Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Francesco Fistetti, già Professore di storia della filosofia presso l’Università di Bari, in un suo recente e interessante articolo, pubblicato il 13 novembre 2022 sul “Nuovo Quotidiano di Puglia”, muove un’aspra critica nei confronti del nuovo governo, reo di discriminare gli esseri umani che emigrano e attraversano il mediterraneo sulle navi della guardia costiera, delle Ong o su barchette di fortuna. Non entro nel merito politico della questione. Intervengo perché Fistetti, oltre ad argomentazioni più o meno condivisibili, vorrebbe rafforzare la sua posizione umanitaria prendendo a prestito il concetto di “capro espiatorio” del famoso antropologo René Girard.

Secondo la tesi dello scrittore francese ogni comunità, per ristabilire la pace tra i suoi concittadini, individua scientemente un soggetto o più soggetti che vengono sacrificati, solitamente considerati più deboli o diversi; a volte può essere una sola vergine ma anche un re o un personaggio folle o strano, anche straniero. Attraverso rituali specifici, la comunità addossa loro la colpa della violenza endemica riportando e ristabilendo così l’armonia del gruppo. Un po’ di violenza su un individuo o su pochi individui risolve il problema, spiega a posteriori le morti e le violenze, ponendo fine alla violenza stessa. È la nota tesi del capro espiatorio.

Nel caso specifico i soggetti deboli, sacrificati per ristabilire l’ordine e la sicurezza della nazione italiana, o per deviare l’attenzione dai problemi più urgenti, sarebbero, secondo Fistetti, gli extracomunitari che giungono in Italia. «La figura del migrante – scrive il filosofo pugliese ‒ rappresenta icasticamente il rito sacrificale per eccellenza del mondo globale».

La tesi proposta a difesa dei migranti potrebbe reggere, da un punto di vista politico, senza ricorrere agli studi di Girard sul capro espiatorio, ma la fascinazione di utilizzare dati antropologici, che in prima istanza osservano e descrivono i fenomeni culturali, anziché sostenere, in senso letterale, l’argomentazione del filosofo pugliese, rischiano, a mio avviso, di confutarla. Invece di rafforzare la sua tesi, Fistetti rischia, ed è questo il motivo del mio intervento, di indebolirla. Eh sì, perché Girard ci dice che è proprio così, che la violenza esiste e non se ne può fare a meno: la natura umana è aggressiva e le comunità, con il capro espiatorio, si difendono dalla violenza stessa. L’analisi di Girard è una disamina disincantata della realtà: è quello che accade ed è sempre accaduto in ogni società!

Ma allora che dovremmo fare? Nella prospettiva girardiana poco o niente. Certo Girard, oltre che un conservatore, è anche un cristiano e tollera mal volentieri i comportamenti dei pagani; ma per lui anche Cristo era un capro espiatorio grazie al quale, morendo, avrebbe dovuto salvare l’umanità, avrebbe dovuto portarla con la sua morte, ‒ la morte di un Dio ‒ alla pace, ponendo fine ad ogni violenza. Ma questo ovviamente non è accaduto e forse non accadrà mai.

Il sacrificio, nell’ipotesi di Girard, come ho già accennato, serve solo a rimediare ad una grande violenza interna, una stasis, con una piccola violenza, uccidendo pochi individui per salvarne molti di più in una ipotesi tutta immunitaria per cui un po’ di virus (di violenza) inoculato nel corpo (sociale) salverebbe dalla malattia l’intero corpo. Di qui a parlare di “darwinismo sociale” come fa Fistetti, ce ne corre, anzi, l’analisi di Girard, per certi versi è compassionevole. Se bastassero alcune poche decine di immigrati a salvare l’elevato numero di persone che muoiono o moriranno annualmente in mare, sarebbe forse un sacrificio accettabile (almeno per i sopravvissuti). Se invece accadesse, ma ancora per fortuna non è accaduto, e si decidesse di eliminare o espellere tutti gli extracomunitari presenti sul nostro territorio, non saremmo di fronte alla descrizione propostaci da Girard del capro espiatorio ma saremmo allora sì di fronte a qualcosa di diverso che potrebbe ricordare il nazismo e le sue teorie eugenetiche.

