Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.
Recensione a
E. Stolfi, La giustizia in scena. Diritto e potere in Eschilo e Sofocle
il Mulino, Bologna 2022, pp. 355, € 29,00.
«O impariamo dalla tragedia greca a leggere la storia dell’uomo, o non impareremo mai a leggerla», scriveva Nicolás Gómez Dávila nei suoi Escolios. Potremmo specificare il brillante aforisma includendovi anche la storia del potere e del diritto degli uomini. Ed è ciò che oggi tenta Emanuele Stolfi, rinomato storico del diritto greco, con il libro in esame e che reca per sottotitolo, non a caso, Diritto e potere in Eschilo e Sofocle. Il saggio, colmo di dotta erudizione testimoniata dall’imponente apparato delle note a piè di pagina e dalla nutrita e informatissima bibliografia ivi citata, esige una lettura attenta e impegnata; presuppone inoltre che il lettore possieda già dimestichezza con la civiltà letteraria, politica e giuridica ateniese del V secolo. Ma l’impegno richiesto dalla lettura delle oltre trecento pagine è ripagato dalla ricca messe di informazioni acquisite e soprattutto – giacché quella di Stolfi è opera non meramente compilatoria ma di scienza– da talune originali e arricchenti ermeneutiche.
Il volume dedica ampio spazio al ciclo dell’Orestea, proponendone una analisi minuziosa dal punto di vista delle concezioni greche (arcaica e democratica) della giustizia. Dike contrapposta a Dike: questa contrapposizione «rappresenta il filo conduttore dell’intera trilogia» (p. 46), dove Oreste è stretto tra il dilemma di commettere il matricidio (macchiandosi di crimine contro natura) o no, lasciando però impunito l’omicidio del padre Agamennone e violando la giustizia delle Erinni, le cupe divinità della vendetta. La dèa Atena, cui è demandato il giudizio su Oreste, simboleggia la procedura giudiziaria razionale, argomentativa e suasoria contrapposta alla faida di sangue e vendetta delle Erinni. Ma sarebbe semplicistico (e davvero molto poco “eschileo”) ridurre la contrapposizione tra le due Dike a un progresso dal torvo arcaismo alla bella, luminosa e apollinea civiltà. La procedura giudiziaria ateniese si caratterizzava per una forte valenza (e violenza) agonistica e per decisioni prese a maggioranza che letteralmente “schiacciavano” la parte soccombente. Ed ecco che la dea poliade Atena, mandando assolto Oreste a seguito di votazione dei giurati, ha cura di ammansire le arcaiche Erinni, frustrate nella loro sete di vendetta. Dopo la sconfitta di una parte (e che è la parte più arcaica ma non per questo priva di ragioni e di legittimità), occorre che abbia luogo la riconciliazione. È questo il messaggio che ci vuol trasmettere Eschilo. Come nella democrazia assembleare, si deve evitare che lo strapotere di una fazione conduca all’annientamento dell’altra o che – condizione peggiore di tutte – faccia precipitare la polis nel dramma della stàsis, la guerra civile.
Altro argomento oggetto di analisi è l’intreccio, nell’Edipo Re e nell’Edipo a Colono, tra tecniche investigative, ironia tragica e inconscio giuridico, con al centro la patetica figura di Edipo, personaggio sdoppiato e frantumato in investigatore, accusatore e giudice di se stesso, ma anche metafora di un sapere empirico (logiche indiziarie) carico di risonanze razionalistiche.
Ma veniamo alla tematica del potere e della tirannide, alle quali sono specificamente dedicati alcuni capitoli dell’opera ma che in realtà, insieme con la tematica del nòmos e di dike, informano di sé l’intero volume.
Nei Persiani, la più antica e patriottica delle sue tragedie, Eschilo contrappone la concezione asiatica del potere a quella greca. Potremmo sbrigativamente parlare di alternativa tra dispotismo e democrazia, come solitamente si fa nella manualistica. Il Gran Re Serse, anèuthynos, non rende conto di nulla a nessuno. La sua smodata sete di potere, la sua tracotanza stridono se confrontati con la sobria, misurata libertà ateniese. Padrone dei Persiani è il Gran Re ma padrone degli Ateniesi è solo il nòmos, la legge. E tuttavia il dispotismo persiano resta una realtà a suo modo rassicurante perché riconosciuta come altra: nemica ed estranea, è vero, ma della quale si possono prendere le misure, e che può venire combattuta e sconfitta, così come gli Elleni sono capaci di sconfiggere i barbari. Ma la tirannide? Serse è tyrannos? La tirannide, a differenza del dispotismo asiatico, nasce greca e non è concepibile senza il presupposto della polis: essa forma parte integrante della politica. Il potere, aristocratico o monarchico o democratico, resta sempre esposto al rischio della degenerazione tirannica. Anzi, il potere stesso, preso in sé, trattiene un fondo oscuro e indicibile di tirannide, un tumore potenziale o latente che cresce col crescere della sofisticatezza delle strutture istituzionali del potere e della complessità civile dell’uomo greco. Già accennato nell’Eschilo dei Persiani, il grande poeta della tragica, devastante, ineliminabile natura terrifica – tirannica – del kratos, di ogni potere e di ogni pratica di comando si manifesta più compiutamente nell’Eschilo del Prometeo incatenato. Qui Zeus, il grande assente, è presupposto quasi di ogni singolo verso; non compare mai direttamente eppure resta vero protagonista, metafora del potere sottratto a qualsiasi rappresentazione. Egli, punendo Prometeo con la fattiva e servile collaborazione di Kràtos e Bìa, dà sfogo a una illimitata sovranità che assume ben presto contorni di violenza e arbitrio. Zeus, come un tiranno greco del VI secolo, ha afferrato il potere dopo una stàsis (guerra civile) con altre e più antiche divinità, ha imposto una giustizia (dike) conforme ai propri interessi e non a quelli della comunità (koinòn); inoltre è un dio nuovo, l’ultimo venuto, senza un passato che lo legittimi, scarso di futuro, relegato nell’angustia precaria del transeunte: altri tratto che lo accomunano al tiranno. Tiranno, eppure Zeus: archetipo divino dell’ego dilatato dell’uomo di potere. Il “monoteismo” eschileo, che in altre tragedie pone il grande Zeus sotto luci decisamente più benigne e provvidenziali, nel Prometeo accentua i lati più crudi e sinistri ìnsiti nella praxis del potere. Eschilo obbliga il suo pubblico (il civile e democratico ma anche rissoso e fazioso cittadino ateniese) a una sofferta meditazione sulla natura profonda del potere; egli, come ci ricorda Stolfi, «problematizza qualsiasi fiducia nell’esistenza, pur se trascendente, di una supremazia naturalmente giusta, del tutto legittima ed esercitata senza arbitrio» (p. 146). E ammonisce i concittadini: se persino l’archetipo divino del potere conserva un fondo opaco di violenza, arbitrio, sopraffazione, quanto più opaco potrà rivelarsi l’esercizio del potere ad opera di maggioranze assembleari? La degenerazione tirannica non si restringe a pochi demagoghi ansiosi di afferrare le leve del comando ma riguarda lo stesso principio della democrazia (e si ricordi che per Aristotele il lemma “democrazia” conservava una connotazione peggiorativa, di corruzione rispetto alla più “sana” politèia).
