Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.
Lo scopo dell’egualitarismo politico è una società libera dal dominio. Questa è l’eterna speranza nominata dalla parola eguaglianza.
Michael Walzer
Nel 1983 Michael Walzer, già filosofo politico presso l’Università di Princeton e, successivamente, presso l’Università di Harvard, dava alle stampe uno dei testi classici considerati appartenenti, per sommi capi, alla teoria comunitarista. Spheres of Justice. A Defense of Pluralism and Equality (per i tipi di Basic Books di New York; la traduzione italiana è uscita per l’editore Feltrinelli, ristampato poi da Laterza) seguiva di qualche anno Just and Unjust Wars: A Moral Argument with Historical Illustrations (sempre Basic Books, New York, 1977; anch’esso in italiano per i tipi di Laterza). Il filo che unisce i due volumi, com’è evidente, è rappresentato dal tema della giustizia.
Sfere di giustizia ha per oggetto una risposta per l’appunto di stampo comunitarista alla teoria liberal della giustizia distributiva di matrice rawlsiana. A differenza di Rawls, Walzer oppone una teoria di tipo particolaristico. Come spiega da subito nell’introduzione al volume, egli non intende astrarsi dalla realtà concreta né, rifacendosi al mito di Platone, uscire fuori dalla caverna creandosi un punto di vista privilegiato e oggettivo sul mondo. Parimenti, non intende delineare i lineamenti di una presunta società perfetta di eguali. Nondimeno, egli considera possibile, date le condizioni concrete della società, articolare una concezione di eguaglianza complessa al fine di porre in essere una società non dominata dalla diseguaglianza e non succube di una concezione di giustizia onnipervasiva, ma, come suggerito dal titolo, articolata in “sfere”: «Lo scopo dell’egualitarismo politico è una società libera dal dominio. Questa è l’eterna speranza nominata dalla parola eguaglianza: mai più inchini e prostrazioni, mai più adulazioni e servilismi, mai più tremare per la paura, mai più altezza ed eccellenza, mai più servi né padroni» (p. 9; d’ora in avanti citerò dall’edizione italiana Laterza del 2008). Come s’intuisce, egli fa sua una posizione di sinistra, identificabile prima di tutto attraverso il primato dell’eguaglianza sulla libertà (e riscontrabile fin dal sottotitolo del libro).
«Intesa alla lettera – scrive nelle prime pagine Walzer – l’eguaglianza è un ideale fatto per essere tradito» (p. 7). Ogni individuo nasce diseguale dai suoi simili – “simili”, per l’appunto, non copie – vuoi per il carattere, vuoi per i gusti e la diversa ubicazione geografica, sociale ed economica assegnata a ciascuno – la “lotteria naturale” descritta da Rawls. Non si può dunque procedere ad una eliminazione totale delle differenze, pena creare una società di formiche. Allora, però, se non si può procedere a una ridefinizione di stampo contrattualistico, come auspicato dall’autore di A Theory of Justice, giacché ognuno si trova in una sua propria condizione particolare – la metodologia seguita da Walzer, come detto, è di stampo particolaristico – e peculiare, come si può fare in modo che le diseguaglianze non siano troppo pronunciate e la società non diventi mera aggregazione di individui isolati, e dunque una comunità frammentata? Secondo il filosofo newyorkese, non è possibile attribuire un unico e determinato valore dei beni sociali, giacché questi dipendono dal significato condiviso dei membri della società, ciascuno dei quali inserito in contesti comunitari differenti e particolari.
Secondo Walzer, quindi, non si può ricercare l’unità della giustizia distributiva. Essa, in altre parole, non può ergersi come lente universale attraverso la quale dimenticare contesti in cui i beni sociali vengono definiti e valutati – in chiave simbolica, non economico-monetaria – in modo differente. Sarebbe possibile, nota l’Autore, sostituire alla comunità politica l’umanità intera. Tuttavia, in questo modo, dovremmo prendere a riferimento ogni singolo individuo e, così facendo, verrebbero meno gli ineliminabili significati plurali dei beni sociali che i diversi gruppi vi assegnano (p. 40). Allora, dall’approccio particolaristico alla comunità deriva un pluralismo nell’ambito della giustizia che si concreta in una molteplicità di procedure e ragioni attraverso le quali i beni sociali debbono essere distribuiti.
