Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Sono trascorsi più di centosessant’anni da quando Henry Sumner Maine (1822-1888) pubblicò Ancient Law, un saggio che è molto più di una storia del diritto e che si interseca con la comparazione giuridica, l’antropologia giuridica e la sociologia del diritto. Gli studi del Maine fecero scuola nell’Inghilterra vittoriana; le sue ricerche sulle origini del diritto di proprietà e del contratto furono attentamente lette e meditate, tra i molti, anche da Karl Marx; mentre nel campo dell’antropologia le sue tesi sull’origine patrilineare della famiglia a lungo si confrontarono con le tesi dell’origine matrilineare delineate dal Bachofen.

Il grandioso affresco del Maine, acuto nei dettagli, stimolante nelle interpretazioni e polemico (contro l’astratto giusnaturalismo) nella storicizzazione e contestualizzazione, trova una sintesi efficace nella formula coniata dallo stesso Maine “dallo status al contratto”. La formula ha reso celebre il sistema di pensiero e i risultati storico-fattuali dell’Autore e starebbe a sintetizzare il passaggio progressivo di porzioni significative dell’umanità da una situazione, più arcaica, di inserimento del singolo in strutture sociali e di sangue più ampie e capaci di trascenderlo completamente (o di soffocarlo, a voler sposare una lettura interpretativa valorialmente orientata), a una situazione nuova (e piuttosto rara nella storia mondiale) di emancipazione e libertà del singolo, trasformatosi in soggetto autonomo, autoreferenziale, consapevole di sé e padrone del proprio destino.

Seguendo una tale ottica si potrebbe inserire la formula “dallo status al contratto” nel più ampio quadro della transizione lenta ma sicura dalle società del vecchio ordine alla nuova società liberal-individualista, e in particolare alla società dell’Inghilterra vittoriana e in senso lato alle società occidentali odierne. Ma questa impostazione non sembra esatta, sia in riferimento alle realtà nelle quali tutti noi viviamo e sia in riferimento a ciò che è ricavabile dalla stessa formula del Maine se letta con attenzione e opportunamente contestualizzata.

Anzitutto, limitandosi al mondo occidentale degli ultimi decenni e sorvolando sulle esperienze ideologiche totalitarie, non è affatto certo che la nostra sia la società del contratto, ossia delle libertà individuali di autodeterminazione. Certamente la libertà contrattuale intesa in senso tecnico-giuridico così come in senso latamente sociale, politico e economico forma oggi il pilastro più ragguardevole della nostra civiltà. Ma lo status è ancora tra noi; non si è estinto ed anzi continua a caratterizzare aspetti esemplari e per certi versi fondanti del nostro vivere civile. Il discorso potrebbe portarci molto lontano e in ambiti diversificati. Concentriamoci su due esempi tra loro diversissimi ma entrambi della massima importanza: il diritto del lavoro e la dottrina cattolica della Chiesa quale Corpo mistico.

Il diritto del lavoro, come noto, nacque per reazione all’individualismo giuridico di matrice liberale e alla “finzione” della eguaglianza delle parti contraenti e della loro reciproca libertà contrattuale. Già cinquantacinque anni fa (si pensi al giuslavorista inglese O. Kahn-Freund) si volle leggere il diritto del lavoro, proprio in polemica con la formula del Maine, come un ritorno sotto nuove vesti (la contrattazione collettiva) allo status, uno status non di soffocamento bensì di tutela e protezione del singolo. Ma Kahn-Freund si muoveva pur sempre all’interno di schemi contrattuali, perché la contrattazione collettiva veniva intesa come uno strumento di riequilibrio della parità tra contraenti. Tuttavia il diritto del lavoro conosce anche l’istituto degli usi aziendali quale fonte sociale autonoma. Un uso aziendale, come insegna oggi in Italia la Corte di Cassazione, realizza la disciplina uniforme dei rapporti di lavoro dove per tali non si intendono le singole individualità perché il terreno in cui si manifesta l’uso è la dimensione sociale, comunitaria e collettiva dell’intera realtà lavorativa: il datore di lavoro e la collettività uniforme e impersonale dei lavoratori attuali e futuri. L’uso aziendale – che nasce non dai contratti ma dalla spontanea prassi – prescinde dalla titolarità individuale dei contratti in essere e si estende a tutti i lavoratori, anche a coloro che non hanno ancora stipulato un regolare contratto di assunzione individuale ma lo faranno in futuro. L’insieme degli usi intesi quali fonti sociali eteronome non ha per proprio fulcro la contrapposizione dialettica tra singolo lavoratore e datore di lavoro e neppure la contrapposizione tra lavoratori collettivamente organizzati e datore ma è appunto una manifestazione spontanea – potremmo definirla consuetudinaria – del modo d’essere di quella “comunità sociale” altrettanto spontanea formata dalla totalità dei lavoratori (presenti e futuri) e del datore di lavoro.  È impresa ardua, concettualmente, ingabbiare il variegato e vivissimo mondo degli usi aziendali nello schema del libero contratto individuale o, anche, della contrattazione collettiva. Semmai esso presenta molte e nette analogie (si pensi all’idea di vincoli e protezioni anche per i lavoratori futuri) con la posizione dell’individuo all’interno della familia romana o, ancor più puntualmente, con il singolo lavoratore entro una corporazione. Qui la prossimità è con lo status, non col contratto.

