche, simboliche e psicologiche. Il Muro: «una barriera spirituale perché occludeva un pezzo di futuro, restringeva l’orizzonte di vita» (p. 45); il Muro, ancora, che «con la sua evidenza materializzava lo scandalo del potere, la sua paura e il suo abuso» (p. 51); il Muro, l’assillo del regime sino agli ultimi giorni, «come se quella pietra fosse la sola garanzia di sicurezza e addirittura di identità, totem supremo cui appoggiarsi» (p. 154).
Da brillante giornalista aderente a fatti e personaggi Ezio Mauro tratteggia la psicologia dei capi del regime: il fondatore Walter Ulbricht, uomo dei sovietici (i suoi occhi «sono quelli di chi capisce senza fare domande perché ha visto il terrore staliniano nelle stanze del Lux di Mosca», p. 34), l’onnipotente ministro per la sicurezza e capo della Stasi Erich Mielke («un monaco dello spionaggio», p. 126) e infine la figura più tragica e patetica, quell’Erich Honeker vero costruttore del Muro, che nel 1989 «non sa di essere arrivato al fondo del suoi lungo regno, perché incapace di concepirne la fine» (p. 135). Mauro descrive e commenta; non pretende di offrire interpretazioni originali né della Ddr né dei fatti dell’Ottantanove però sa evocare quella particolare atmosfera quotidiana vissuta dalle anime prigioniere a Berlino Est nei lunghi anni della stabilizzazione (1965-1985): «colori spenti, materiali poveri, serialità basiche» (p. 100), negli stili di vita, nella minutaglia d’ogni giorno, nei riti del potere e dell’ideologia, negli arredamenti d’interni tutti uguali dei moduli abitativi standard edificati nel Paese del socialismo reale. Archiviati i terribili anni del terrore staliniano e delle tensioni più acute della Guerra fredda era subentrato un clima di grigiore burocratico, occhiuta sorveglianza ma anche una certa inerzia (di cui molti si compiacevano) avvolta dalle spire dell’assistenzialismo di Stato. Il prezzo da pagare? La libertà.
E gli intellettuali? Il panorama è desolante: alcune belle singole personalità, testimonianze individuali di opposizione e di esilio, ma nessuna opposizione organizzata, sin quasi all’ultimo. Nella Ddr non prese mai corpo qualcosa di paragonabile al dissenso intellettuale espresso, per esempio, da Charta 1977 in Cecoslovacchia. Gli intellettuali tedesco-orientali, prussianamente ligi all’autorità costituita, latitano per quattro decenni. È davvero giusto, come ricorda Günther Grass, che criticare gli intellettuali costretti a vivere sotto la Ddr «sarebbe un insulto mostruoso»? Può darsi. A nessuno può contestarsi la mancanza della stoffa del martire e del perseguitato. Eppure alcuni episodi di segno opposto vanno ricordati perché testimoniano un’altra verità. Quando (17 giugno 1953) a Berlino Est e altrove nella Ddr la classe operaia manifestò e scioperò chiedendo pane e libertà ricevendo in cambio arresti, repressioni e uccisioni (non solo a opera dei sovietici ma anche degli zelanti militi del regime) nessun artista, nessuno scrittore spese una parola di solidarietà o di simpatia per gli operai. Ma accadde di peggio: il più grande intellettuale della Ddr, Bertold Brecht, ribadì premurosamente e per iscritto a Ulbricht totale fedeltà al regime. Eppure un suo semplice silenzio in quel frangente sarebbe stato davvero assordante o quantomeno interpretabile come dissenso. E invece nulla. Ma se consideriamo l’eccentrico cantautore-poeta Wolf Biermann lo scenario cambia radicalmente. La sua poesia musicata Ermutigung (“Incoraggiamento”) divenne insieme con altre sue la colonna sonora e la parola d’ordine del dissenso esplicito nato attorno al Muro. I giovani berlinesi sognavano la fuga e tra loro intonavano sotto voce
Du, laß dich nicht verbittern
In dieser bittren Zeit
Die Herrschenden erzittern
Sitzt du erst hinter Gittern –
Doch nicht vor deinem Leid[1].
Biermann, su posizioni di aperto dissenso, venne espulso dalla Ddr nel 1976. Lui e pochi altri. E in effetti gli intellettuali e gli artisti dissidenti di notorietà internazionale costituivano l’unica categoria di cittadini che il regime incoraggiasse ad abbandonare la Ddr o provvedesse ad espellere (la repressione carceraria, in tempi di “distensione”, sarebbe stata controproducente). «Si spiega così – scrive Ezio Mauro – l’impoverimento morale e politico dell’intellighenzia che sopravviveva nella DDR, senza la parte più combattiva, più consapevole, più autonoma» (p. 88). E si spiega così, ugualmente, il numero abnorme di intellettuali tra i collaboratori confidenziali (Inoffzielle Mitarbeiter) arruolati dalla Stasi. Se insomma nella storia della Ddr si vuol cercare una opposizione culturale consapevole, la si ritrova non tra gli intellettuali ma nelle chiese evangeliche, l’unico luogo dove prese forma e coagulò una forma organizzata e perseverante di dissenso.
Il Dio di Lutero combatté la Ddr molto più degli intellettuali “tiepidi” i quali preferirono eclissarsi in un grigio, rassicurante conformismo. E anche oggi il tradimento dei chierici (Julien Benda) resta la più insidiosa tra le tentazioni, nonostante il Muro non ci sia più.
Note:
[1] “Tu non lasciarti amareggiare / in questo tempo amaro / I potenti tremano / – a vederti dietro le sbarre – / ma non di compassione”.