Il perno teorico della struttura dell’opera walzeriana giace nella differenza tra eguaglianza semplice ed eguaglianza complessa. Tale dicotomia è inoltre preceduta, ovvero dipende da quella tra monopolio e dominanza di un bene sociale. Per bene dominante Walzer intende un bene che è posseduto da taluni che, in virtù di tale possesso, dispongono di un ampio ventaglio di altri beni sociali. È invece monopolizzato, un determinato bene, quando un individuo o un gruppo di individui riesce a tenere tale bene per sé. Il monopolio allora è concepibile come «un modo di possedere o controllare i beni sociali allo scopo di sfruttarne la dominanza», mentre la dominanza indica «un modo di usare i beni sociali che non è limitato dai loro significati intrinseci o che plasma tali significati a propria immagine» (p. 22). Il conflitto sociale che può derivare dalla diversa distribuzione dei beni sociali, argomenta Walzer, può essere risolto in tre modi. Nel primo caso, un bene che sarà dominante verrà redistribuito in modo tale che la condivisione che ne risulterà sarà maggiormente equa. Questa opzione è quella che verosimilmente ricalca l’opzione rawlsiana e Walzer afferma che è la via più battuta dai filosofi. Il terzo caso prevede che un nuovo bene, monopolizzato da un gruppo, sostituisca il bene dominante al momento. Tale risoluzione del conflitto sociale origina dalla pretesa che lo schema di dominanza e monopolio attuale è ingiusta. Ma a Walzer interessa la seconda opzione, la quale prevede che ogni bene sociale sia riconducibile a una distribuzione autonoma, cioè a dire si assume che la dominanza sia ingiusta. Lo scopo dell’egualitarismo politico promosso da filosofo newyorkese è quindi eliminare il dominio dei beni sociali da parte di chicchessia. L’opzione numero uno, dunque, quella cioè che mira a una redistribuzione di ogni bene sociale sulla base di uno schema onnicomprensivo di giustizia, anela all’instaurazione dell’eguaglianza semplice: desidera cioè livellare le differenze tra tutti i membri di una comunità politica – dare due mele a Tizio e due a Caio. Il sentiero scelto dall’Autore, per contro, si basa sul concetto di eguaglianza complessa, basata sull’idea della pluralità della giustizia nelle rispettive sfere di competenza.
L’eguaglianza semplice, sostiene Walzer, è il miglior pretesto per potenziare l’attività o, meglio, l’intrusione dello stato nella vita delle persone. Infatti, solamente uno stato centralizzato e profondamente interventista potrebbe assumersi un tale onere. Ma non solo. Infatti, una tale operazione richiederebbe continui, costanti, ripetitivi aggiustamenti da parte statale per schiacciare le nuove forme di monopolio e dominanza che apparirebbero tramite la conversione dei diversi beni attraverso il libero scambio. Inoltre, è possibile che alcuni gruppi tenterebbero di impossessarsi del controllo statale per fortificare il proprio controllo dei beni sociali. L’esito, pertanto, potrebbe essere peggiore del male che nelle intenzioni si desiderava curare.
L’eguaglianza complessa, al contrario, permette di articolare una teoria che fa i conti con la pluralità delle sfere di giustizia, originata dalla complessità reale dei significati dei molteplici beni e delle loro distribuzioni. Trovando le sue scaturigini nei Pensées di Blaise Pascal e nei Manoscritti economico-filosofici di Karl Marx, Walzer descrive l’eguaglianza complessa come «una relazione complessa fra persone, mediata da beni che creiamo, condividiamo e spartiamo; non è l’identità dei possessi. Perciò – prosegue il filosofo – essa richiede una varietà di criteri distributivi che rispecchi la varietà dei beni sociali» (p. 29). Ciò che originerebbe da un sistema imperniato sull’eguaglianza complessa sarebbe, a detta di Walzer, l’antitesi della tirannia. In virtù di un insieme di relazioni che rende impossibile il dominio, l’eguaglianza complessa fa sì che un individuo nell’ambito di una sfera o relativamente a un bene sociale non possa essere danneggiato dalla posizione detenuta in un’altra sfera o relativamente a un altro bene sociale. Si tratta, insomma, di evitare che nessun bene sociale X sia distribuito a individui che possiedono un altro bene sociale Y solo in virtù del loro possesso di Y senza considerare il significato di X.
