Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a
L. Infantino, Cercatori di libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019, pp. 254, € 18,00.

Nella lecture con la quale nel 1883 assumeva la cattedra di Corpus Professor of Jurisprudence a Oxford appartenuta a Sir Henry Maine, Frederick Pollock sosteneva che il metodo storico e l’evoluzionismo erano la stessa dottrina applicata rispettivamente alle “società umane e alle istituzioni” e ai fatti della natura. Charles Darwin, con la sua “filosofia della storia naturale”, dunque, si era posto il medesimo scopo che avevano inteso perseguire, nella «filosofia della politica e della legge», Montesquieu Edmund Burke e Friedrich Carl von Savigny, i quali andavano considerati Darwinians before Darwin. Una qualifica che, per Lorenzo Infantino, andrebbe estesa anche a Bernard de Mandeville, a David Hume, ad Adam Smith e ai moralisti scozzesi che avevano aperto all’interpretazione delle dinamiche sociali – anzi, alla “scoperta della società” – attraverso i princìpi di quello che Joseph A. Schumpeter ha chiamato “individualismo metodologico”. Misurandone la vicinanza da questi, il docente di Logica e Filosofia della Scienza alla Luiss Guido Carli analizza nei Cercatori di libertà (Rubbettino, Soveria Mannelli 2019) nove figure del liberalismo: dallo stesso Hume fino a Domenico Settembrini, passando per Benjamin Constant, José Ortega y Gasset, Luigi Einaudi, Bruno Leoni, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, e Robert Nozick.

Spiega Infantino che la fonte dei fenomeni sociali più complessi va individuata non nell’opera dei soggetti collettivi reificati (la società, lo Stato, la Chiesa, la classe, ecc.), ma nell’azione umana; vale a dire nel più semplice elemento che è il singolo individuo: “ignorante e fallibile”, poiché dotato di conoscenza limitata, posto in una “perenne condizione di scarsità” che lo induce a risolvere i propri problemi attraverso una costante “cooperazione” con gli altri. Le azioni intenzionali, compiute dagli individui che cercano di perseguire i fini che hanno scelto, danno inevitabilmente luogo a “conseguenze inintenzionali”, nella formula di Carl Menger, tra cui le istituzioni e le stesse “regole della morale”. Queste, niente affatto naturali né frutto della ragione di un immaginario «Grande Legislatore onnisciente», costituiscono il contesto all’interno del quale si svolge l’interazione – in senso lato, e almeno per quanto concerne i mezzi, sempre “economica” – da cui sono sorte, che continuamente le sottopone a un mutamento dai contorni non predicibili. L’ordine, insomma, come recita il titolo di un’altra opera di Infantino, si produce senza piano.

Il nesso tra la “modestia” che dovrebbe per tali motivi caratterizzare l’immagine che l’uomo ha di sé e l’«istituzionalizzazione della libertà individuale di scelta» si ritrova nelle limpide pagine di La ricchezza delle nazioni. Lì Smith rileva la dispersione della conoscenza nella società e afferma la teoria della “mano invisibile”: ognuno, in base alla propria conoscenza “locale”, può giudicare sull’impiego dei propri capitali meglio di quanto potrebbero, al suo posto, “qualsiasi uomo di Stato o legislatore”, un “consiglio o senato” se si arrogassero un potere sempre più ampio e imponessero una cooperazione di carattere coercitivo. Viceversa, scrive Infantino, «dal momento che per conseguire le proprie finalità ciascuno deve fare qualcosa per l’altro, c’è fra gli attori uno scambio di mezzi che è del tutto intenzionale. Tuttavia, poiché non c’è una gerarchia obbligatoria dei fini, ciascuno coopera con gli altri in forma inintenzionale». Con la confutazione del «monopolio dell’ingegno», l’«intervento del potere pubblico» è allora «retrocesso al rango di complemento della cooperazione sociale volontaria». Deve cioè limitarsi alla salvaguardia di “princìpi generali”, le “condizioni che rendono possibile l’esercizio della libertà individuale di scelta” attraverso il “governo della legge”, non avendo il compito di “imporre di fare ‘il bene’”, bensì di “impedire a ciascuno di arrecare danno agli altri”.

