Francesco Giosuè (1999) è laureato in Storia presso l'Università Ca' Foscari sotto la supervisione del Professor Antonio Trampus e frequenta ora il programma di double degree presso l'Université Pierre Mendès-France di Grenoble. Sta pubblicando i primi articoli e recensioni su riviste di storia delle idee e del pensiero politico.
Recensione a: J.H. Elliott Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola, 1492-1830, trad. it. di M. Magnani, Einaudi, Torino 2017, pp. 686, € 32,00.
Recensire oggi a quasi vent’anni dalla sua prima pubblicazione, il saggio di John Elliott, permette di ribadire l’importanza della critica storiografica nella comprensione anche politica degli attuali equilibri sociali ed economici. L’analisi dei rapporti tra le due sponde dell’Atlantico tra il XVI e il XIX secolo, ora che gli sviluppi nell’Europa orientale e nell’Indo-Pacifico confliggono nel passaggio da un ordine bipolare a uno multipolare, apre al lettore nuove vie, rende più chiari i rapporti e le differenze tra nord e sud, est e ovest del mondo in un momento in cui le ambizioni imperiali e gli oceani giocano ancora da protagonisti nelle relazioni internazionali.
Pubblicato per la prima volta nel 2006 dalla Yale University Press, Imperi dell’Atlantico, ormai un classico della storiografia, comparando territori, tempi, motivazioni e orizzonti culturali, si propone fin dalle prime pagine di chiarire la creazione di quello che fu più un «processo di fluttuazione continua» (p. XX) che una demarcazione netta tra due mondi: l’America spagnola, cattolica e statalista, e l’America britannica, protestante e capitalista.
Completando l’eredità della rivista «Past and Present», l’opera di Elliott abbraccia quei tre secoli e mezzo in cui, sia sul piano escatologico –l’incontro con l’indio quale alterità per eccellenza – sia su quello politico ed economico, con il passaggio dello stato moderno all’idea di nazione e lo sviluppo di un sistema economico integrato, per citare solo due delle innumerevoli macro-tendenze affrontate, si ritrovano le basi della contemporaneità.
Il saggio non si limita a mettere in luce le differenze tra due modelli di colonizzazione, ma si sofferma in modo particolare sull’importanza della nuova identità di quelle società coloniali che, «anche se distinguibili l’una dall’altra, erano anche distinguibili dalle comunità metropolitane da cui erano nate» (p. XV).
Uno degli obiettivi dell’Autore è infatti quello di superare l’interpretazione proposta da James Lang nel suo Conquest and Commerce. Spain and England (1975), opera in cui si definiva quello spagnolo come un “impero di conquista”, e quello britannico “un impero di commercio”, e in effetti, la grandezza dell’approccio comparativo di Elliott sta nel mettere in luce contemporaneamente somiglianze e differenze tra i due modelli imperiali.
Egli punta a delineare una nuova identità dello spazio americano costituito da una molteplicità di società coloniali, nate come comunità politico-commerciali e culturali, prima in concerto e poi in contrasto con i modelli offerti dalla madrepatria, secondo un processo che finirà per autoalimentarsi non più soltanto tra sponda e sponda dell’Atlantico, ma tra America e America. Ciò che Elliott mette in luce è pertanto una dinamica di grande rilievo che abbraccia un arco cronologico di quattro secoli, con i britannici che all’inizio della loro colonizzazione nel 1606 guardavano alla già secolare esperienza spagnola, vide poi all’inizio del XIX secolo i coloni spagnoli guardare agli sviluppi politici settentrionali per dichiarare la propria indipendenza.
Sebbene egli proceda in ordine cronologico, al centro di ciascun capitolo, spazio, tempo, rapporti di potere, demografia e società si intersecano fino a culminare negli ultimi capitoli, i più politici, dedicati alla crisi che investì lo spazio atlantico a partire dalla metà del XVIII secolo. Centrale appare l’elemento demografico al momento della conquista, con la parte di insediamento britannica molto meno popolata di quella spagnola.
La forte densità abitativa del Messico e del Perù, entrambi già sottoposti a forme di potere stabili, e la scoperta di giacimenti minerari, permisero il passaggio al potere spagnolo e la sua stabilizzazione. Inoltre, quest’ultimo aspetto relativo alla presenza dei metalli, assenti nelle colonie britanniche, comportò sul piano economico una forma di interventismo da parte della corona iberica, e di astensionismo, visti i minori profitti previsti, da parte di quella quella inglese. Quest’ultimo rappresenta per lo storico un aspetto di primaria importanza perché insieme alla debolezza degli Stuart, fu alla base delle libertà concesse ai coloni britannici, la cui ricchezza la faranno successivamente lo zucchero e il tabacco. Nella costruzione dell’America spagnola, «conquista, conversione e colonizzazione erano destinate a sostenersi reciprocamente» (p.33) ma, sebbene gli spagnoli si definissero “conquistatori” e gli inglesi “planters”, sin dai primi insediamenti in Virginia, l’idea della conquista era ben radicata anche nei secondi, tanto che Elliott ci ricorda come in Europa, sia la Castiglia che l’Inghilterra erano già potenze proto-coloniali. La grandezza dell’opera non si trova solamente nella mole immensa di materiale interrogato, bensì in quella tensione sempre viva, volta a limare i contrasti netti per affermare che nella storia nessuna frontiera è mai ermetica e ogni differenza si alimenta di substrati mentali e di esperienze spesso in contatto.