Secondo Walzer, tre sono i criteri di distribuzione di beni sociali, ciascuno dei quali va limitato nel proprio ambito per evitare ingiustizie. Il primo è dato dal libero scambio, il secondo dal merito e il terzo dal criterio del bisogno. Il problema principale del primo, osserva l’Autore, è dato dal fatto che il denaro, su cui esso è fondato, non ha confini. Secondo Walzer, in pratica, il denaro necessariamente corrompe e tende ad espandersi in ogni ambito. Si tratta, com’è evidente, di una posizione legittima, ma certamente opinabile. Egli sembra far credere che il denaro assuma una propria volontà, quasi che fosse dotato di un’anima che s’impone e s’impossessa delle persone. Allora, forse, il problema sta nell’educazione degli individui a relegare il denaro a mezzo, e non a fine della propria esistenza. La sfida, in altri termini, sta nel considerare la sfera economica come una delle tante sfere della vita umana: importante, senza dubbio, ma forse meno di altre (ovvero quella culturale e spirituale). Operazione certamente non semplice, ma Wilhelm Röpke, tra gli altri, ha insegnato che ciò non solo è possibile, ma pure auspicabile per dare vita a una Civitas che sia davvero Humana. In questo senso, la fede nel trascendente potrebbe certamente aiutare su questo versante. Il secondo criterio, ovvero quello del merito, anch’esso pone non pochi problemi. Oggi, il merito sembra farla da padrona, soprattutto se ad esso va impastandosi la competenza. L’esito di una siffatta miscela, prima di tutto in ambito politico, potrebbe creare le condizioni per una democrazia davvero poco democratica. Attraverso merito e competenza, infatti, possono originarsi centri di potere forti e radicati tali da soverchiare il criterio di rappresentanza in ambito politico. E se il demos diventa polvere, la democrazia diventa una “espertocrazia” o “epistocrazia” davvero poco rassicurante. Il terzo ed ultimo criterio individuato da Walzer è dato dal bisogno. Un principio importante, ma che rischia di diventare il pretesto attraverso cui il potere politico – definito non a caso da Walzer molto pericoloso, ma anche il bene più importante della storia dell’umanità – estrae risorse dalla società in modo arbitrario.
Secondo Walzer, urge la ridefinizione di un contratto sociale non basato su astratti e universalistici principi, bensì da intendersi come «un accordo per ridistribuire le risorse dei membri secondo una concezione collettiva dei loro bisogni, soggetto, nei particolari, a una continua determinazione politica. Il contratto – continua il filosofo politico – è un vincolo morale; unisce i forti con i deboli, i fortunati con gli sfortunati, i ricchi con i poveri, creando un’unione che trascende tutte le differenze di interessi e che trae la propria forza dalla storia, dalla cultura, dalla religione, dalla lingua» (p. 90). Un contratto sociale che, pur non basandosi su una teoria della giustizia unitaria e astratta, come è quella rawlsiana, finisce comunque per avallare un forte e risoluto intervento dello stato assistenziale. Inoltre, è il potere statale, asserisce Walzer, a dover regolare e vigilare sulla corretta giustizia distributiva operante nelle diverse e plurali sfere. Un potere che tende ad essere soverchiato dallo sforamento del denaro oltre l’ambito del libero scambio economico. Esso, quasi in modo necessario secondo l’autore di Guerre ingiuste, mira ad impadronirsi degli altri ambiti e soprattutto del politico, considerato da Walzer l’ambito precipuo. È infatti dal dominio della cittadinanza, data da una maggiore partecipazione che fortifica così l’eguaglianza complessa, che si può sconfiggere la minaccia della tirannia.
L’eguaglianza complessa, conclude l’Autore, incarna l’antitesi del totalitarismo. Quest’ultimo è definito come massima coordinazione, mentre attraverso l’eguaglianza complessa si origina la massima differenziazione. La prospettiva indicata assume così i caratteri di un «socialismo democratico decentrato», identificato per mezzo di «uno stato assistenziale forte gestito, almeno in parte, da funzionari locali e volontari, un mercato vincolato, un pubblico impiego aperto e demistificato, scuole pubbliche indipendenti, la condivisione del lavoro duro e del tempo libero, la protezione della vita religiosa e familiare, un sistema pubblico per onorare e disonorare, esente da ogni considerazione di ceto o di classe, il controllo operaio delle fabbriche e delle aziende, una politica basata su partiti, movimenti, riunioni e dibattiti pubblici» (pp. 317-318). A ben vedere, dunque, non si tratta di una prospettiva comunitarista “forte” né, tantomeno, si discosta troppo dal rawlsian liberalism (cfr. S. Mulhall, A. Swift, Liberals and Communitarians, Blackwell Publishers, Cambridge, 2nd ed., 1996). Come scriverà qualche anno più tardi, la prospettiva comunitaria da lui adottata non si allontana dalla «social union of social unions», in cui, quando le quattro mobilità si acuiscono troppo (mobilità geografia, sociale, coniugale e politica), il senso di perdita viene colmato da sentimenti di comunità. Per Walzer si tratta, a ben vedere, di concepire il comunitarismo come correzione di stampo repubblicano – si noti l’enfasi walzeriana posta sul concetto di “dominio” e di “cittadinanza”, elementi cardine della teoria neorepubblicana: in particolare cfr J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone (1975), trad. it., Il Mulino, Bologna, 1980; Ph. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo (1997), trad. it., Feltrinelli, Milano 2000 – all’eccessiva instabilità dissociativa posta in essere dal liberalismo [M. Walzer, The Communitarian Critique of Liberalism, «Political Theory», Vol. 18, No. 1 (Feb., 1990), pp. 6-23].