Quello tra la limitazione del danno e l’ossessione di procurare “il bene” è uno dei maggiori punti di contrapposizione tra il pensiero di Hume e quello di Jean-Jacques Rousseau, che Infantino affronta a partire dalla frizione personale verificatasi allorché lo scozzese accettò di ospitare in Inghilterra il ginevrino, colpito nel 1762 da un mandato di cattura delle autorità francesi. La generosità di Hume fu infatti ripagata da Rousseau con l’accusa di essere stato l’autore, in combutta con gli enciclopedisti (la “cricca holbachiana”), di una falsa lettera con minacce nei suoi confronti, firmata dal re di Prussia e redatta invero da Horace Walpole. L’aver interpretato un malriuscito scherzo quale manifestazione della “congiura” che da tempo credeva architettata ai suoi danni svela, a ben guardare, il complottismo quale altro lato della mentalità ingegneristica. Infatti, mentre Hume vedeva nella società (e nella proprietà, nel denaro e nel diritto) l’esito della cooperazione volontaria, questa era, per l’altro, il frutto di un meditato “patto fraudolento” attuato dal “ricco”: pertanto sarebbe stato possibile abbatterla e riplasmarla, priva di ogni ingiustizia, prendendo a esempio il “collettivismo spartano”.

Rousseau e il pauperismo esaltato a Sparta, del resto, sono due dei principali obiettivi polemici del celebre discorso sulla Liberté des Anciens comparée a celle des Modernes pronunciato nel 1819 all’Athénée Royal di Parigi da Constant, il quale, rammenta Infantino, aveva era entrato in contatto a Edimburgo, l’“Atene del Nord”, con la concezione che, rinunciando al «punto di vista privilegiato sul mondo», aveva inteso la «vita sociale come un processo ateleologico» mosso dalle azioni individuali. L’influsso di The Wealth of Nations su Constant traspare fortemente nella sua diffidenza verso le interferenze del governo, più spesso latrici di vizi e privilegi, nelle questioni che attengono all’interesse dei singoli, e perciò nella sua apologia della libertà di scelta degli individui, dei loro storicissimi diritti e dei vantaggi del commercio. Ancor più affascinanti appaiono i paragrafi di Cercatori di libertà in cui si dimostra l’impronta della smithiana Teoria dei sentimenti morali nell’Adolphe, la cui trama si snoda sugli assunti della teoria delle conseguenze non intenzionali. La drammatica relazione con Ellénore, come il protagonista percepisce, non può prescindere da quel “terzo personaggio” che è il contesto degli uomini e delle regole, dei “modelli di comportamento” e delle “scale dei valori”. Essi, si è detto, originano spontaneamente e variano nel mezzo dell’interazione sociale, nella quale sin dal principio si costruisce la stessa personalità individuale, fornendo una bussola morale e la capacità di comprendere le aspettative altrui.

A tentare una separazione della «struttura della mente dalla sua evoluzione», postulando «un ‘io puro’, ‘antecedente all’esperienza’», sarebbe stato invece Mises. Agli occhi Infantino, però, ciò non pregiudica l’ancoraggio alla lettura delle dinamiche sociali degli evoluzionisti pre-darwiniani, a dispetto dell’assimilazione con il giusnaturalismo di Murray Rothbard operata da Nozick, il più distante dall’impostazione austriaca tra i liberali trattati nel volume. Basti solo pensare alla difesa misesiana della «nascita per via ‘organica’ (senza alcuna progettazione) del denaro» nell’epoca in cui si imponeva la statalistica «dottrina del prestatore di ultima istanza, centralizzatore della riserva bancaria unica», e gli argomenti per il laissez-faire inteso come «libertà individuale di scelta» e cooperazione sociale volontaria, soprattutto contro le varie ricette di interventismo e pianificazione economica, ma pure contro le sue interpretazioni razionalistiche.

Il momento più alto nella riscoperta della tradizione evoluzionistica di marca inglese e scozzese si ha però con il principale collaboratore di Mises, Hayek. A questi si deve probabilmente la più chiara esposizione novecentesca della critica, anche in virtù della tesi della “divisione della conoscenza”, alle fonti gnoseologiche del collettivismo – l’“abuso della ragione”, come recita il titolo italiano della sua opera del 1952, The Counter-Revolution of Science – e della concezione della “Grande Società” come cosmos, un “ordine inintenzionale” basato sulla libertà individuale.