L’altro esempio attiene a una dottrina organicistica mai spentasi e che anzi oggi conosce una rinnovata vitalità. Ci riferiamo alla dottrina della Chiesa cattolica quale Corpo mistico abbracciante i santi e i fedeli dell’oggi, del ieri e del domani. Il singolo fedele risulta inserito e anzi inglobato in un corpo spirituale superiore che lo trascende non solo come individuo ma anche come individuo storicizzato. La dottrina paolina del corpo mistico non è relegata, oggi, al solo mondo dei teologi ma investe la vita vera di ogni fedele, anche in rapporto alle colpe del passato. Quando poco prima dell’anno 2000 Giovanni Paolo II chiese “perdono” per tutti i cattolici dell’oggi a causa delle colpe commesse dai cattolici dei secoli precedenti sorse spontanea, nel secolarizzato e individualista mondo occidentale, la domanda su come fosse possibile che qualcuno potesse ritenersi responsabile di delitti commessi da altri molti secoli addietro. La risposta più autorevole provenne dal Pontefice e non conteneva nulla di nuovo rispetto alle tradizionali concezioni cattoliche [1]. Con lo stesso abito mentale è stato possibile attribuire alla Casa d’Israele, nel suo complesso e a prescindere dalle responsabilità individuali, la “colpa” della morte del Messia.

Abbiamo dunque visto quanto oggi il progressivo occidente, in ambiti cruciali (il lavoro e la religione, ma gli esempi potrebbero estendersi anche ad altri ambiti) che interessano direttamente decine di milioni di persone, resti piuttosto refrattario ad accogliere l’idea di una convivenza civile integralmente o prevalentemente fondata sul contratto individuale. Sembrerebbe quindi che la formula del Maine (e che Maine stesso volle limitata al solo occidente progressivo) sia più suggestiva che realistica. Ma è corretta una simile conclusione? Ritorniamo alla formula originaria e proviamo ad approcciarla filologicamente e a contestualizzarla in Ancient Law.

A conclusione del capitolo quinto di Ancient Law Maine, dopo aver chiarito che per status debbano intendersi soltanto quelle condizioni personali (di dominio e di soggezione) derivanti dagli antichi poteri della famiglia (e segnatamente dalla familia romana arcaica) ed estranee a ogni convenzione pattizia, scrive dunque: «we may say that the movement of the progressive societies has hitherto been a movement from Status to Contract». Il suo ragionamento si inserisce all’interno dello studio di progressiva emancipazione del singolo membro della familia dall’originaria e amplissima potestà del pater, con acquisizione (per i figli) di una sempre più estesa libertà di testamento, di contratto, di proprietà etc. La storia del diritto romano gli permette di seguire da vicino questa evoluzione giuridica. È chiaro dunque che per lo studioso britannico sia lo status che il contract vadano intesi in una accezione piuttosto ristretta e tecnico-giuridica. E in quest’ambito noi possiamo osservare che gli ordinamenti giuridici odierni tendenzialmente pongono l’individuo, con la sua libertà contrattuale, al centro delle relazioni e delle tutele.

Ma se allo “status” e al “contratto” si attribuiscono contenuti più ampi e al contempo ambigui, etico-politici, il discorso cambia. Maine, da solido empirista (e storicista), rifugge le astrazioni generalizzanti e niente è da lui più distante che la pretesa di tratteggiare una ideale società integralmente pattizia proiettata in un remoto passato o in un luminoso futuro. Anzi egli respinge la aprioristica dottrina del contratto sociale in quanto storicamente infondata (molte pagine di Ancient Law sono dedicate alla dimostrazione di quanto alle età più remote, per come noi possiamo storicamente conoscerle, fossero estranei i concetti di “individuo” e “libero contratto”). Va aggiunto che Maine stesso non ha l’ambizione di enunciare leggi giuridiche o sociologiche di valenza universale e più volte egli insiste nel circoscrivere le “leggi” di tendenza che scopre con i suoi studi di scavo alle sole società indoeuropee, e soltanto ad alcune tra queste. Inoltre la formula contiene una limitazione cronologica (“hitherto”, finora) dubitativa sugli sviluppi futuri, tale quindi da non escludere, nello stesso ambito dei rapporti giuridici privati, un movimento retrogrado dal contratto allo status. Non Maine ma altri studiosi intesero forzare e, forse, strumentalizzare la formula dello studioso inglese per accelerare la fuoriuscita dell’Inghilterra (e dell’Europa occidentale) dalle pastoie di tradizioni e consuetudini e concezioni politiche ancora legate all’universo mentale comunitario e degli status. E anche oggi non mancano tentativi (soprattutto in  Nord America tra i libertarians) di arruolare sir Henry Maine tra i fautori della illimitata libertà contrattuale tra individui in un mondo senza più gerarchie, comunità, corporazioni e financo Stati.

Ancient Law resta opera ragguardevole e pionieristica di studio giuridico e sociologico, e meritoriamente viene annoverata tra i classic books che ogni giurista dovrebbe conoscere. Maine non intese conferire al suo lavoro alcuna intonazione ideologica o politica, ma in altri suoi scritti (in particolare in Popular Government) emerge con chiarezza il conservatorismo del grande studioso e la sua argomentata diffidenza per le aprioristiche ideologie del progresso e dell’utilitarismo allora in gran voga. Scevro da estremismi, Sir Maine, come efficacemente scrisse Russel Kirk, «became a conservative» quando si accorse che il movimento della società, col profilarsi all’orizzonte del socialismo, stava diventando «retrogressive». Questo dato non va dimenticato ogniqualvolta ci si riaccosti alla formula from Status to Contract.

NOTE

[1] «È doveroso riconoscere che la storia registra non poche vicende che costituiscono una contro-testimonianza nei confronti del cristianesimo. Per quel legame che, nel Corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto […] L’umile riconoscimento delle colpe proprie e altrui è fondato nella consapevolezza del profondo vincolo che unisce tra loro tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo» (Giovanni Paolo II, Incarnationis mysterium, Bolla di Indizione del Grande Giubileo dell’anno 2000, § XI, 29 novembre 1998).

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