La sinistra, “ubristica” connotazione del potere procede trasversale nei nostri tragediografi, non ha riguardi nei confronti delle sistematizzazioni politiche convenzionali. Così nell’Aiace di Sofocle, «la tragedia del potere per eccellenza» (p. 163): Agamennone e Aiace, i due personaggi antitetici, sono però accomunati dall’hybris, a prescindere dal loro legittimo radicamento nella storia del potere istituzionalizzato. Agamennone basileus detiene il comando ma aspira a monopolizzare la forza e la violenza e rivela tratti inequivoci di tirannica hybris. Eppure egli, rispetto al solitario, altero Aiace, si rivela a suo modo figura isonomica, propensa cioè all’egualitarismo. A confronto e contro Aiace Agamennone rispetta la procedura giudiziaria democratica che ha assegnato le armi di Achille a Odisseo. Si conforma alla decisione assunta a maggioranza. E tuttavia la decisione democratico-giudiziaria di cui Agamennone si fa interprete schiaccia «l’eroismo arcaico di Aiace, grandioso ma solipsistico» (p. 156), annienta il kaloskagathòs, il bello e il giusto. L’isonomia, l’egalitarismo democratico, si fa tiranno e opprime la singolarità e l’eccellenza, la solitudine aristocratica di Aiace. Hybris isonomica dunque. Ma Aiace? Egli, figura tragicamente solitaria, romantica e anacronistica, dà prova di dismisura, si pone su un piedistallo refrattario a ogni vincolo di soggezione, persino nei confronti degli aiuti divini. L’Aiace sofocleo è un ego dilatato, un superuomo ellenico-nietzscheano, autarchico tiranno di se stesso (Stolfi ricorre all’azzeccata espressione di «tirannide introflessa» laddove quella di Agamennone e delle assemblee giudiziarie è una tirannide proiettata sull’esterno.) Potere sugli altri, nel caso di Agamennone; potere su se stessi in opposizione al koinòn, nel caso di Aiace. Insomma: «nell’esercizio del potere nessuna pratica di governo riesce a esorcizzare i tratti di dismisura e violenza» (p. 157) ìnsiti in ogni rapporto di soggezione politica. La raffigurazione sofoclea del potere rende davvero superlativa l’equivalenza potere= tirannide. Lo si vede bene nel personaggio di Antigone, per certi versi molto prossima ad Aiace. Ella, nella sua pervicace, reazionaria ostinazione rivela di possedere «una tyrannis, seppur priva di kratos, senza alcuna forza o potestà» (p. 180) ma colma di hybris.
Nella cultura occidentale Antigone ha conosciuto una immensa fortuna soprattutto per il tema cruciale del diritto e della contrapposizione tra leggi degli uomini (impersonate dal re Creonte) e leggi divine (o naturali o non scritte), cui si appella Antigone. Stolfi dedica al tema il IV capitolo (“Pluralità e conflitti di leggi”) e ammette sin da subito che con l’Antigone sofoclea ci si addentra in un vero labirinto ermeneutico perché sui versi di questa tragedia si sono «sedimentati oltre due millenni di riletture» (p. 203). Per la finezza dell’analisi, la precisione dei riferimenti ai testi e la disamina critica della più significativa e recente letteratura critica sull’argomento il capitolo si legge con grande profitto. Qui anticipiamo soltanto che per l’Autore la dialettica tra i due ordini normativi è piuttosto fuorviante e obbedisce a ermeneutiche ed esigenze degli interpreti dei secoli successivi (soprattutto a far data dal giusnaturalismo). Ricondotto il tema alla realtà greca del V secolo, Stolfi ritiene che «l’armonica coesistenza fra i due ordini nomici (Antigone e Creonte) sembra costituire il fine ultimo a cui dovevano tendere le istituzioni dell’Atene democratica» (p. 224). Il Greco del V secolo doveva essere contemporaneamente Antigone e Creonte.
Chiuso il libro di Stolfi, non resta al lettore che riaprire Eschilo e Sofocle e verificare da sé la plausibilità delle ermeneutiche appena apprese.
Un’occasione in più per riaccostarci ai nostri grandi classici.