«L’intera società», scrive Infantino, è vista allora come «luogo di un esteso processo competitivo», del «co-adattamento delle iniziative individuali» di cui «non è possibile conoscere in anticipo l’esito»; ed è messa a repentaglio dalle manipolazioni dell’economia da parte del potere politico (celebre a tale riguardo la disputa con John Maynard Keynes), che vorrebbe imporre il fallimentare “ordine prescrittivo” della taxis.

Se, si ricorda giustamente, fu Luigi Einaudi il primo a valutare attentamente nel nostro paese le teorie dei “giovani viennesi” Mises e Hayek, è stato Bruno Leoni lo studioso italiano di scienze sociali legato alla Scuola austriaca di economia ad aver avuto la più ampia “notorietà internazionale”, proponendo la teoria secondo cui la norma giuridica ha nel diritto una parte simile a quella svolta dal prezzo in campo economico. Entrambi, difatti, originano da uno scambio: dall’incontro tra offerta e domanda nel secondo caso, tra due pretese nel primo. E, giacché la pretesa “è sempre un particolare tipo di potere”, come “campo del potere” va tenuto quello del diritto: “un potere infrasociale, che riproduce i ‘molti poteri individuali esercitati anche a livello minimo’”, con la norma a delimitare l’ampiezza delle pretese, cioè a indicare “le condizioni di compatibilità delle azioni individuali”. Il diritto, allora, fa sì che si pervenga a un “ordine astratto”, senza predeterminarne la concreta configurazione, dal momento che questa scaturirà di volta in volta dal reciproco adattamento al quale si perviene entro i “rapporti intersoggettivi” che, asserisce Infantino, hanno contemporaneamente “carattere economico, sociale e politico-giuridico”.

A tale visione evoluzionistica e non finalistica (sulle concezioni finalistiche e sul loro uso tattico valga il saggio in cui si ricostruisce brillantemente la disamina a cui Settembrini aveva sottoposto le marxiste “teorie della crisi”) era giunto anche Ortega y Gasset. Dopo una fase che, per la formazione alla scuola dei neokantiani di Marburgo, gli aveva fatto ritenere il socialismo il corollario dell’idea che «ciascun individuo [fosse] scopo ultimo e fine in se stesso», egli aveva infatti subito, anche grazie alla lettura di Georg Simmel e di Wilhelm Dilthey, un riorientamento del quale La ribellione delle masse testimonia il traguardo. Lì, infatti, non soltanto si metteva in guardia dal pericolo di una democrazia illimitata, che avrebbe soppresso il pluralismo e imposto il dispotismo della maggioranza già paventato da Alexis de Tocqueville e prima ancora da Aristotele. Ma si contestavano pure il contrattualismo e il giusnaturalismo, benché sulla scorta di François Guizot e dei dottrinari francesi, da Ortega reputati gli europei che meglio avevano afferrato che «lo stato di libertà è il risultato di una pluralità di forze che reciprocamente si resistono» e che «veri diritti» non sono quelli dichiarati in astratto, ma quelli «via via apparsi» e «consolidati nella storia». Eppure, l’opinione di Ortega che il razionalistico “liberalismo individualista” avesse lasciato spazio a uno storicista (con accezione ovviamente non popperiana) e “non individualista”, secondo Infantino, è dettata dalla confusione semantica tra vero e falso individualismo che si ritrova in Edmund Burke e nell’autore di De la démocratie en Amérique, peraltro essi stessi «veri individualisti». Avrebbe infatti spiegato Hayek che questi, a differenza degli altri, non concepiscono l’individuo come un essere che vive e agisce “nell’isolamento”, ma in una continua interrelazione che produce linguaggio, costumi, diritto. È qui un non piccolo argomento a favore del liberalismo; per Ortega, «il più nobile appello che abbia risuonato nel mondo», «il principio di diritto in forza del quale il potere pubblico, sebbene sia onnipotente, limita se stesso e procura a proprie spese di lasciare posto nello Stato che esso dirige, perché vi possano vivere coloro che pensano e sentono diversamente dai più forti, cioè dalla maggioranza».

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