Quella che forse emerge come la differenza più importante tra i due modelli, riguarda l’aspetto religioso, messo in luce anche per il profondo ruolo giocato nel disciplinamento delle società americane. Già alla fine del XVI secolo l’Inghilterra si era avviata verso il pluralismo religioso, fatto che generò la disponibilità della corona alla creazione di colonie da parte di minoranze. La Spagna, al contrario, imperniava la propria missione imperiale sull’idea universalistica della res pubblica cristiana e, da baluardo della controriforma, impediva la migrazione a ebrei, mori ed eretici.
A tal riguardo, l’occupazione fisica di un territorio, ci ricorda Elliott, è sempre e prima di tutto un’occupazione simbolica, tanto che l’America può essere definita uno “spazio sacro”, una vera «cristiano-grafia» (p. 271) che ha dato origine a due sogni diversi ma complementari: una “repubblica di santi” da parte protestante, e una chiesa intesa come comunità primitiva di tipo evangelico da parte cattolica. Entrambi credevano che la scoperta dell’America, e quindi anche il suo nascondimento, fossero opera della Provvidenza. Per Botero, ad esempio, la scoperta di quelle terre era una compensazione divina per la rottura dell’unità religiosa in Europa, e così, la Terra di Canaan, la Nuova Gerusalemme o la Città sulla collina divennero tutti esempi di quei miti e strutture mentali, la cui analisi conferisce un carattere veramente ermeneutico al saggio. Il puritanesimo, religione esclusiva, a differenza dell’onnicomprensivo cattolicesimo spagnolo, non permise nelle colonie britanniche la creazione di una società coloniale mista, carattere fondamentale delle colonie iberiche, soprattutto per la loro componente di creoli e meticci; tuttavia, anche in questo caso, quando si passa all’atto pratico, per importanti fenomeni sociali come il pauperismo, le differenze tra il “colpevolismo” protestante e la carità cattolica si scoprono più sfumate (p. 386).
L’orizzonte mentale dei coloni, fino a Elliott ignorato o descritto in modo dicotomico, si scopre ora diverso ma complementare, con figure evocate a nord come la “wilderness”, terra oscura, misteriosa e malvagia che richiamava un ideale già diffuso tra gli spagnoli, ossia quello dei luoghi di ritiro e rifugio dei primi monaci, che per parallelo diventavano un teatro in cui ci si poteva purificare attraverso la fatica e al tempo stesso sottomettere gli infedeli. La prospettiva della longue durée permette poi di approcciare un’altra delle differenze tra le più importanti, quale la predisposizione urbana della società coloniale spagnola.
Basata sul modello della Castiglia, nell’America spagnola si trasmise l’idea romana della città come segno visibile di imperium e di civitas, al contrario di quanto avveniva nell’America britannica che ebbe sempre un carattere più marcatamente rurale. Tuttavia, ciò non significa che a nord non esistesse un’analoga idea di “civiltà”, talvolta espressa in negativo dal timore dell’“indianizzazione”, una sorta di ritorno alla barbarie da scongiurare, che ancora una volta ci dimostra l’esistenza di frontiere territoriali che si fanno psicologiche.
Anche il carattere feudale della colonizzazione spagnola è uno degli elementi che viene più fortemente messo in discussione da Elliot, il quale sottolinea come la corona iberica che a fatica si era imposta su sudditi riottosi, non voleva che nelle colonie si stabilissero nuovamente dei rapporti feudo-vassallatici, essendo interessata a istituire un’organizzazione razionale in cui i privati non prendessero troppo potere. Per fare ciò si obbligarono i proprietari delle encomiendas a risiedere nelle città e non nelle tenute, e si cercò anche di impedire che l’encomienda si trasmettesse per via ereditaria. I proprietari, infatti, potevano segnare i confini ma non recintarli, al contrario che nell’America britannica dove i recinti erano il segno tangibile che la terra, vero obiettivo dei coloni, era ora soggetta a migliorie. Anche in questo caso, organizzazione del territorio e strutture mentali si intersecano perché in effetti gli spagnoli furono sempre più interessati agli uomini che alla terra.
Da ultimo, trattando dell’emancipazione dalla madrepatria, Elliott sottolinea che a nord essa fu all’insegna dei diritti naturali contro un interventismo monarchico fino ad allora sconosciuto, e fu facilitata dall’omogeneità etnica. A sud fu invece l’esito del venir meno del potere centrale e fu travagliata da problemi raziali, secondo una dinamica apparentemente opposta, ma che a livello politico porterà lo spazio atlantico a configurarsi come spazio rivoluzionario. Nel concludere questa recensione, l’idea dell’opera che maggiormente si vuole trasmettere è quella di un saggio dialettico, un meraviglioso affresco del sincretismo di un mondo nato dall’incontro-scontro con l’Europa. Un mondo che ha definito le proprie identità secondo una storia che ritorna talvolta in modo traumatico, come nel caso di Tupac Amaru, e che a sua volta ha orientato indelebilmente l’Europa verso rotte prima sconosciute.