Noto ancora un’altra incongruenza tra l’idea di Girard rispetto all’utilizzo di Fistetti. Per il primo il capro espiatorio serve sempre per risolvere un problema interno alla comunità: per porre fine alla violenza si espelle o si elimina una piccola parte di individui; ma nel caso dei profughi essi non sono ancora arrivati in Italia e quindi non è ancora in atto un vero e proprio sacrificio, anche se ipotizzassimo l’ipotesi più assurda che gli emigranti venissero scientemente uccisi in mare dalle navi militari italiane. Dovremmo semmai prendercela con quelli che già ci sono.

Forse l’idea che Fistetti ha del capro espiatorio sembra più avvicinarsi alla tesi dei francofortesi, in particolare di Adorno e Horkheimer presente nel saggio su La dialettica dell’illuminismo, dove per capro espiatorio si intende l’azione dei nazisti nei confronti degli ebrei, e degli americani nei confronti degli afroamericani, ispanici, italiani e ebrei, come è descritto anche nella ricerca sociologica svolta in America da Adorno e pubblicata col titolo La personalità autoritaria. Per i francofortesi il capro espiatorio funziona come valvola di sfogo della nevrosi sviluppatasi in una società competitiva e ultraliberale, entro cui si incolpano i “diversi” di tutte le aberrazioni e i mali compiuti all’interno della società. Tipico è l’esempio dell’espulsione prima e l’uccisione di massa dopo degli ebrei, colpevoli di aver cospirato col nemico, di aver condotto la Germania a perdere la grande guerra, di possedere le maggiori ricchezze del paese, di aver impoverito i tedeschi. Ma anche in questi esempi permane la dissonanza e la differenza tra nemico interno e nemico esterno.

Infatti, mentre gli afroamericani o gli ebrei erano nemici interni, gli emigranti, che arrivano sulle coste, per il momento appaiono ad alcuni solo un potenziale nemico interno e per adesso essi ispirano solo un misto di commiserazione e paura: una potenziale minaccia soprattutto per gli italiani più poveri che più di altri soffrono nelle periferie della microcriminalità (e non solo) degli stranieri che si va a sommare a quella nostrana (di qui si capisce facilmente, e non occorre uno studio sociologico per capirlo, perché la destra in questo momento prenda più voti della sinistra radical chic). Mi sembra esagerato dunque parlare, almeno in questo momento, di “darwinismo sociale” a proposito delle politiche migratorie dei governi europei.

La società capitalistica e liberistica (ma anche comunista), di cui io non sono certamente un difensore, ha sempre risolto il problema dell’assimilazione, considerata come la migliore delle proposte avanzate, con il lavoro. Per secoli siamo stati convinti che il lavoro (e lo abbiamo scritto perfino nel primo articolo della nostra Costituzione) rappresentasse il diritto fondamentale per vivere in serenità. Chi entra in Italia deve lavorare o va messo in condizione di lavorare e guadagnare per vivere dignitosamente. La cantilena, che si ascolta sempre, secondo la quale le fabbriche italiane hanno bisogno di manodopera, perché gli italiani non vogliono più fare certi lavori, si sposa bene con la tesi umanitarista che possiamo “prenderli tutti”.

Si costituiscano allora dei centri di accoglienza statali che funzionino da relè, da interfaccia con le industrie le quali lamentano la mancanza di manodopera. Non lasciamoli in giro a bivaccare o a vivere alla giornata, e questo non perché si comportano così perché sono stranieri ma perché se ognuno di noi fosse un migrante, in quella situazione, farebbe di tutto per sopravvivere: rubare, vendere droga, rapinare. Tanti albanesi (ma anche rumeni) che all’inizio non si piegavano allo sfruttamento (altro dato culturale: popolo pastorizio, fiero e orgoglioso) sono stati assimilati e ibridati con la cultura italiana solo dopo aver trovato lavoro, soprattutto nell’edilizia, e vivere con dignità.

Domandiamoci piuttosto perché non esistono politiche serie di accoglienza. Solo incapacità politica e organizzativa? O per foraggiare alcuni privati? Cooperative? La chiesa? Le Ong? Per mantenere uno stato di polizia e di allerta nella popolazione al fine di potere agire con tecniche di controllo sociale?

Allora, come scriveva bene Arendt, la compassione e l’umanitarismo, umani troppo umani, non ci aiuteranno a capire e a risolvere i fenomeni migratori. Occorre la ragionevolezza, che deve incontrare, per dirla con Foucault, la propria realtà.

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