Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: M. Foucault, La legge del pudore, a cura di C. Gervasi e L. Petrachi, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2023, pp. 160, € 16,00.

C’è qualcosa di più urticante e problematico che l’accostare infanzia e sessualità? Oggi la pedofilia è giustamente stigmatizzata e perseguita a livello culturale ancora prima che a livello giudiziario. È il delitto che non si può scusare, è l’oltraggio alla vita e all’innocenza che non si può emendare. Il pedofilo è oggi, anche nel linguaggio comune, per fortuna tanto disprezzato quanto temuto.

Eppure, non molti decenni fa persino la pedofilia è stata l’oggetto di una specie di (piccolissimo) “movimento di liberazione”; persino la pedofilia, accanto ad altri generi di sessualità “inconsueta” e minoritaria, poteva ambire a un riconoscimento e a una qualche legittimazione.

Questo è un presupposto da tenere presente leggendo questo breve volume dedicato a Michel Foucault e alla sua partecipazione, con un ruolo da protagonista, a un movimento di intellettuali che propose, alla fine dei “gloriosi” anni Settanta, di modificare il codice penale allora vigente in Francia, ponendo in questione l’illegalità delle relazioni sessuali non violente fra adulti e minori. Chiariamoci bene, il discorso portato avanti da Foucault non era meschino né banale: egli non faceva che mettere in pratica ciò che già da tempo affermava studiando temi quali la società disciplinare, la biopolitica, e la stessa sessualità infantile nella società moderna. Questa non era che la traduzione in un caso specifico di quanto possiamo leggere nel corso sugli anormali o nei saggi sull’individuo pericoloso.

Lo stesso appello, firmato tanto da Foucault quanto da altri nomi illustri dell’intellighenzia transalpina (da Deleuze a Sartre, da De Beuavoir a Derrida), puntava  in effetti a due obiettivi principali: “parificare”, per così dire, allo stesso livello minimo di età la liceità degli incontri sessuali fra adulti e minori consenzienti sia in caso di rapporti eterosessuali sia in caso di rapporti omosessuali, ma, soprattutto, a combattere la repressione della “pederastia”, ancora forte all’epoca.

Il cuore di questo libro, curato da Caro Gervasi e Lorenzo Petrachi, è rappresentato dalla trascrizione integrale di un dibattito radiofonico, a cui partecipò Foucault, sul tema e che mostra bene quali fossero gli argomenti fondamentali alla base di quella petizione: che senso dare al consenso nei rapporti sessuali? A quale immagine di infanzia bisogna aderire? Deve necessariamente destare orrore il collegamento fra sesso e infanzia? Il bambino va protetto dai suoi stessi desideri, posto che ne abbia? Foucault in particolare contesta qui la sensatezza dei limiti di età per la liceità dei rapporti sessuali:

Una cosa è il consenso, un’altra è la possibilità per un bambino di venire creduto quando parla dei suoi rapporti sessuali o del suo affetto, della tenerezza che prova, o dei suoi contatti (l’aggettivo sessuale è spesso inopportuno in questi casi, perché non corrisponde alla realtà), un’altra cosa è la capacità che riconosciamo al bambino di spiegare quali sono i suoi sentimenti, qual è stata la sua esperienza, e la credibilità che gli accordiamo. Ora, per cominciare, per quanto riguarda i bambini si presume che la loro sessualità non possa mai essere diretta verso un adulto. In secondo luogo, si presume che non siano capaci di esprimersi a proposito di se stessi, di essere sufficientemente lucidi a proposito di se stessi. Che non abbiano la capacità d’espressione sufficiente a spiegare la situazione. Quindi, non vengono creduti. Non li si ritiene in grado di provare qualcosa di sessuale, non li si ritiene in grado di parlarne. Ma in fondo, basterebbe ascoltare un bambino, sentirlo parlare, sentirlo spiegare che tipo di rapporto ha effettivamente avuto con qualcuno – adulto o meno –, per consentire a chiunque, posto che si ascolti con abbastanza comprensione, di stabilire approssimativamente a quale regime di violenza o di consenso sia stato sottoposto (pp. 36-37).

Non ha senso liquidare queste posizioni come una apologia della pedofilia. D’altra parte, non si può negare che – a rileggerle oggi, nell’epoca dei continui scandali per la pedofilia nella chiesa o per i continui casi di pedopornografia, sempre più agevolati dalla rete – queste posizioni diano l’idea di un cortocircuito in quel progetto di liberazione a tutti i costi, di tutto e di tutti.

In fin dei conti, l’idea – sostenuta in altre parti del volume – di assimilare in qualche modo, sia pure solo simbolicamente, l’infanzia a una classe oppressa, che andrebbe appunto liberata dal giogo violento della famiglia e delle istituzioni educative, permettendole una emancipazione dalla minorità in cui sarebbe trattenuta, rischia di perdersi nella nebbia dei giochi di parole e della provocazione fine a se stessa.

Ecco che questi discorsi sulla libertà sessuale e l’infanzia – in un contesto come il nostro, che obiettivamente sessualizza sempre di più l’immagine infantile, nella stessa misura in cui finisce per infantilizzare gli adulti – non sono che il caso particolare di un più ampio tentativo di demolire alcuni limiti, culturali ancora prima che etici, legati alla nascita e alla procreazione – e basterà ricordare qui il dibattito sulla gestazione per altri o la “libertà di scelta” (reale? apparente?) dei sex workers.

Affermare che sia sufficiente acclarare il consenso di un adolescente per chiudere la questione della presunta violenza sessuale su un minore, significa appunto illudersi di poter aggirare alcuni limiti che il diritto e la cultura (diritti storicamente naturali, potremmo dire) hanno posto a tutela dei più deboli o, comunque, dei più esposti.

Giusto – allora come oggi – combattere ogni discriminazione contro la (peraltro inesistente) “massoneria del vizio” (ovviamente omosessuale), ma è altrettanto giusto non illudersi di poter dare a tutti il diritto a tutto, sempre, ignorando che la violenza tuttavia esiste.

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